Venerea
Mentre m'allontanavo, deluso dalla cosa, un sax contralto lasciava perdere delle scale, senza alzata, da cui potei involvermi per entrare nel pane di un'impetuosa vena fluttuante nel marmo ma. Ma un fossile passeggero inserì di colpo del ruggito muto allo scopo di farmici inciampare. Ed io caddi, di per cui, infagottato ed al tramonto. Poi fui inghiottito intero da tre lune di pappa gassosa ed espulso triangolare in sette pozze di stelle cadute per sbaglio. Non sapevo. Giuro non sapevo. Non sapevo fra loro si rischiarava il bianco tappo che dovevo togliere, eppure quando l'incontrai stappai tranquillo. N'ero certo! Ciò che sarebbe dovuto accadere stava già infatti ampiamente successo e così, come da eterno copione, dal nuovo aperto non uscì altro che un solito nuovo infinito d'attraversare. Ciononostante. Ciononostante aprii la porta sul fondo della scale di torrone e la vidi. Lei stagliata e cigno nella risacca nera sui canali del buio. Lei. Lei che non sentiva, non vedeva, non amava e non guaiva. Era lì immobile e scultorea, bellissima callipigia.
Era lei. Venere. E discinta nel suono del non sax addirittura sapeva di caramello. Colava su di lei la luce del lampione ed incontrastato il suo cuore pulsava al ritmo dei fiori notturni. Però la bella di notte stava bella, troppo bella. Indi presi la rincorsa e con un calcio l'affondai proprio all'incavo delle ginocchia. Si ruppe in mille pezzi e. E pertanto seppi non serviva proprio a nulla. Giusto come avevo sempre sospettato tra l'altro e. E ne fui felice, ora potevo andarmene riparato. Al che presi le mie quattro ossa, due peroni e due costole e strisciando scesi dal marciapiede. Una lumaca a farmi strada. E guarda caso. Guarda caso le macerie del giorno allora aspettarono prima di schiacciarmi. Aspettarono. Aspettarono. Aspettarono.
P.s.
In collaborazione con Viola Bosio