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L’alba dipinge i lineamenti del tuo volto, quando sei immerso nei raggi rosa di un cielo terso.
E’ presto ancora, sussurrano gl’uccelli nelle orecchie, come se dessero il buongiorno.
E’ così un nuovo giorno, s’affaccia nelle nostre mani, in quelle grandi ed immense dei coltivatori, dei pescatori, dei muratori.
Silenzio, silenzio…
Osserva le viole e le primule, betulle e gerbere ondulare in una danza romantica al soffio del lieve e fresco vento; che si affretta a nuotare sulle rive dell’oceano.
Mattine così, vogliose di rispetto e amorevoli; non ne capitano spesso.
Di solito si è già nervosi, troppo impegnati ad amare e ad ascoltare quello che la natura ci supplica.
Siamo vegetali ciechi d’accidia e superbia; abbiamo un corpo sbilenco, pronto a dondolare dove va la massa. Non vediamo e né sentiamo ciò che di bello e sereno è accanto a noi.
Spesso lamentosi dei soldi, della tristezza e depressione che ormai ci invade, senza scorgere le labbra e le ciglia fuori dalle persiane. Potremmo percepire l’infinito mescolarsi col tempo e le nostre anime.
Scandiscono frenetici gl’attimi senza che ce ne accorgiamo,spendiamo il tempo nell’avvenire costruendo sentimenti di cristallo e emozioni di lividi, che tumefatti tatuano il viso.
Il cuore è l’amore in materia corporea, pulsa d’emozioni che si dispera nel pianto. Amara malinconia dipinta nell’anima riflessa dai colori tersi degl’occhi. La magia è spenta ed è momento di agire.
Sollevarsi dopo una caduta, quando tutto correva felice nei giorni, meravigliose le lune apparivano e i ricordi dolci collezioni annuali. Ora non puoi correre più, a stento ti rialzi dalle macerie sconfitto nel nome e nell’orgoglio e zoppichi nella terra troppo fangosa, che sporca,ora scarpe e anima.
In fondo è una pozzanghera che si lava quando inizia a piovere. Cosa puoi scorgerci in essa?
Un viso deforme, dal colore grigio Londra tutto addosso ad un corpo sbilenco, che lacrima brina dagl’occhi ferendo l’anima. Del resto non passerà molto prima che si asciughi, ma sempre debole al sole di ottobre.
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Ricordo l’ultimo raggio di sole di ieri. Te l’ho regalato; potevano essere le ventuno. Dinnanzi v’era una grande e scura montagna che brillava a stento di luci appena accese. Gl’alberi stavano per denudarsi alla morte che s’avvicinava. Scorgemmo i nasi per sentire il profumo della pioggia sulla terra bagnata. Il mio profumo preferito. Ed era lì incastonato, come i ricordi che ci portiamo dentro, tra le nubi buie e spezzate di una tetra notte labile di pensieri. Le costellazioni sono morte. Esclamai nel silenzio di quel viale, perché le lacrime celesti si fanno da parte per meravigliarci; noi che siamo inermi sognatori.
La casa sembrava umida, sembrava fredda e gelida. Tutto quello che gl’occhi hanno scorto un attimo prima sembrava fosse impossibile, illuminare quel corridoio, vuoto.
Tutto quello che c’era stato tra noi, poco prima sembrava il gran regalo della natura.
Lì al campo, tra i vetri velati e sussurri vogliosi; che accecava tiepidamente innalzatosi nella sera battente tra fronde morte cieche di sussurri
Di fronte le mie mura, altre si cingono di luce.
Quando al tramonto dei sentieri, scivola leggera la foglia appassita per la stagione gialla, croccante per linfe cadenti. Nella penombra silenziosa i fruscii si moltiplicano al chiarore della nuova e diversa luna dai crateri ghiacciati sorridenti. Ed è aura tra rami e steli dove biechi dormono gli scoiattoli mansueti.
Toni violacei dal sapor agrodolce nel dipinto della sera accintasi.
Sentimenti d’emozioni cruenti sgorgano negl’ animi nel tempo prolungandosi negli uomini.
Eccoli festeggiar e destreggiarsi tra calici e ottime pietanze di chissà quale eremita, hanno ucciso profeti e messia per qualche spicciolo di speranza. Ascolta la voce rauca e debole della saggezza d’oltre tempo intraprendere il cammino nefasto di gioventù spezzate; ascoltala avanzare lenta penetrare nelle vescicole tortuose, è sofferente, è in cerca di una perpetua fine.
Il sapore di ginestra speziata sorvola le narici dei convitati ignari delle promesse e dei sotterfugi ancorati nel pozzo.
Lontano le miglia del profondo ventre di una contea, attraverso le brughiere in fiore, alla settima latitudine sud ovest se conti i sette passi dal sole in alba e dividi il raggio lucente per il nome dei tuoi passi… lì ti trovi a echeggiare il tuo nome.
Non importa quale sia.
E’ tempo di viaggiare, di mettersi in moto verso le lune zingare e gitane.
Misericordia e beatitudine t’accompagneranno.
Ecco, che svegliai gl’occhi dalla mente fervida.
Quando ormai, il ventre è una poltiglia di sensazioni di accidiose verità, quando i gemiti divengono sacrifici di dolori e piaceri. Eccola la mano.
Pesante di passi e putrefatta in viso incessante di similitudini che rammaricano.
Perché picchiavi… forte. come fossi un maiale da macello. I tuoi occhi li ricordo ancora… rossi, di fuori… che poi lacrimavano il perdono.
Scema lo sono stata… fin troppo. Ma il futuro è alle porte.
Ricordo il respiro diverso, nuovo. Occhi di miele che danzano e sussurrano amore.
I tuoi. Solo i tuoi ad incastonarsi nel mio animo peccaminoso.
Ivan. Ivan.