A mia madre

‐“Devi scrivere di mamma..”‐ mi dice spesso mia sorella, Lilia. ‐ “Perché non l’hai fatto ancora?”‐
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Ho cercato le prime immagini di mia madre nelle prime sequenze di vita di quel bimbo, che io ero, a Villa Adela, a Serravalle Scrivia, dove ho trascorso gli anni più fragorosi della mia vita, dai quattro ai sei anni. Ne ho rinvenute poche, frammentate. Quadri con voci e fondali, dove lei non appare mai, in primo piano, forse inglobata da quella magica simbiosi che fa, di un figlio e una madre, un pezzo solo di carne e spirito. Lei, troppo giovane, per affiorare in un mondo di anziani, genitori suoi e paterni, figure solide, forti, invadenti, sfollati, in fretta, dai bombardamenti di Genova.  Sudisti e nordisti, obbligati a vivere per necessità, gomito a gomito, una vita scomoda. Il primo ricordo? Le pezze di acqua e aceto, nelle notti di febbre. Avverto, ancora, il peso della sua mano, che depone il panno gelido. Dopo il Causith, la febbre scendeva per crisi, lasciandomi prostrato, in un bagno di sudore. Il cambio del pigiama, nella stanza fredda, fatto in fretta, in piedi sul letto. Il sonno rassicurante mi attendeva, dopo il bacio. Il suo canto di mattina, al risveglio, per le stanze della vasta villa. La radio non era ancora la sorgente dei suoni. La gente cantava. Papà era grande, in bagno, alla barba, con “vieni c’è una strada nel bosco”. Mamma, con “ ma l’amore no, l’amore mio non può”. L’ora della merenda, alle quattro: pane, burro e zucchero, preceduto dal suo richiamo, a me, che andavo, libero, per campi. Risento la sua voce tra gli alberi della villa, che sembra cercarmi. Un inverno gelido di neve e ghiaccio: toccava scendere per un viottolo, sino alla pompa del pozzo. Una ruota, da far girare, mandava su, in villa, l’acqua al grande serbatoio. D’inverno ghiacciava. Mamma, la più giovane, si avviava con una pentola di acqua bollente per sgelare il congegno. La vedo rientrare in casa, sul riquadro della porta, coperta da pezze di lana. Dalla mano destra cola sangue rosso. “Sono scivolata sul ghiaccio” Mamma era meridionale, di Petralia Soprana, Palermo. Il senso tragico, greco, se l’è sempre portato dietro. Una lite con sua sorella, zia Maria: urli e strilli, in uno sfondo di luce mattutina. Entrambe si tirano per i capelli, forsennatamente. Generano polvere luminosa, in quell’azzuffarsi. I parenti, invano, cercano di districarle.  Quei capelli, che mi tirerà durante le ore di studio, lei affianco, ed io svogliato. Provo ancora quella sensazione dolorosa d’intercapedine tra i capelli e il cranio. Io, all’inferriata della finestra del pianterreno, osservo fuori: neve nei campi, alta, bianca e sugli alberi colmi. Mamma e zia, ragazze, che corrono, verso casa, affondando a mezza gamba. Un caccia scende rasente sul pendio della collina. Il fragore del motore. Passa a pochi metri dalle loro teste. La casa trema.  “Dio! Se mitraglia!” Una voce alla mia spalla sinistra, mi mette panico. Piango e urlo: “Mamma!”. Il viso premuto sul vetro freddo, che si opaca al fiato. Mamma e zia continuano a correre verso casa, tra nuvole di neve. Mi sembra di udire le loro invocazioni. L’aereo ritorna, dopo un’azzardata virata, scende, con un rombo assordante, a pochi metri dalla casa.  –“ Sta ridendo, sta ridendo! Hai visto il pilota rideva! ‐ La stessa voce. Mi rassicura. “ Ha giocato al gatto e al topo!”. L’aereo scivola verso l’orizzonte. Bombardano il ponte sullo Scrivia; la villa trema, i vetri cadono a pezzi, su di noi, che stiamo chini nel sottoscala. Mamma, sicura e calma, a noi, che premiamo le mani sulle orecchie, per non farci saltare i timpani: “ I grappoli di bombe, scendendo, urtano tra di loro; si sente il tà‐tà‐tà, metallico, prima dello scoppio.”‐ A sera, gli ufficiali tedeschi vengono a gustare il Nocillo di nonno Angelo. Papà mette sul grammofono, Lilì Marlene. Questo motivo rassicura tutti. Si ascolta in un silenzio religioso, quasi fosse una preghiera. Mamma e zia, sono ai piani superiori. Per ordine di nonno Angelo e nonna Amina, non devono scendere. Avverto il loro silenzio, la sua mancanza. Il suo amore per le piante, per i fiori. Le ginestre la facevano impazzire. Il suo volto, tra un mazzo enorme di gialle e profumate ginestre, ritorna negli anni, sorridente, a ogni primavera. Una mattina arrivò Fofò, amico d’infanzia di mamma e zia Maria, da Potenza. Ha la divisa da graduato tedesco. –“E’ un furbacchione!”‐ Io lo sto ad ammirare con stupore. Mamma e zia sembrano ritornare bambine. Per la prima volta qualcuno mi regala giocattoli. Ne riempio due cassetti. Dovrò imparare a giocare. Fofò ritornerà, a guerra terminata, col distintivo del Partito Comunista. Risentirò: “E’ un furbacchione!” E’ primavera, forse, in villa esplode un pandemonio di felicità. Urla, risate s’intrecciano nelle varie camere. Qualcuno dal paese, è arrivato urlando: “L’armistizio!” Divento una palla da far saltare dalle braccia dell’uno all’altro.  Rido anch’io. Quel ragazzo che sale, affannato, su per il viale alberato, urlando:‐ “I partigiani hanno arrestato suo marito. In paese, dicono che fosse il federale di Genova”.‐  La tragedia riappare sul volto e i gesti di mamma. Papà era un semplice impiegato, si appurerà. Mamma si coprirà di un eczema per anni. Il mio primo giorno di scuola, in paese, l’esame, da privatista, dalla prima elementare, fatta con nonno Angelo, alla seconda elementare. Appena scompare il suo volto, dalla porta dell’aula, mi prende un vomito irrefrenabile. Lo spazzino del paese è chiamato in aiuto. Genova, casa nuova, la guerra è terminata. Ho una camera tutta mia. Mamma, a sera, è stata sostituita da un lumino da notte.  Non mi basta. Le persiane resteranno aperte a far entrare la luce della Lanterna, più rassicurante del piccolo lumino. Resterò, a scuri aperti, per tutta la vita. E’ un pomeriggio autunnale di giorno feriale, mamma mi porta dai suoi genitori. Genova è di sole e di mare, alla Foce. I baracconi si stanno montando per le feste. Noi, li s’attraversa. Scorgo, addossato al legno di un capanno, mio padre. Abbraccia una donna bionda, voluminosa. – “Mamma, guarda, c’è papà!”‐ Un riflesso di natura, senza un frammento di ragionamento. Solo dopo pochi istanti, compresi il danno che avevo creato. Mamma tornò meridionale e tragicamente greca, in una furibonda scazzottatura. Mamma, non vi ho detto ancora, era molto bella. Salita in Liguria con i genitori, aveva abbandonato un mondo di elite. Da ragazza andava a sciare d’inverno, (dei suoi pantaloni da sci, ne ricavammo uno, alla zuava, per me, che portai per parecchi anni, d’inverno) aveva volato sui quei trabiccoli scoperti, della prima guerra mondiale, a due posti. (“guai ad aprire la bocca, al vento, nelle picchiate, non si richiudeva più!” – mi aveva sempre affascinato questo particolare aviatorio) e le vacanze, a Livorno, erano un film, a raccontarsi. Gli Orlandi, questi ricchi fratelli, con panfilo ,di cui lei parlava sempre, chi saranno mai stati! Sposatasi a diciassette anni con papà, impiegato, aveva incontrato tutte le resistenze e i pregiudizi dei suoi genitori verso una meridionale. Aveva una bellezza semplice, elegante.  Ai miei primi pantaloni lunghi, quando, nelle gite in campagna, ci raggiungevano i lazzi di qualche passante, che ci scambiava per una coppietta, ricordo che ne restavo turbato. Da tempo se n’è andata, frantumandosi ossa e cervello, come lei non avrebbe mai voluto, in quel pessimo gran finale, che ci attende, al fine di una vita. Sino all’ultimo giorno voleva essere “a posto, con capelli e viso”.