Achille
Il caffè. Chissà come mi era potuto venire in mente una cosa così stupida in quel momento. Ma d’altronde era vero: lo avrei preso davvero dopo la mia corsetta intorno al quartiere. Che mattina radiosa di sole il 28 aprile! Una corsetta mi avrebbe certo fatto dimenticare o perlomeno avrebbe posticipato il pensiero della mia misera esistenza. Mantenere il corpo in esercizio sempre, a qualunque costo, la mia filosofia di vita. La filosofia che doveva essere quella degli italiani e che non hanno capito; anzi, hanno preferito non capirla, quella massa di panciuti e parassiti! Io mi accontento e mi sono sempre accontentato anche delle mense dei poveri: mangio per vivere, non vivo per mangiare!
Ma adesso i problemi sono altri. Cosa vogliono da me questi individui? Scalmanati con i loro fazzoletti rossi al collo. Gentaglia che, insieme agli ebrei, avevo giurato di estirpare con il Capo durante i bei tempi. E’ forse questo il prezzo del fallimento? L’essere insultato fino alla fine? Schernito dai lacchè, odiato dagli arrivisti, disprezzato dai poltroni e adesso i banditi mi insultano e mi percuotono. Lasciatemi dico, grido, sussurro ma so che tutto è inutile. Tocca seguirli. Chissà se sono venuti per me o ,al contrario, sono semplicemente il risultato di una caccia fortunata…Lo vorrei chiedere ma temo la loro risposta. Io credo che tutti si siano dimenticati di me. Sono solo un ricordo lontano per gli italiani e per il Capo. Figuriamoci per loro. Eppure questi mi trascinano. Calci e pugni. La bocca mi fa male ma non piango. Non do soddisfazione ai banditi.
Milano mescola macerie all’aria della primavera; le strade sono ancora in buone condizioni tenuto conto dei bombardamenti. Erano mesi che non passavo da queste parti, da questi quartieri: Porta Romana poi, non ci avevo mai fatto caso a quanto fosse bella. Peccato sia deturpata da quelle maledette bandiere rosse. Sembra di stare a Mosca. L’automobile sfreccia per le vie della città, mi sembra di stare in movimento da ore. Chiedo che ore sono: e l’ora che la paghi e ridono, ridono quelli scellerati! Non ridevano fino a 10 anni fa. Quando avevamo il mondo ai nostri piedi. Prima acclamavano tutti e adesso tutti odiano. Italiani! Ecco il frutto della propaganda ebraica. Mi viene voglia di sferrare un pugno a questi disgraziati; cosa ho da perdere? Io sono morto, lo so. O forse mi vogliono solo umiliare, non so. D’altronde cosa ho mai fatto di male? Se c’è una persona che più ha sofferto la guerra questa sono io: in Abissinia ho perduto camerati fedeli, poi Lumezzane e il campo di concentramento. Esiliato dal mondo. Cosa vogliono ancora? Che forse vogliano servirsi di me per il futuro? No, lo ha detto chiaro, “è l’ora che la paghi”. Niente illusioni.
La macchina si ferma. Scendi, mi urlano, scendo e mi trovo addosso donne e uomini che mi sputano addosso e mi schiaffeggiano in testa. Quella donna ha provato persino a lanciarmi addosso ortaggi; sono in loro balìa. I miei carcerieri adesso sono diventati le mie guardie del corpo, sembrano preoccuparsi della mia incolumità (ma sarà così poi?) e scacciano urlando tutti quei selvaggi. Ma i segni sul corpo ci sono eccome: qualcuno mi ha colpito sulla gamba con un calcio o con un bastone non so. E adesso dove mi portano? Il Politecnico? Cosa faccio al Politecnico? Non faccio in tempo a chiederlo e mi trovo scaraventato in un aula, già occupata. Mi puntano un mitra contro. Ci siamo, penso. E invece no, incomincia il processo al criminale di guerra Achille Starace. Il giudice, o presunto tale, parla, i membri della corte mi fanno domande ma sembra che non vogliano neppure sentire le risposte. Le risposte già le hanno. Crimini di guerra? Cosa sono? Chi ha mai visto una guerra senza crimini? Lo dico, questo lo voglio dire a costo di farmi riempire di pugni ma il giudice grida “silenzio! L’imputato non è interrogato”. E allora cosa ci sto a fare in quel posto? Forse, visto l’ambiente, il giudice si crede il docente che insegna e io sono solo lo studente che prende appunti. Sto per domandare del mio avvocato ma subito mi rendo conto che sarebbe una sciocchezza: questo non è un processo, questa è una sentenza già scritta. Il tribunale del popolo si ritira per deliberare: ci impiegano dieci minuti. In nome del popolo italiano (quale popolo poi?) il criminale Achille Starace è riconosciuto colpevole. Mi toccano le spalle, mi abbracciano e si fanno fotografare sorridenti, mitra in mano. “Sorridi bestia” mi dice una donna. Sorrido. Chiedo un po’ d’acqua, mi arriva subito e mi danno anche una coperta. Stanotte rimarrò li. E poi?
La notte passa. Per la verità sono riuscito ad addormentarmi con facilità anche se ogni tanto qualcuno mi sveglia per fotografarmi e riversarmi addosso insulti di ogni genere. Mi avevano anche portato da mangiare ma lo stomaco è chiuso. E poi chissà quando avrei potuto smaltirlo, questi vanno in giro solo in macchina, sfaticati! E’ tempo di andare mi dicono, mi portano di nuovo fuori e l’aria del mattino mi investe con tutti i suoi profumi. Camminiamo un po’ e intanto sento un vociare che cresce sempre di più. Arriviamo in un grosso incrocio dove c’è gente tutta affollata intorno. Ogni tanto si sentono degli spari, adesso ho paura, mi sento inerme, sono circondato e spinto da questa massa, non vedo neppure più i miei “vecchi” carcerieri. Due persone mi prendono sottobraccio e mentre mi spingono uno dei due mi dice di guardare in alto. Allora mi accorgo di tutto. Delle persone sono appese sulla pensilina di un distributore. Ma non le riesco a scorgere. Sono a testa in giù. Poi sempre quello di prima mi dice di salutare il mio Duce. Guardo bene e lo vedo. Ha il viso che non si riconosce. Mio Dio! Il Duce! Non riesco a parlare, sento solo le risa e gli insulti. Vicino a lui una donna, ma non è Donna Rachele. Sembra quella puttana della Petacci. Ma non ci giurerei. “Ammazzalo quel fascista!” si sente urlare. Va bene. E allora così sia. Dico loro di fare presto. Sento caricare i mitra. Si avvicina la fine, lo sento sulla pelle ma prima voglio salutare il mio Duce. “W il Duce” grido o penso di gridare perché poi non sento più nulla. Tutto è buio.