Ada
Prologo
Ada è seduta davanti alla finestra e, come sempre, guarda fuori, verso l’oceano.
La mia piccola Ada, così fragile, diafana, con quei suoi capelli lunghi e biondissimi, gli occhi grigio‐azzurri, le mani affusolate, la pelle bianchissima.
Assomiglia sempre di più ad una di quelle fotografie scattate nel ‘45 ai prigionieri dei campi di concentramento nazisti: visi scavati con enormi occhi ed enormi orecchie, corpi emaciati, senza più traccia di umanità.
Ada non pronuncia nemmeno una parola da ormai otto anni, mangia solo se imboccata, dorme solo se messa a letto in posizione fetale: la sistemi così alla sera e così la ritrovi al mattino. Ada, oggi, compie quattordici anni.
I
‐ “Ada, per cortesia: puoi andare giù dalla zia Elide e chiederle un uovo che voglio fare la torta per la nonna?”
‐ “Va bene! Posso prendere l’ascensore? Faccio fare solo un giretto a Piccio, poi torno subito”
‐ “Uff! Lo sai che non voglio! Hai solo sei anni! E se l’ascensore si blocca cosa fai? “
‐ “Ma dai mamma, non lo sai? Basta premere il bottone con disegnato il campanello!”, ed era già sul pianerottolo che premeva il pulsante di chiamata con il muso di Piccio, il suo maialino di peluche rosa, saltellando come un canguro, su un piede, poi sull’altro, poi su tutti e due, canticchiando la filastrocca che la zia Elide le aveva insegnato qualche giorno prima.
‐ “Dlinnn!”
L’ascensore apre la sua bocca e Ada ci salta dentro pestando il piede sinistro all’uomo che lo occupa per metà. Alto, con la barba e i capelli rossi, la divisa e il berretto di una ditta di spedizioni internazionali, una penna infilata dietro l’orecchio destro, una lunga catena legata ad un passante della cintura dei pantaloni con attaccato un enorme mazzo di chiavi tintinnanti.
‐ “Buon giorno signore!”‐ e intanto le piccole dita schiacciano tutti i bottoni della pulsantiera ‐ "vedrai che bello Piccio, andare su e giù…"
Venti minuti dopo, il campanello dell’ascensore urla furiosamente la sua rabbia, bloccato al seminterrato, con le porte che si chiudono e si riaprono con un ritmico pulsare, bloccate da un maialino di peluche rosa di nome Piccio, unico testimone del più bastardo dei crimini.
II
Quando la presi in braccio, mi sembrò che avesse perso peso e consistenza, rarefatta come un miraggio in mezzo al deserto. Completamente inerme, la testa riversa all’indietro, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Il sangue le colava abbondante da in mezzo alle gambe e gocciolava sul pavimento in cemento del garage, ad ogni passo che facevo di corsa verso la macchina, lasciando una scia come le briciole di pane di Pollicino.
Mentre l’auto correva veloce verso l’ospedale Ada fissava il vuoto con ottusa fissità, senza mai nemmeno sbattere le palpebre per proteggere dalla luce violenta del sole quei suoi bellissimi occhi grigio‐azzurri. Con delicatezza glieli chiusi, come si fanno con i morti.
III
Terapie con i cavalli, i delfini, i cani. Trattamenti con la musica, le immagini, i colori. Massaggi, bagni profumati, pietre calde. Nulla. Niente. Vuoto assoluto, come lo sguardo fisso che rivolgeva al mondo, ostinatamente puntato oltre la linea che ne delimita il confine all’orizzonte.
Abbiamo anche cambiato casa, cambiato città, cambiato stato.
Ora abitiamo in una bellissima villetta, praticamente di fronte all’oceano, con un bel giardino e un lungo viale alberato che porta al piccolo cancello d’accesso alla spiaggia.
Suo padre, il mio compagno di sempre, non resistè a lungo all’angoscia e alla frustrazione dell’impotenza. Preferì andarsene lontano, con la scusa del lavoro. Tornava a casa solo per Natale e solo per qualche giorno. Ci spediva grosse cifre di denaro, una volta al mese, e regali di ogni tipo. Lunghe e tristi lettere scritte su fogli di carta giallina, cartoline di ponti e cattedrali, grossi scatoloni pieni di bambole e dolci.
Quante volte ho sognato che succedesse qualcosa o che arrivasse qualcuno che fosse in grado di scuoterla, di risvegliarla. Sapevo, perché me lo avevano detto anche i medici, che un altro forte trauma l’avrebbe forse aiutata. Ma non sapevo come fare, soprattutto perché solo l’idea di farle rivivere qualcosa anche solo di simile a quell’orrore mi risultava impossibile.
Ma lo sappiamo tutti: nessuno può far nulla di fronte al destino.
IV
Quindi, Ada, oggi, compie quattordici anni.
Il suo sguardo è perso nell’oceano e il suo corpo ha abbandonato la sua mente, fluttuando dentro a quei vestiti che mi ostino a comprarle della misura adatta alla sua età ma non alla sua magrezza. Il sole è forte e alto nel cielo azzurro e una leggera brezza tiepida entra dalla finestra gonfiando dolcemente le tende. Seduta accanto ad Ada, sbuccio delle piccole patate, dalla polpa bianca e croccante.
Il campanello mi sorprende facendomi sfuggire di mano patata e coltello.
Lo spioncino della porta mi restituisce l’immagine di un uomo in divisa.
‐ “Speedy International, signora. Ho un pacco urgente da consegnarle”.
‐ “Le apro subito!” gli grido attraverso la porta, aprendo catenacci e girando chiavi.‐ “Ecco qua, signora”, e mi consegna un grande pacco che riconosco provenire da mio marito.
‐ “Firmi qui per favore…”, e mi porge una penna che ha appena sfilato da dietro l’orecchio destro. Prendo la penna e, mentre mi accingo a firmare, l’uomo solleva una lunga catena legata ad un passante della cintura dei pantaloni, con attaccato un enorme mazzo di chiavi tintinnanti che fa roteare.
Un attimo dopo l’uomo è steso a terra, gli occhi sbarrati e la bocca spalancata in un’espressione di enorme stupore.
Un abbondante fiotto di sangue sgorga ritmicamente in corrispondenza del coltello con cui un attimo prima stavo pelando patate, piantato all’altezza dell’inguine.
Ada, ora, è stesa a terra lì vicino e dorme tranquilla, abbracciata al suo Piccio.
VNon so dove lei abbia trovato la forza, non so proprio come lei abbia fatto. So solo che in dieci minuti tutto il sangue che quell’uomo aveva in corpo è uscito, formando un torrentello che lentamente si è avviato, in un moto autonomo, verso la griglia di scarico in fondo alle scale.
Non so se aveva famiglia, una moglie, dei figli. Forse no, era piuttosto giovane. Non ho nemmeno guardato i documenti: li ho fatti a striscioline che poi ho minuziosamente annegato nel water.
Ho fatto molta fatica a scavare la buca in giardino perché era alto quasi un metro e novanta. Ci ho messo tre notti piene. Ho faticato molto anche a trascinarlo giù e a sotterrarlo: ho faticato veramente molto.
Con la stoffa dei vestiti ho fatto dei tappetini che ho dato alla parrocchia per la raccolta di fondi per i poveri. Ho imbiancato le pareti dell’atrio, grattato e riverniciato la porta d’entrata, smacchiato il tappeto con l’ammoniaca.
Ho pulito tutto, accuratamente. Nessuna traccia. Nemmeno una gocciolina di sangue, un capello, un pelo. Nulla.
VI
Ada ha ricominciato a parlare, come se niente fosse stato, come fosse appena uscita per scendere dalla zia Elide a prendere l’uovo per la torta. Ho preso degli insegnanti privati che le stanno facendo recuperare gli anni persi. Ha anche messo su qualche chilo, mangia con molto appetito e ha cominciato a socializzare con altri ragazzi che ha conosciuto in spiaggia. E’ una ragazzina felice, mi sembra.
In giardino l’erba è ricresciuta rigogliosa anche sopra alla fossa di quel povero disgraziato. Ci ho piantato un grande cactus che sembra nato e cresciuto lì da almeno quindici anni. Ho anche rivisto uno di quei tappetini a quadri, alla porta d’ingresso della casa della vecchia signora che abita a fianco del fornaio.
Forse sarà strano, crudele, pazzesco, ma mi sento finalmente serena. E’ finalmente tutto al suo posto, in ordine e pulito.
Ora mi siedo spesso su quella poltrona dove Ada ha passato tanto tempo a guardare fissamente l’oceano, e, come faceva lei, mi perdo oltre l’orizzonte, sperando, in cuor mio, che la giustizia divina sia clemente con noi.
D’altro canto, ora, la partita è veramente da considerarsi pari.
O no?