Ada

“AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHH”. Correva nuda per le strade deserte in un’aurora di primavera, correva disperata, ansante e grassa. In una mattina così bella da fare rabbia.
Orribilmente grassa, vecchia, e si vedeva specchiata nelle vetrine: vecchia, grassa e nuda. Non riusciva a smettere di gridare: “Aaaaaahaaaa”, una sola vocale, tutto lì. E nessuno si sognava di darle retta. A dire il vero non si vedeva nessuno in giro. Voleva correre fino a perdere i sensi.
Ubriaca di autocommiserazione, senza sapere come, sbatte un piede nudo contro la gamba di una sedia. Nella sua cucina, con indosso una maglietta troppo larga persino per lei. Il telefonino in mano: “Questa malora di telefonino nuovissimo regalato dalla Samantha. Perché mi ha dato un coso così che non capiscoooooooooo. Non la so fare una telefonata. Miseria ladra. All’inferno!”. Aveva preso a parlare da sola negli ultimi tempi. Se ne accorgeva, ma dopo mesi di resistenza ormai non le importava più: “Chi cazzo vuoi che mi senta. A chi posso dare fastidio sola come sono?” aveva finito per considerare.
“Samantha! Sam‐an‐tha, Samantha, aiuto. Sei tu?”
“Certo che ci sono. Sono io, hai chiamato il mio numero! Cazzo! Ma sono le cinque. Ma cosa vuoi!!?”
“Aiuto Samantha, aiuto, non so cosa fare.” Scoppia in un pianto a singhiozzi e lacrime inghiottite. Che la fanno tossire. Che rompono le frasi. Ma tanto non è che avesse tanto chiaro cosa dire e come dirlo.
“Aiuto, aiuto, Sam‐mm ammaaa samnta, vieni qui, vieni qui che ho paura.”
“Paura di cosa? Chi c’è? Ma che cosa è successo?”
“Ho, ho hoppau pauraaa.”
“Ti sei fatta male?” In risposta solo singhiozzi e tosse. “Cos’è successo?” Farfugliamento e tosse.
“Aspetta che arrivo.”
“Sì, ma vieni presto, vieni subit‐oh ssubit‐oh.” Ripeteva fra i singhiozzi che troncavano il respiro.
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Samantha, jeans skinny, giubbotto da dura, si fa in fretta la coda prima di uscire: “… Non è che perché c’è fretta bisogna stare sciatte. Anche con due bambini, senza l’uomo…” Ammirandosi di passaggio nel riflesso della credenza si aggiusta un ciuffo.
“Che gli uomini le occhiate me le danno. E infatti due figli mica per niente! Gli uomini danno occhiate e poi promettono e poi meglio perderli…”
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Imbocca la superstrada in una sequela di svincoli, avveniristiche sopraelevate che sorvolano aree di capannoni, officine, magazzini e il centro commerciale dove ha passato molti pomeriggi. Sale a due a due i gradini della lurida casa popolare. Quanto le faceva schifo, c’era nata lì dentro e più le era familiare e più le faceva schifo. Molto meglio la palazzina alla periferia di Rodano Visconti, vicina alla tangenziale. “Così in un attimo sono in piazza del duomo o all’outlet. Tutto a portata di mano.”
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“Cosa c’è? Cos’è successo?”
Ada che ora indossa i pantaloni di una tuta, oltre alla maglia, le corre incontro piangendo e l’abbraccia e la bacia.
La stringe.
Quel contatto molle e umido fa un po’ schifo a Sam, che trattiene il respiro. Fa in tempo però a sentire che l’odore è di sapone. “Si è appena fatta una doccia ma è già tutta sudata.” Le passa in mente.
“Cara, cara. Ma quanto ci hai messo. Non arrivavi piuuuuuu.” Parla tirando su col naso. Naso rosso, occhi rossi.
“Ma dai, non fare così.” Sam si divincola ma cerca di non essere brusca.
“Cos’è successo? Sei caduta?”
“Ma, noooo. Ma non lo so. A un certo punto, mi sono svegliata e mi sembrava che intorno erano tutti morti.
AAAHHHHH, ahaaa, mia mamma morta, la Lina morta, il Giovanni morto, tua mamma morta…”
“Eh? e allora? Sono morti negli anni. È successo un bel po’ di anni fa.”
“Lo soooo, lo so. Ma ecco mi sembrava che erano tutti morti e allora mi è venuta voglia di aprire le finestre e gridare, per vedere se qualcuno veniva fuori. E allora mi sono spogliata tutta e sono corsa fuori.”
“Ma sei stordita? Ti ha visto qualcuno?”
“Nooo, noooooo. Non è venuto fuori nessuno, come in un paese di morti.”
“Ma meglio! Ti rinchiudevano. Ma cosa è successo? Davvero sei uscita nuda? Ti senti male da qualche parte?
Chiamiamo un dottore?”
“Sì, sì, sì, dai. Chiama un dottore.” Parlando la dirige verso il telefono fisso. “Portami da un dottore.” Poi la spinge, letteralmente, al telefono. Le forza in mano la cornetta. “… E se sono matta? No, aspetta. Cosa mi fanno?” Ora tenta senza successo, di strapparle di mano l'apparecchio. “Ho paura di essere maaaattaaaa.” Piange. Piange a dirotto, la faccia tutta rossa.
“Alloraaa! Lo chiamo o non lo chiamo?”
“Sì, sì, chiamalo!”
Samantha non sa esattamente come gestire questa nuova stranezza della zia ma è ben decisa a governarla. Di sicuro a non lasciarsi sopraffare.
“…Aha, sì. Una donna, ha bisogno d’aiuto. No, no, ottantatre… Viene lei? … Dobbiamo venire noi? San Carlo? Mi dice l’indirizzo?”
“Ma noooo! Ma lo sooo, non stare a chiedere… Ma lascia stare!” Il tono di Ada è prepotente, perentorio. Si butta addosso a Samantha per chiudere la comunicazione. Sam resiste all’attacco. La allontana con decisione mentre cerca di continuare la telefonata.
“Sì, sì… Sì, prendo un appunto.”
“Dai metti giù, lo so io l’indirizzo.”
“Grazie, è stato molto gentile.”
Sam chiude la comunicazione e la guarda arrabbiata, risentita. Era sempre così con Ada: non faceva in tempo a compatire le sue debolezze, a chinarsi per aiutarla che questa la usava come “gradino” per sentirsi superiore. Ada scovava sempre le sue debolezze, e la prima era credersi migliore. Però ora Sam non dice niente. Non vuole arrabbiarsi, troppo spesso ha ceduto al desiderio di ribellarsi a gran voce a un sopruso per trovarsi vittima della sua stessa rabbia, che durava per giorni.
“Ma sei sicura di andare?”
“Ma sì! … Ma adesso cosa mi fanno?” Sam non risponde.
“Non te l’hanno detto? Chiamalo! Chiediglielo!! Telefona ancora.”
“Ma sei stordita? Basta! Vestiti e andiamo.”
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La sala d’aspetto è enorme, con solo due file di sedie al centro del grande spazio unite per gli schienali e un tavolo vuoto, di cui non si intuisce l’utilità, spinto contro una parete. I muri necessitano di una imbiancata e le vetrate che percorrono due lati non possono ricevere molta luce nel seminterrato circondato da alberi. Samantha e Ada entrano in silenzio, alcuni fogli in mano, referti di analisi passate, portate più per dare un inizio al discorso che per una ragione precisa. “Si sa: i medici si capiscono solo tra loro e una cartella medica è come un messaggio nella loro lingua”. Tutt’e due, almeno su questo, la pensavano allo stesso modo. Sono solo le otto ma c’è già qualcuno in attesa. Nessuna infermiera, però, o personale cui chiedere informazioni. E di chiedere ai presenti non se ne parlava proprio, è un SERT, un ospedale di matti, di disturbati. E anche qui ci poteva essere accordo tra Sam e Ada, neanche bisogno di dirselo. Non si siedono nemmeno, stanno lì a ciondolare nel salone senza un alibi per ritrovare un po’ di dignità, senza una rivista, senza un qualche manifesto, di cui sono pieni gli ospedali, di consigli alla moderazione in uno qualunque dei piaceri umani. Ora è Samantha ad avere voglia di correre e urlare tutto il suo disgusto. Vestita però!
Ada va vicino a una delle due porte per carpire qualche suono, un’indicazione qualunque. Lo sguardo di disapprovazione di Sam la fa desistere. Torna indietro di qualche passo. Osserva meglio i presenti: “Un testa di rapa mezzo addormentato, sicuramente imbottito di Lexotan, quella vicino è la moglie. O, no. Si assomigliano. Una parente, sorella? Anche lei non sembra tanto in bolla. Ma forse è la moglie, dopo un po’ nel matrimonio ci si assomiglia anche nella faccia, nel fisico. Per fortuna ho divorziato!”
La porta si apre, tutti corrono incontro all’uomo col camice bianco, anche quelli che sembravano più deboli. Anzi i più deboli si rivelano i più aggressivi e Ada non è da meno. Sam cerca di darsi un tono e resta indietro.
“Dottore, Dottore!!! Il mio è un caso urgente.” “Adesso vediamo.” “Guardi che noi siamo arrivati prima.” “Ma io ho l’impegnativa del pronto soccorso.” “Ma non spingere!” “Non spingete per favore! Lei non spinga, dopo visiterò anche
lei!” “Eh, ma io mi sono tagliato le vene!”
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L’hanno superata in due ma è passata davanti alla coppia di teste‐di‐rapa. Soddisfatta della considerazione ricevuta, soddisfatta di essere un caso grave. Ada sta stesa sul lettino a osservare quell’ometto che dice d’essere un medico, troppo magro per i suoi gusti, con la faccia inespressiva. Nella sua considerazione non si salva nulla: decide che non potrà curarla.
“Prima di esaminare il suo caso la farò visitare dal mio collega neurologo che proverà a capire, a un primo sguardo, se ci sono cause fisiologiche evidenti al suo malessere.”
Entra un giovanottone alto e robusto, saluta educato. Guarda i referti che Sam e Ada hanno portato, comunica telepaticamente con la sfilza di medici che si sono alternati nella vita di Ada attraverso quelle carte in codice.
Ada lo guarda imbambolata poi si ricorda di essere in maglietta senza reggiseno. Lui la misura, la pesa, la tocca con indifferente delicatezza, ha mani della temperatura giusta, belle mani dalle unghie curate, si vede che fa un lavoro di‐concetto.
Ada lo guarda ma non riesce mai a incontrare lo sguardo dell’uomo. Mani lisce che toccano le sue braccia cadenti.
Non si era mai accorta delle macchie di vecchiaia sulla pelle bianca, pallidissima. Da quando non prendeva più il sole?
Non aveva mai fatto la smorfiosa come le sue amiche ma era alta e bionda, molto prima dei capelli bianchi, e gli uomini non avevano bisogno di artifici per guardarla. Allora capiva di essere attraente, se non proprio bella come sua sorella Lina. Lina era formosa e affascinante sempre truccata, fino agli ultimi anni si curava tantissimo. Ada non ne era mai stata invidiosa e non la disturbava uscire con lei anche se le rubava la scena.
Ma adesso? Cos’era successo? Com’era diventata così grassa? Quando avevano cominciato a cadere i lineamenti?
Non riusciva a ricordare i passaggi. Era in spiaggia col costume intero, ragazza alta che molti guardavano e nessuno osava abbordare, coi capelli biondi e corti che sembrava una tedesca e gli italiani, si sa… E d’improvviso era una vecchia che un uomo toccava solo per dovere.
Ha un buon dopobarba questo che la tocca. Suo marito aveva osato avvicinarsi e parlarle e conquistarla dopo un bel po’, dopo essersi passato tutte le sue amiche, le avevano riferito in seguito.
L’aitante, giovane neurologo le tocca le gambe, la fa stendere e le alza e articola un ginocchio per giudicare riflessi e chissà che. Gambe poco sensibili al tatto, bianche, grosse, che vergogna. Che senso ha sentirsi dentro in un modo e non poterlo essere fuori. A cosa serve essere vivi e vergognarsi di esserlo? È come avere rubato un tempo cui non si ha più diritto. Non riesce proprio a ricordare i passaggi verso questo presente inaspettato, estraneo e patetico.
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“Per fortuna Lillo e Jennifer me mi li ha portati a scuola la vicina.” Ada non risponde, continua a camminare accanto a Sam ma non se ne accorge nemmeno, tutta impegnata a guardare i vecchi per strada, vecchi grassi e cadenti, vecchi della sua età. Non l’aveva mai considerato. D’improvviso si sentiva stanca, con le gambe molli.
“Ci fermiamo a prendere un cappuccino? Te lo offro io.”
“Mah, non so…”
“Tanto sono già a scuola i bambini. Cos’hai da fare... Non devi lavorare?” “No, la cretina qua si è presa mezza giornata quando ha capito che si tirava in lungo!” “Dai non arrabbiarti. Su dammi un bacio.” “Ma per piacere! Ma davvero ti sei messa correre nuda?” “Mi sembra di sì ma poi a casa mi sono trovata così, senza accorgermi.”
I tre gradini per entrare al bar che fa angolo su una piazzetta alberata le costano fatica, è persino costretta ad appoggiarsi a Samantha.
“Non ce la fai più a camminare?” “Mi fanno male i polpacci.” Si siedono a ordinare cappuccini e brioche a un tavolino all’ombra di un platano. Sam dispone in ordine sul tavolino cellulare e cuffiette.
“Aha, effettivamente mi fa male tutto.” “Forse un po’ di strada l’hai fatta per davvero.” “Adesso che ricordo… C’è stato un momento che ero al giardinetto delle elementari Cadorna.” “Pensa se ti vedevano i bambini.” Commenta Sam ridacchiando: “Per fortuna era l’alba.” “…E la casa della Lina. Ti ricordi quando stava vicino al mercato? Sono sicura di essere andata anche lì. Le finestre erano aperte, chissà chi ci abita adesso.”
“Sei arrivata fino lì? Nuda? Ma le scarpe le avevi?” Sam si diverte senza nasconderlo ma Ada non ne è risentita.
“Non mi ricordo.” “Guarda, guarda i piedi. Togliti le scarpe.” “Ma no, scema. Semmai dopo a casa. Non so mi fanno un po’ male.” Inzuppa la brioche nel cappuccino e ne mangia un grosso boccone. “Non ti è passata la fame, però” “…Sai che mi ricordo l’edicola? Mi sa che ci sono passata davanti.” “Mosconi era lì di sicuro a quell’ora. Apre a quell’ora lì. Ma che scema che sei!” “Dici che mi ha visto?” Disse asciugando l’ultimo goccio di cappuccino con la coda di brioche.
“Sicuro. Ma dimmi come facevi, cosa facevi?” “Eh, cosa facevo… Correvo e facevo: ahaaaa. Gridavo” “Ma perché nuda, questo non capisco.” “Eh, non so. Mi sentivo che erano morti tutti, che dovevo togliermi tutto. Non posso più andare a comprare il giornale.” “Tra l’edicola e le elementari ci sarà un chilometro.” “Mi fa male anche il sedere. Perché?”
“Perché hai fatto i chilometri di corsa e non sei abituata.” Sam rideva di gusto. “Poi ti iscriviamo alla Stramilano.” “Ma dici che si può non diventare così?” “Come, vecchia? Grassa?” Sam si pentì della propria brutalità, sentiva che in qualche modo colpiva anche se stessa.
“Ma no, così. Così che non ci si riconosce più. Se mi fossi accorta prima, se c’avessi fatto attenzione…” “Facci attenzione adesso!” “Sono vecchia ormai…” “Ma sei ancora viva.”
Un silenzio lunghissimo toglie qualcosa a entrambe. Sam per la prima volta in questa giornata tesa rilassa le spalle e respira a pieni polmoni profumo di fiori, si accorge di un balconcino pieno di vasi di tulipani, narcisi e violette di Parma.
“Sai che è la cosa più bella che mi dicono da tanto tempo?”