Admeto e Alceste, o dell’amore familiare
Admeto sin da bambino dal padre Ferete, re di Tessaglia, venne educato alla lotta, e il suo animo venne temprato per affrontare il pericolo senza alcun pizzico di paura. Da giovane mostrava un’ottima possanza fisica ed un aspetto rude, rozzo, da villano. Non sembrava appartenere ad una famiglia regale. Non amava stare in corte, infatti. Non amava i cortigiani, ma amava la natura, amava la caccia, amava vivere nelle selve e respirare l’aria tersa e fresca dei boschi. Andando a cacciare una volta per i boschi della Tessaglia, fece amicizia casualmente con l’eclettico Apollo che in quel periodo, pascolando le sue pecore in una radura, si trastullava tra i verdi nitidi alberi ascoltando le sue adorate e istruite Muse che portava sempre seco. Apollo irradiava sapienza e riusciva a profetizzare anche il futuro, essendo dotato di un sesto senso molto sviluppato, aveva un magnifico aspetto ed i suoi comportamenti erano nobili e per questo era venerato da tutti gli uomini che cercavano di imitarlo in ogni cosa. Apollo e Admeto si misero a cacciare, accompagnati dal suon di musica emessa dalle vibrazioni delle corde di un’armoniosa cetra. Admeto fu subito colpito, attratto, stupefatto dalle dolci note e dai poetici versi emessi dalle Muse che echeggiavano euritmicamente tra i folti boschi, che come una coltre folta adombravano gli alti monti della Tessaglia. Apollo trasmise a quel rude lottatore i modi gentili, garbati, distinti, e gli insegnò ad apprezzare i sentimenti umani e la storia del mondo. Divennero così amici inseparabili che Apollo fece conoscere ad Admeto le meravigliose arti che lui amava tanto e che in vari modi esprimevano i sentimenti dell’uomo, e cioè la poesia, la musica, la lirica. Gli trasmise pure il modo di comportarsi gentilmente verso tutti ed in particolare verso le donne, gli fece comprendere il modo di indagare sulle cose e di scoprirne la bellezza, gli insegnò anche ad apprezzare il canone della bellezza femminile. In pochissimo tempo, Admeto divenne un altro, diventò un uomo colto che apprezzava la bellezza in ogni sua espressione, artistica o naturale, acquistò un comportamento nobile e educato tant’è che il padre quando ritornò da quella breve vacanza stentò a riconoscerlo. Per ringraziare Apollo per la trasformazione che aveva operato sul figlio, Ferete lo ospitò trattandolo meglio di un familiare. Quando per la sua eccelsa fama Apollo fu invitato dal re Pelia, a Iolco, per avere pareri e consigli sull’organizzazione della spedizione degli Argonauti, che aveva come obiettivo la conquista del Vello d’oro, l’amico inseparabile Admeto andò con lui. I due rimasero ospiti di Pelia per diversi giorni e durante quella permanenza Admeto conobbe, per caso, la più bella dolce candida innocente genuina figlia di Pelia. Alceste era il suo nome. Ella personificava quella bellezza canonica che Apollo aveva insegnato a fare apprezzare all’amico Admeto. Fu attratto dallo sguardo penetrante della ragazza che esprimeva tanta dolcezza e un’inusitata bontà, fu colpito da quei cerulei occhi che sembravano due preziosi smeraldi posti negl’incavi oculari, fu affascinato dalla folta chioma bruna cadente che le copriva sfiorandola delicatamente tutta la schiena. Era una meraviglia delle meraviglie! Che donna! Admeto fino allora non aveva visto una donna più bella di Alceste. L’incontro avvenne casualmente, un giorno, mentre Admeto con Apollo da una parte e, Alceste con il padre, dall’altra, erano andati ad ammirare la possente nave che avrebbe portato gli eroi greci alla conquista del tanto desiderato Vello d’oro. I loro sguardi s’incrociarono mentre Admeto scendeva nella stiva e Alceste saliva per le ripide scale. Gli occhi dell’uno penetrarono negli occhi dell’altra: un sussulto ebbero i loro cuori, un tremore pervase le loro membra, un improvviso desiderio amoroso li avvolse subitaneamente. Si sciolsero le membra dell’uno. Si sciolsero le membra dell’altra. Non una parola uscì dalle loro labbra. Si ammutolirono come per incanto. Nell’attimo, prima che s’incontrassero, i due giovani erano tranquilli e sereni. Un attimo dopo, i loro animi non erano più pacati ed avevano perduto il vivere tranquillo. I due, indipendentemente l’uno dall’altro, non riuscivano a spiegarsi il motivo che aveva generato questi inconsueti turbamenti. Eros aveva sconvolto i loro cuori con impeto, aveva sconvolto i loro sentimenti e la loro mente, aveva dato impulso irresistibile ai loro animi ormai indotti all’amore. Apollo chiese ad Admeto perché si fosse ammutolito di botto. Pelia chiese alla figlia perché fosse diventata improvvisamente triste e pensierosa. Nessuno dei due rispose. Erano avvinti dalle emozioni nuove, inimmaginabili, imprevedibili, mai provate prima d’allora. Non dormirono tutta la notte. Si alzarono presto dal letto. Osservarono ciascuno dalla propria dimora, il sole sorgere e con questo una speranza, la speranza di potersi rincontrare, di potersi guardare, di potersi scambiare una parola, una frase, un complimento. Erano avvinti da un’ansia irrefrenabile, erano sconvolti, l’una era attratta verso l’altro, e l’altro verso l’una, inspiegabilmente, vicendevolmente! Eppure non c’era stato nessun accordo tra i due, non si erano scambiati neppure una parola! Admeto non aveva alcuna possibilità di prendere contatti con Alceste in quanto il padre di lei, gelosissimo delle figlie ed in particolare di lei, la teneva segregata con le ancelle nella sua stanza. Se usciva doveva essere accompagnata dal padre. E fu per ciò che Admeto decise di confidare il suo segreto ad Apollo che, per appagare la necessità amorosa dell’amico, organizzò una battuta di caccia al cinghiale suscitando la voglia in Pelia. Non era mai capitata una cosa simile, che un ospite organizzasse qualcosa in casa altrui. Ma Apollo per la sua fama e la sua autorevolezza lo poteva fare e lo fece. La ebbe vinta facilmente perché Pelia fu felice di esaudire il desiderio dell’ospite gradito. Quel giorno fu un gran giorno per Admeto e Alceste, perché la caccia permise loro di smarrirsi nel bosco, e quindi di incontrarsi e conoscersi. Cavalcarono insieme, e insieme si fermarono là dove il bosco era più impervio e più folto. Si guardarono negli occhi questa volta volontariamente e non come la prima volta per caso, ma non avevano la forza di parlare per il grande stato emotivo che li avvinghiava. Finalmente fu Admeto che per primo ebbe il coraggio di parlare: ‐ Come sei bella, o dolce Alceste! Non ho mai visto una donna più bella di te. Non appena ti ho incontrato e i tuoi occhi si sono incrociati con i miei, il mio cuore ha sussultato, un brivido ha percorso tutto il mio corpo, un freddo sudore ha ricoperto le mie membra.
‐ Admeto, questo è il tuo nome, vero? – disse Alceste, che continuò dopo un tacito assenso del giovane – Anch’io ho avuto le medesime sensazioni che tu poc’anzi hai esternato con tanto fervore e senza pudore alcuno. Il tuo sguardo mi ha stravolto, mi ha fatto perdere quella serenità che avevo fino a qualche giorno fa. Un desiderio di te mi ha avvinto senza che io ti conoscessi o sapessi chi tu fossi e da dove venissi. Adesso so chi sei, ma solo adesso. Questo vuol dire che il sentimento strano che mi attira a te non è dovuto alla tua possanza, alle tue gesta, al tuo valore o ancor di più alla tua appartenenza ad una famiglia regale.
‐ Alceste, quello che dici sono le più belle parole che le mie orecchie volevano sentirti dire. E’ bastato uno sguardo, in un attimo, ed ecco che è nato il mio amore per te. Non so spiegarmi il motivo, ma è così! Ho promesso a tuo padre di partecipare alla spedizione degli Argonauti, ma quando tornerò gli chiederò la tua mano e ti sposerò. Andremo ad abitare per sempre in Tessaglia dove governeremo il mio popolo con saggezza e con amore, dato che i miei genitori ormai sono vecchi. E’ questo ciò che io desidero, – rispose Admeto senza timore di essere negato.
‐ Lo voglio anch’io, anche se per tutto il tempo che sarai via, io ti aspetterò con ansia e con la speranza che tu possa ritornare sano e salvo da quella difficile impresa, ‐ aggiunse Alceste.
‐ Non preoccuparti, cara Alceste, amor mio, durante la mia gioventù ho affrontato tante peripezie, sono andato incontro a tanti pericoli, ho partecipato alla lunga guerra di Troia e, con successo, anche alla caccia al crudele cinghiale di Calidone. Ormai sono temprato per la spedizione in Colchide che, io non credo, sia più pericolosa delle altre. Quando tornerò daremo vincolo al nostro amore che già esiste, daremo sfogo al nostro rapporto con creatività senza sensi di colpa, né di vergogna, né di paura del sesso.
La spedizione degli Argonauti fu molto perigliosa e molto tormentata ma il ritorno, molto impervio, a Iolco avvenne così come era stato preventivato da Admeto.
Ci fu una gran festa nei giorni successivi, e il re Pelia, per la contentezza dovuta alla riuscita della spedizione e alla ricchezza che ciò rappresentava per tutto il popolo greco, non potette negare la mano della figlia Alceste al giovane eroe tessalo. Erano tutti felici dell’unione di Admeto con Alceste, ma la contentezza nella reggia di Iolco durò fino a quando i novelli sposi comunicarono che dovevano trasferirsi in Tessaglia. Del resto, quella era una strada obbligata per Admeto, che doveva prendere al più presto il posto del padre Ferete che, ormai vecchio, non riusciva più a governare bene il suo popolo.
Vissero di comune accordo marito e moglie ed erano amati dal popolo per la loro saggezza nell’amministrare la cosa pubblica. Ebbero due figli uno dopo l’altro, Eumèlo e Càricle, senza soluzione di continuità, che allevarono con grande gioia e nella felicità. Li avviarono ad un’educazione secondo i canoni che Apollo aveva insegnato ad Admeto, tant’è che Eumèlo quando divenne grande divenne capo dell’esercito dei Tessali. Purtroppo quei momenti di contentezza e di soddisfazione non durarono ancora, in quanto sovvenne un intoppo dovuto ad una grave e rara malattia che colpì il giovane re Admeto. Furono chiamati i più bravi guaritori della città per curare e salvare il loro re, che ormai si avviava a morte sicura, soltanto un miracolo lo poteva salvare.
Alceste, una notte in cui era riuscita a prendere sonno, ebbe un presagio mentre dormiva. Sognò le Moire, tre sorelle deformi storpie decrepite, Cloto, Lachesi e Atropo, le inesorabili e crudeli tessitrici della vita d’ogni essere umano. Sognò, dimenandosi nel talamo coniugale, madida, smaniosa, dapprima Cloto che teneva la rocca per filare, mentre Lachesi avvolgeva il filo al fuso ed infine sognò Atropo che si accingeva a tagliare, colta da invidia per la bellezza di Alceste e per la felicità che regnava in quella famiglia, con crudeltà e con senso cinico, il filo con le forbici, quel filo a cui era sospesa la vita del marito. Atropo, sempre in sogno, con la sua voce decrepita e rauca, esclamò sghignazzando con tono altisonante ed echeggiante: ‐ Alceste, se vuoi salva la vita di Admeto, in cambio voglio la vita di Ferete o di un’altra persona oppure, se vuoi veramente del bene a tuo marito, addirittura, la tua stessa vita. Si svegliò, di soprassalto, l’infelice Alceste, ancorché tremula, depressa, triste, con il corpo ancora bagnato di sudore, impaurita per il sogno funesto doloroso infausto orribile. Doveva sperare egoisticamente nella morte, ormai prossima, del vecchio suocero? Oppure in quella della decrepita suocera? O doveva dare in cambio la sua vita? Ciò l’avrebbe fatto volentieri. Ma come poteva un essere umano dare in cambio la sua vita per la vita di un altro? Qual era il modo, lo strumento per fare questo? Suicidarsi o farsi uccidere? Pensò e ripensò a questo mentre giaceva, giorno dopo giorno, sul talamo dove il marito stava per abbandonare lei e i suoi figli per sempre, su quel talamo che aveva visto tanto amore spruzzare da tutte le parti da rendere quella casa beata paga giubilante, invidiabile. Ma come avrebbe potuto continuare a vivere Alceste senza il suo grande amore Admeto, e come avrebbe potuto continuare ad educare gli amati figli e ad insegnare loro come affrontare la vita e superare le avversità che questa pone continuamente? Piangeva continuamente per il forte dolore e per la disgrazia che le stava per capitare, ed anche per l’incertezza del futuro che le si presentava. Si stava consumando Alceste; inorridita, esausta, non mangiava più, non dormiva più, e non servivano a niente ormai le tisane che le ancelle le preparavano per farla rinvenire. Alceste, avvilita, abbracciava il letto nuziale bagnandolo di lacrime, baciava quel talamo che aveva accolto amorevolmente e che aveva visto lei e Admeto amarsi e procreare i frutti più grandi del loro amore, i due amorevoli figli. Stava per morire Alceste mentre Admeto, come per miracolo, stava riprendendosi, apriva gli occhi, chiamava le ancelle, incominciava a mangiare, a bere, ad alzarsi dal letto, a riprendere le forze che aveva perduto. Ci sono cose al mondo che avvengono inspiegabilmente, cui non può darsi spesso un’interpretazione razionale e plausibile. In questi casi si pensa subito all’evento sovrannaturale, al fatto ultraterreno, al prodigio, al miracolo. È per questo che qualcuno pensò che le crudeli e invidiose Moire ci avevano messo lo zampino e stavano per vedere la loro orrenda e disumana bramosia accolta e appagata. La situazione si era capovolta. Adesso, era Admeto che si preoccupava della vita della moglie, la quale si era ammalata gravemente in vece sua. Se Alceste avesse avuto un po’ più di pazienza, se avesse avuto la forza di resistere per altro tempo ancora, se non si fosse impaurita di rimanere sola, se avesse avuto un po’ di fiducia nel caso, invece di credere al presagio di un brutto sogno che l’aveva indotta a cedere alla depressione, che l’aveva portata a fuggire dall’esistenza, per paura di non saper affrontare la vita da sola, senza il marito, non si sarebbe ammalata gravemente. La sua resa di fronte alla morte le stava portando via la vita…, trovando così il modo di cedere la sua vita in cambio di …. . Alceste, se avesse avuto la capacità di resistere, se avesse avuto il coraggio e l’equilibrio interiore necessari avrebbe visto con i suoi occhi il marito ritornare in vita, avrebbe osservato dal viso di Admeto lo scambio del pallido pallore macabro con il roseo colorito di sempre, come per incanto; Alceste avrebbe goduto delle carezze e delle dolci parole di Admeto, che avrebbe continuato ad amarla più di prima, forse meglio di prima e ad accudire i loro due pargoletti. Ed invece…
In uno di quei giorni tristi capitò da quelle parti, per caso, Eracle, l’eroe più grande che la Grecia abbia avuto. Eracle era l’eroe che aveva dovuto affrontare le malvagità degli uomini, che aveva lottato per superare tutte le grandi avversità tra cui quella che gli si presentò sin dai primi giorni di vita. Giaceva ancora in fasce, in culla, dove fu costretto a strozzare due serpenti messi apposta dall’invidiosa Era per ucciderlo. Eracle era l’eroe che aveva dovuto compiere e superare le dodici fatiche imposte dal crudele e sadico fratello primogenito Euristeo, grazie alla sua forza, all’addestramento e alle virtù trasmessigli dalla madre Alcmena e ai valori umani che gli erano stati inculcati sin da bambino dai suoi grandi maestri, Chitone e Eumolpo. Eracle, per l’educazione ricevuta, riusciva ad organizzarsi mentalmente, era molto socievole, aveva una sana personalità, non aveva altre aspirazioni, se non quelle di aiutare sempre il prossimo, non conosceva i sentimenti negativi ed eliminava dalla sua mente le angosce che qualche problema gli avesse potuto causare.
L’eroe, quel giorno, venne ospitato volentieri dal triste e depresso Admeto, già guarito, e ciò avvenne quando la povera Alceste era ormai in fin di vita per la forte depressione che l’aveva colpita. Ma nulla di tutto questo Admeto disse, per non farlo dispiacere per il gran senso di ospitalità che possedeva, all’amico ospite, al quale però non sfuggì niente. Eracle, infatti, scrutando l’espressione del viso e l’inconsueto modo di parlare, capì che Admeto insolitamente era angosciato ed addolorato. Indagò, allora, tra i servi che pieni di ammirazione per le sue gesta e per la sua carismatica personalità non gli nascosero la verità. Senza dire niente, Eracle andò a cercare di corsa l’amico Asclepiade, bravo luminare, che possedeva un’officina medicamentosa, non molto lontano dalla città, ma in un luogo sconosciuto ad Admeto. Procurò grande preoccupazione al medico, che vide l’eroe presentarsi all’improvviso e affaticato, senza respiro per la folle corsa. Eracle si riposò e non appena riprese fiato, espose allo scienziato che non veniva per sé medesimo ma per tentare di salvare la moglie del re Admeto, suo fraterno e carissimo amico. Descrisse la situazione di grave pericolo di morte in cui versava la povera donna Alceste. Non c’era tempo da perdere. L’Asclepiade si rese conto dello stato di salute in cui si trovava la donna e della sua afflizione e, in un batter d’ali, preparò un miscuglio di foglie di esedra, una pianta molto rara che cresceva spontanea lungo la costa, tra gli scogli, e che aveva le proprietà di aumentare la frequenza respiratoria e la pressione del sangue, e di semi di fieno greco il cui decotto serviva come ricostituente. Eracle corse ancora, questa volta verso la casa di Admeto. Alfine giunse in tempo, dando inaspettatamente il preparato all’amico cui spiegò cosa doveva fare per guarire la moglie e salvarla dalla morte. Era vero ciò che diceva Eracle e ciò che pensavano le persone che lo conoscevano: quell’Asclepiade salvava tutti quelli che si rivolgevano a lui, meglio di un dio. Non si moriva più da quando quel medico aveva acquisito dal suo grande maestro Asclepio l’arte di guarire gli infermi. Dopo diversi giorni di cura e con l’amorevolezza di Admeto, Alceste si riprese da quel torpore che l’aveva avvinta, e fu finalmente salva. Il merito era stato di un amico che era stato ospitato in un giorno molto triste, forse il più triste della vita di Admeto. La stima che Admeto poneva nei confronti di Eracle aveva creato nell’eroe quello slancio di umana sensibilità che aveva portato Alceste alla salvezza e al ritorno alla vita. Eracle, infatti, aveva manifestato il suo ancestrale altruismo ancora una volta, aveva commesso quel gesto non solo per amicizia ma anche per diventare più importante agli occhi dell’amico e per accrescere la propria autostima. Questo suo comportamento gli conferiva una nobiltà d’animo eccezionale.
Alceste ed Admeto, grazie ad Eracle, continuarono a vivere felici come prima, ma forse più di prima, consapevoli, questa volta, delle sciagure e dei disagi che può apportare ad una famiglia la scomparsa di uno dei due coniugi.