Ai caduti
Stamattina sono venuti gli operai del Comune, quelli del servizio giardini. Avevano le tute verdi e i cappellini con la visiera. Svelti come faine, si sono portati via uno dei pini, quello più alto, un gigante di trenta metri. Stava qui da prima del palazzo. Dice che ostruiva l’entrata del garage.
C’hanno messo a tirarlo giù manco venti minuti, con la sega meccanica.
Per l’occasione si è radunata una piccola folla, proprio sotto la mia finestra. Disturba parecchio stà cosa, appena sveglio, con ancora da bere il primo caffè. Mi sono affacciato così alla zitta, giusto per rendermi conto, e li ho visti, saranno state in tutto una decina di persone, parlo degli addetti a seghe e roncole, ma ce n’erano di più, molti di più, che non avendo da fare nulla sollevavano fino al mio piano un tale brusio, uno sciame molesto di parole che, solo a riuscire a distinguerle, mi veniva d’ammazzarle una per una. La soluzione sarebbe stata quella di chiuderla la finestra, ma l’aria somigliava già a quell’ora all’anticamera di un forno, e poi il rumore non era del tutto spiacevole, sapeva comunque di vita, e mica basta chiudere le finestre per tenerla fuori la vita, è come pretendere di corazzarsi l’anima, una volta e per sempre, chiudere la porta e andarsene per davvero via con se stessi, dove sarà sarà, senza rimpianti.
Non sono stato tanto a pensarci su, ho finito in fretta il caffè e sono uscito.
Il signor Filippo, il portiere, come m’ha visto s’è sentito in dovere di spendere qualche parola, di spiegarmi l’iniziativa. A me che ero sceso a comprare le sigarette! Così m’è toccato fermarmi ad ascoltarlo.
“Sono dieci anni che l’ente ha fatto richiesta, dottore!… mi fa. Oggi, finalmente!… Piazza pulita! che ci facciano i prosperi, cò quel mammalocco!… Stuzzicadenti! di quel coso lì… Si figuri, ci venivano a pisciare tutti i cani del Torrino, qua davanti! Chissà!… Lo preferivano!”.
Non sono dottore, ho risposto io. Lui lo sa benissimo. Nient’altro. Niente obiezioni né domande, e d’altronde non aveva tutti i torti. I rivoli di piscio, giù per la rampa, finivano a sciacquare la soglia della guardiola, se ne lamentava che m’ero appena trasferito.
Dopo averlo fatto a pezzi, per issarlo sul camion, hanno usato una piccola gru. Agganciava stretti i cilindri di legno, simile in tutto alle unghie di una fidanzata, li sollevava su su e poi li lasciava precipitare nella ribalta. Un lavoretto pulito. Per terra, così sparso, è rimasto solo qualche ramo secco, dei ciuffi di chioma, di là, a filo del marciapiede, una pigna.
Fatto di sabato, sto traffico. Credo per renderci più interessante la giornata. E’ vero, lo dico senza ironia, hanno riscosso un certo successo, forse per via del camion, enorme, rosso pompiere. Qualcuno degli inquilini, specie i ragazzi, ha dato anche una mano a rimuovere i residui, sembravano in qualche modo preoccupati che ne restasse ancora, li lanciavano con soddisfazione nella cassa del camion. Quelli che non si davano da fare se ne restavano locchi sul marciapiede o in finestra, ad assistere alle operazioni come a teatro, ma la signora Giacomo non ce l’ha proprio fatta, è scesa lei, di persona, a dirgliene quattro ai disboscatori. Io l’ho svagato subito, come l’ho vista sul portone con gli sbuffi che le stiravano i riccioli del naso e le tette cariche, che andava alla battaglia. In quel momento la squadra con la grossa sega fra le mani stava giusto attaccando il tronco secolare. Lei ha preso di petto il più sornione, un tricheco con la cicca in bocca, quello che dirigeva la musica seduto sulla sponda del carro. La vedevo male, io, la Giacomo, perché ce l’avevo di spalle, con le mani sui fianconi e il collo taurino, e mica sentivo quello che diceva, però il capoccia lo vedevo fare dindolò con la testa da una parte all’altra, ammiccare ai colleghi… Rideva sforzato come se avesse avuto paura d’ingoiare una mosca e indicava pure, con gesti vaghi, lo stradone, la Beata Vergine del Calvario tutto addobbato di pini.
“Signò che non li vede quelli, sento che dice, basteranno?… Sto a Val Melaina, io… lì si firmerebbe per la metà!… E io poi che comando? Magari! Verrei qui a piantargliene un bosco!…”.
Erano parole tutto sommato ragionevoli. Quelle di uno che non ha capito niente. Non ci arrivava a intendere che la Giacomo se la prendeva proprio per quell’albero, che se ne infrescava delle aree verdi, dei piani regolatori e delle periferie a misura di bimbo. Difendeva il singolo, lei, l’essere vivente unico e irripetibile. Era un fatto, poi, che nemmeno il caposquadra poteva farci nulla. Il vecchio pino era perduto ormai, nero su bianco.
Il resto della gente, gli stessi operai, se la sghignazzava per quell’intervento fuori programma, cominciavano a girare pareri su come sarebbe andata a finire, e poi anche delle specie di quote. Per parte mia, non ero sorpreso neanche un po’. L’avevo già osservata in azione, la Giacomo, coi gatti… i piccioni… perfino un merlo… Il salice, quello a sinistra del portone, era il suo beniamino. Tagliato, è un anno e mezzo, anche quello. E non saltava mai l’appuntamento, la sera alle sette, con la colonia felina. La “gattara” fatta e sputata! Bestie e piante, con l’esclusione, chissà perché, dei cani.
Gli operai, loro, quando si divertono, non gliene può fregar di meno a loro del mondo. E’ abbastanza semplice osservarlo. Ne approfitta per fumarsi una sigaretta, il plotone coi fucili bragaloni che aspetta l’ufficiale per il fuoco. Intanto, si ride e si scherza… Il baffo, è a lui ora che tocca agitarsi, si sa, per via del grado. La sua pazienza, lo si vede chiaramente, vuole saltarsene in aria come un capodanno, non tornare più tra noi, già parla, senza mezzi termini, di chiamare i vigili…
Avrei dato parecchio per una sigaretta anch’io, subito, ma volevo vedere come andava a finire.
I vigili sono arrivati dopo una ventina di minuti, due uomini e una donna. L’hanno presa con la dolcezza alla Giacomo, per allontanarla, come si fa con i matti. Lei, Stefania Giacomo si è voltata ancora un attimo, solo per dare all’uomo, al capo, del “faccia da coglione…”.
In quel po’ di gelo che è seguito, il baffo non ha reagito un granché. Passato il primo sconcerto, ha subito ripreso la parte del caporale con degli ordini. Segato il tronco, s’è potuto finire il lavoro senza altri problemi, nessuno ci ha avuto più da ridire. Il grande pino, dopo poco, stava nel cassone del camion, comodo come un cadavere nella valigia dell’omicida, nel suo insomma.
Visto che il meglio si era già visto, il colpo, la caduta e lo smembramento, il resto delle esequie non aveva più tanto interesse. La maggior parte della gente se l’è quindi squagliata verso le spiagge, a famiglie intere, con una prontezza che m’ha lasciato sbalordito. Altri, ancora più di fretta, se li è portati via il vento a due a due, sui motorini. Crani rasati e tettarelle appuntite, sono partiti a razzo bercianti verso il sole, in una nuvola di fumo azzurrognolo, con gli zaini pieni di musica e la marmitta taroccata, i tatuati e gli infilzati… Le birre le compreranno sul posto, Dar Zagaia, oppure da Felice, “il Divino”, ed anche quell’altro di fumo, lì alla spiaggia…
Rimaniamo solo noi là impalati, gli adulti senza compagnia in definitiva, io, la Giacomo e Barchetti, il pensionato del ministero che i figli – gli serviva la casa – hanno deportato qui dall’Alberone. Oltre il portiere, beninteso. Non che ne parlassimo, ma sembravamo proprio i parenti più prossimi, noi lì con quell’aria scema. Dal camion, il pino sembrava salutarci un’ultima volta con un movimento lento, appena percettibile, del suo pennacchio verde, che sporgeva un po’ in fuori, nella nostra direzione.
Lo guardiamo andar via così, il più vecchio di noi. E’ giusto mezzogiorno.