Ai mercatini natalizi aquilani...
La bocca inquietante della galleria di San Rocco s’apriva alla sommità della salita, pronta a divorare il nostro pullman Gran Turismo che procedeva impavido sull’Autostrada dei Parchi. Ci ritrovammo nella semioscurità, in attesa dell’uscita che non avremmo raggiunto, se non dopo aver percorso quattro interminabili chilometri. Luci giallognole scivolavano sul parabrezza, indugiando sul volto assonnato di ognuno di noi. I sobbalzi dell’automezzo mi riportarono alla mattina del sei aprile duemilanove, quando L’Aquila fu sfigurata dalla violenza d’un terremoto devastante.
I tragici eventi di quel giorno scorrevano davanti ai miei occhi, come se non fossero trascorsi cinque anni da quando la terra iniziò a tremare con inaudita irruenza. Onde rabbiose s’abbatterono sulla casa in cui abitavo, trasformando i sogni che immaginavo di vivere in una realtà da incubo, ancora lontana dalla sua conclusione. Il letto non era altro che una barca alla deriva in balia d’un mare in burrasca ed il soffitto si squarciava, lasciando cadere sulle carcasse dei mobili mattoni e calcinacci di svariate dimensioni. Un sordo boato segnò la fine di quella danza infernale, durata appena trentaquattro secondi. Una notevole quantità di polvere saturava l’ambiente, procurandomi una tosse stizzosa che non accennava a placarsi. In strada regnava il silenzio, rotto dall’ululato delle sirene, dalle imprecazioni, dalle urla di terrore, dall’angoscia e da una palpabile sensazione d’impotenza. Recuperati frettolosamentei documenti, qualche effetto personale ed i vestiti, mi avventurai, a tentoni, verso la porta d’ingresso. Soltanto allora realizzai d’essere scampato miracolosamente alla morte, allontanandomi di corsa da quel luogo, divenuto improvvisamente inospitale. Sembrava che qualcuno avesse cancellato dal cielo il tremulo bagliore delle stelle, sostituendolo con un chiarore sanguigno che illuminava lo scenario apocalittico sottostante. L’erogazione di corrente elettrica fu interrotta e la città precipitò nelle tenebre, trascinando gli aquilani in un mondo senza futuro, in cui era stata bandita la speranza. Salii in macchina e, zigzagando tra le macerie, tentai d’uscire dalle mura cittadine. Sulla Statale diciassette mi resi conto di sbandare, ritrovandomi spesso sulla corsia opposta della carreggiata. Decisi di rischiare e tirai dritto verso occidente, intenzionato a raggiungere il primo centro abitato che ospitasse un albergo dalla struttura antisismica. Qualche mese prima avevo attraversato il paesino di Cotilia, situato sulla linea di confine tra Abruzzo e Lazio. Lì mi soffermai ad osservare “I tre orsacchiotti”, un grazioso Hotel che s’affacciava sulla Via Salaria con la sua insegna spiritosa. Mi sarei trovato così a soli trenta chilometri dall’epicentro del sisma ed avrei potuto raggiungere la mia città natale ogni qual volta ve ne fosse stato bisogno. I notiziari radiotelevisivi si susseguivano, conferendo al dramma la connotazione della catastrofe. Si parlava del ritrovamento di circa trecento vittime, per lo più giovani studenti universitari, colti nel sonno dal crollo della “Casa dello studente”.
Non era ancora possibile avere informazioni precise e, come spesso accade in questi frangenti, la realtà si confondeva con il “sentito dire”.
“Signore e signori buongiorno! Tra pochi minuti saremo a L’Aquila. Scenderemo all’Hotel “Canadian”, nella cui sala ristorante ci attende una sostanziosa colazione!” annunciò Giulia, la guida del gruppo.
La vetta innevata del Gran Sasso d’Italia s’ergeva davanti a noi in tutta la sua imponenza, mentre affondava nel cuore etereo del cielo invernale. La ferita iniziava a sanguinare d’un sangue candido e lieve, quasi fosse una pioggia d’ovatta in fiocchi cristallini. I primi, deboli raggi d’un sole sbiadito s’allungavano sulle acque increspate del fiume Aterno, rimbalzando tra le onde argentate.
Una breve discesa e lasciammo l’autostrada”A24”, uscendo al casello di “L’Aquila Ovest”.
Il viaggio era stato confortevole, nonostante le undici ore, trascorse all’interno del pullman delle “Autolinee Piemontesi” che aveva fatto soltanto tre brevi soste lungo la strada. Ottocentocinquanta chilometri, percorsi senza problemi da Mondovì a L’Aquila per visitare i caratteristici mercatini natalizi del capoluogo abruzzese: un’escursione enogastronomica alla riscoperta dei sapori d’un tempo, attraverso il pregio dei monumenti, l’originalità dell’artigianato,la storia religiosa e la cultura, nel contesto di suggestivi paesaggi montani.
Giulia s’avvicinò ai tavoli, pregandoci di raggiungerla nella saletta riunioni dell’albergo per programmare una prima visita della città. I lunghi capelli biondi le scendevano sino alle spalle, sfiorando la lana di un maglione blu attraversato orizzontalmente da tre sottili bande bianche.
Si muoveva con agilità, padroneggiando il portamento d’un fisico atletico e slanciato. Dal suo metro e settanta di statura riusciva a dominare gli sguardi di tutti, spostando i grandi occhi celesti con un movimento impercettibile, ma attento. Il tono di voce, fermo e persuasivo, era quello del leader, velato da una gradevole inflessione piemontese.
“Sono certa cheanche voi avvertiate la necessitàdi riposare, fare una doccia calda e sistemare i bagagli. Nel pomeriggio avrei intenzione di mostrarvi la Basilica di S. Maria di Collemaggio. Il pranzo sarà servito alle dodici e trenta. Dimenticavo... devo notificare a chi non intendesse essere dei nostri, una disposizione della Protezione Civile: è vietato e pericoloso avventurarsi nella cosiddetta “Zona Rossa”. I trasgressori saranno fermati e multati dalle forze dell’ordine. Un provvedimento necessario a prevenire atti di “sciacallaggio”, verificatisi dopo il sisma ed ancora attuali. Grazie dell’attenzione e... a più tardi!”
Rimasi nella saletta, provando ad immaginare cosa avrei visto una volta uscito dall’Hotel.
Un atroce dubbio iniziava a farsi largonella mia mente: le promesse di allora, l’interesse dei politici, le gare di solidarietà, l’impegno a ricostruire avevano segnato i mesi immediatamente successivi alla catastrofe, ma dopo alcuni anni i fatti avrebbero dovuto sostituirsi alle parole, restituendo le case a chi le aveva perdute e la dignità agli abitanti d’una “città fantasma”. Le pastoie burocratiche a cui tutti noi c’eravamo dovuti sottoporre avrebbero dovuto cedere il passo al lavoro dei tecnici, delle ruspe, degli operai e a chiunque avesse voluto contribuire ad una rinascita della speranza. Senza dubbio, le mie, erano considerazioni pessimistiche che non trovavano alcun riscontro nella realtà. La mia particolare condizione d’esule in patria, di profugo in Piemonte e i tempi esagerati prospettatimi per tornare nell’abitazione dalla quale ero fuggito anni addietro, mi rendevano poco obiettivo. Mi sembrò di rivedere il depliant in cui si pubblicizzavano i viaggi organizzati per scoprire i più singolari mercatini natalizi italiani e provare di nuovo quella nostalgia che aveva risvegliato in me il morboso desiderio di tornare nella mia terra. La stanchezza iniziava a farsi sentire e pensai che sarebbe stato meglio andare a dormire, smettendo di giocherellare ossessivamente con le chiavi della stanza.
Alle quindici ci ritrovammo nel parcheggio del ”Canadian”. L’aria era pungente ed unvento gelido ci schiaffeggiava, obbligandoci a cercare riparo a bordo del Pullman. Il cielo slavato del mattino aveva avuto il tempo di ripulirsi dalle nubi, lasciando che il bagliore dorato del sole lambisse i candidi fianchi dei monti. I miei compagni di viaggio erano meravigliati da quel clima, molto simile a quello prealpino, ma di gran lunga più rigido. L’entusiasmo per l’escursione aveva confuso le loro cognizioni geografiche, allontanandoli dalla realtà in cui erano venuti a trovarsi. Giulia ci raggiunse, mentre io mi guardavo intorno con curiosità, sforzandomi di decifrare l’incredibile visione che mi si parava davanti. Il passato mi trascinò con sé, riproponendomi quello scorcio di periferia, attraversato per fuggire da L’Aquila, da quell’incubo che spesso tornava a popolare i miei sogni.
Mi sedetti dalla parte del finestrino e rimasi a pensare, mentre il resto della comitiva prendeva posto sull’autobus. Giulia era in piedi, accanto all’autista, pronta a rispondere alle domande che sapeva le sarebbero state poste di lì a poco. C’inserimmo nel traffico cittadino, percorrendo Viale Corrado IV.
“Che orrore!... Questi edifici pare abbiano subito un vero e proprio bombardamento! E... gli aiuti inviati da tutta Italia dove sono finiti? Dove si sono cacciati gli esponenti del governo che si soffermavano davanti alle telecamere contriti e pieni di buoni propositi?... E’ vergo...”
“... Vergognoso… sì... vergognoso è la parola giusta per definire una situazione inimmaginabile, grottesca! Cinque anni per imbragare costruzioni destinate all’abbattimento! Ora capisco il perché della reticenza che riscontravo nelle risposte dei miei amici... le mie domande erano naturali, ma imbarazzanti! Giulia... speriamo che una volta in Centro lo scenario cambi, che l’espressione di sconcerto dipinta sul tuo viso scompaia.”
Un mormorio eloquente si levava alle mie spalle, variando di tono ogni qual volta incontravamo gli scheletri di palazzine pericolanti o cumuli di macerie coperte da rovi. Giulia mi sfiorò il braccio in segno di partecipazione e, impugnato il microfono, esordì: “Non sarò io a commentare la triste verità che andiamo scoprendo lungo la strada, ma un cittadino aquilano: il nostro amico Renzo!”. Ero stato chiamato in causa senza preavviso, ma mi sentii in dovere di esprimere il mio sdegno e lo scoraggiamento che mi affliggevano. Mi avvicinai alla ragazza con l’intento di trovare le parole per raccontare il dramma che m’aveva portato in Piemonte, quando sentii lacrime copiose scorrere in gola e mi lasciai andare ad un pianto convulso. La disperazione mi aveva sopraffatto, ma riacquistai rapidamente il controllo, iniziando a narrare la mia storia, simile a quella di tanti miei concittadini. Arrivammo così sul Piazzale di Collemaggio, portando nel cuore la segreta speranza di cambiare opinione su quanto avevamo visto precedentemente. Al limite opposto d’un grande spiazzo erboso, attorniato da panchine in pietra, si poteva scorgere la prestigiosa facciata della Basilica. La porta centrale era sprangata ed un’imbragatura metallica la percorreva in lungo e in largo, quasi a nasconderne la pregevolezza e l’austerità. La nostra guida c’invitò a seguirla, dirigendosi verso la costruzione. Ci arrestammo a circa trenta metri di distanza, avvolti da un silenzio irreale che trasmetteva una deprimente sensazione d’abbandono. Giulia decise di fornire particolari più dettagliati sul luogo di culto: “Questa è la basilica di Santa Maria di Collemaggio, fondata nel milleduecentottantasette per volere di Pietro da Morrone, incoronato Papa Celestino V, nel milleduecentonovantaquattro. E’ il più importante monumento religioso della città. Contiene la prima Porta Santa del mondo ed è sede di un giubileo annuale unico nel suo genere. La Chiesa è stata gravemente danneggiata durante il terremoto. In seguito a una relazione predisposta da esperti, a metà agosto dell’anno in corso è stata chiusa con un'Ordinanza Municipale. I lavori di restauro dell'intero complesso, finanziati dall'E. N. I., dovrebbero terminare nel duemilasedici... Per la verità quest’ultima notizia l’ho appresa stamane tramite Internet e non so quanto sia credibile!”
La mia mente era lontana, persa a rincorrere i ricordi suggeriti dalla malinconia. Ripensavo alle lunghe passeggiate nel Parco del Sole, poco distante dall’enorme sagrato naturale offerto dalla morfologia del posto; agli spettacoli all’aperto, tenuti da famosi cantanti del momento; alle fresche serate d’estate in cui gli amici ed i conoscenti si ritrovavano per bere un cocktail ghiacciato.
La jeep dei militari ferma sul ciglio della strada, però, mi riportava a quell’assurda realtà che avrei voluto cancellare. Era il giorno precedente la festività dell’Immacolata e rammentai l’usanza cittadina di allestire un mercatino tra le aiuole dei giardini pubblici del Centro storico. Avrei illustrato a Giulia la mia idea, convinto che quello era il momento adatto per allentare la tensione che incombeva sul gruppo.
“Renzo... siamo letteralmente basiti! Comprendiamo quanto sia spiacevole vivere in prima personaquesta evidente dimostrazione di superficialità e d’indifferenza... Vorremmo manifestarti tutta la nostra solidarietà... Abbiamo pensato che non sarebbe male curiosare in qualche negozio prima di tornare in Albergo. Mi piacerebbe che tu prendessi momentaneamente il mio posto... Ti va?”
Gli amici monregalesi avevano saputo leggere nel profondo del mio animo ed avevano deciso di allontanarmi dai cupi pensieri che soffocavano un cuore in tumulto.
“E’ un’ottima trovata! Sarò felice di farvi da guida... seguitemi!”
Mentre ci dirigevamo verso il mercatino, riemergevo da quel torpore mentale che m’aveva isolato dagli altri escursionisti, riacquistando la voglia d’esistere e la ferma intenzione di non mollare. Numerose bancarelle occupavano la Villa Comunale, esponendo i più svariati prodotti abruzzesi. Iniziammo così ad aggirarci tra di esse, soffermando lo sguardo sui dolciumi, i formaggi, gli insaccati, le ceramiche e gli oggetti in rame, forgiati da impareggiabili artigiani.
Giulia sgranocchiava un torrone morbido di cioccolato, ripieno di nocciole, la cui antica ricetta risaliva al milleottocentonovantatré, mentre molti acquistavano manufatti in rame, raffiguranti i monumenti più importanti de L’Aquila. Anch’io avevo fatto delle compere, giungendo ad una elementare decisione: guardare ciò che era ancora distrutto e fissarlo nella mente con l’aiuto dipreziosi dipinti o di stupende incisioni. La debole luce dei lampioni faceva capolino tra le chiome degli ippocastani, quando, tra la folla, notai una figura sfuggente, una sorta di spiritello barbuto che indossava l’inconfondibile costume di Babbo Natale. Mentre lo seguivo con lo sguardo, fui distratto dalla voce di Rosanna, una delle prime amicizie fatte a Mondovì.
“La tua terra mi ha conquistato! Le montagne, i sapori, la gente, gli odori… potrei giurare che siamo in... Piemonte!”
In quel mentre, mi accorsi di non avere più con me le sacche della spesa e vidi allontanarsi, correndo, l’essere stravagante che aveva attirato la mia attenzione qualche minuto prima.
Il ladruncolo era ormai irraggiungibile... lontano. Con lui si volatilizzava la memoria della gioventù, delle amicizie, della mia amata città, delle mie radici! Il buio s’era fatto più fitto e non riuscii a sfuggirgli, precipitando nelle tenebre della mia cecità! Mi chiesi, allora, se fossi mai stato a L’Aquila...