Al di là della porta
Fin da bambino mi sono sentito diverso. Diverso dai miei coetanei. Una diversità che mi ha sempre disturbato ma, di cui allo stesso tempo, andavo fiero. Una diversità che mi permetteva di sfidare già a 4‐5 anni gli adulti nei calcoli numerici. Inesorabilmente vincevo le mie sfide a 2 e anche a 3 cifre... Sfidavo appunto. Già perché gli adulti erano i miei avversari principali ma ancora non me ne rendevo conto. Una diversità che però aveva anche i suoi risvolti negativi. Cos’erano quei pensieri ossessivi che mi attanagliavano? Quella disintegrante paura della morte che tanto però mi affascinava? Cosa furono, più tardi quella strana e devastante paura per le ragazzine, quei pensieri maniacali che mi facevano sentire un mostro? Cercavo le risposte ovunque, mi ponevo domande esistenziali già a 10 anni, ma tutto pareva inutile. Eppure tutto parlava a mio favore. Io ero il più intelligente della mia famiglia, un genio secondo mio padre, un genio secondo i molti parenti che ho, un bambino squisito, sensibile, amabile, disponibile, AFFIDABILE soprattutto, magari poco volenteroso a scuola, ma qualche difetto dovevo pur avercelo… Quanto è facile ingannare gli adulti. Per un bambino basta pochissimo per comprendere le loro aspettative, i loro bisogni; a me bastava essere bene educato con gli altri, e pronto a rispondere sul quanto faceva, che so, 121x35. E il gioco era fatto. Magari fosse stato così. Come potevo confessare a mio padre che mi adorava, che ero terrorizzato dall’idea della morte, che non cambiavo ragazza ogni settimana come faceva lui a 18 anni, che non era spiegabile che un genio come me si faceva ripetutamente bocciare a scuola, che ero attratto da tutto ciò che significava pericolo? Come facevo? Ora non glielo posso più dire, come non gli posso più dire che è stato il mio Dio nonostante i suoi giganteschi errori, nonostante, pure lui dotato di un’intelligenza straordinaria, commettesse delle idiozie stratosferiche, non gli posso più dire che lui, come me, era però fragilissimo emotivamente. Ma perché? Perché ero così? Non potevo, e non volevo accettare di avere una sorta di malformazione genetica, ma tutte le strade che percorrevo portavano a quella dannata conclusione. Poi finalmente, dopo 18 anni di vita, improvvisamente, quasi dal nulla compare, come un angelo, l’anima gemella, l’amico della vita, colui con il quale, già dopo il primissimo istante che l’ho conosciuto immaginavo di percorrere con il bastone le vie incantevoli di Verona, quelle stesse vie, che sommerse nella nebbia, nel silenzio della sera, discorrendo sulla poesia della vita, riportavano Verona indietro di secoli. Stavamo crescendo insieme, facendo anche delle esperienze, alcune negative, altre straordinarie ma comunque esperienze. Ma stavamo diventando grandi. Poi, un sabato notte, all’improvviso senza preavviso, se ne è andato… e mi ha lasciato solo. La morte si era presentata alla porta. Al di là della porta. Sua madre mi disse di non andarlo a vedere e di ricordarlo, così com’era. E quello decisi di fare. Venni sommerso da un dolore devastante, il dolore di chi si sente assolutamente solo, e non con se stesso, solo e basta. Un dolore che ho tentato di lenire attraverso un improvviso impegno scolastico, che mi ha permesso di chiudere la mia carriera scolastica di modesto ragioniere con una rivincita rispetto alle sconfitte degli anni passati. Ma il dolore era abnorme. E volevo essere solo ad affrontarlo. Poi il militare, i primi contatti con la vita degli “uomini veri”, le prime sniffate di cocaina, le prime di eroina. Finalmente. Finalmente avevo trovato una soluzione. Quelle sensazioni, straordinarie, quella sensazione di calma assoluta che ti dà La Divina polvere marrone(cosi la chiamavo allora), quella padronanza quel controllo di tutto ciò che ti circonda. Se poi il tutto, veniva condito, da un po’ di polvere bianca, allora finalmente tutto era perfetto. Esistevo solo io, gli altri facevano da contorno. Degli stupidi manichini da manipolare. Mi sentivo talmente perfetto, (ci misi anni prima di crollare), che riuscii a trovare anche il lavoro in banca dove peraltro ben figurai sin da subito. Io ero al di sopra di tutto. Avevo tutto. Ed ero anche il genio che si diceva. Mantenevo i miei vizi truffando la Banca. I super controllori. La loro organizzazione perfetta. Mi facevano ridere. I loro sistemi informatici. Ma continuavo inesorabilmente ad essere solo. Anzi no. Due compagne fedeli le avevo. Eroina e Cocaina. Ma da compagne sono diventate padrone. Da padrone, persecutrici. Chi c’era in camera mia la notte che tentava di strozzarmi al buio. La cocaina mi dicevo. Oggi so che da bambino non era così. E quella voglia di morte, quelle mani terrificanti che mi stringevano il collo, le volevo sentire continuamente, nonostante mi terrorizzassero e giù fiumi di cocaina nelle vene (già non sniffavo più). Solo il contatto con la morte mi faceva sentire vivo. Il tracollo fu inevitabile, il lavoro in banca saltò e saltò anche la mia vita. Quella parvenza di normalità che ciecamente continuavo a vedere si affievolì sempre più. E crollò tutto il mio mondo. Come è strano, se ci penso oggi, che il male più grande l’ho fatto alle persone che adoravo di più. Mio padre, mia madre, i miei fratelli. Se penso che sono riuscito a farlo piangere. A far piangere, il mio Dio. Papà ti voglio bene so che mi ascolti. Ora sono io che piango. Ma adesso ci sono. Ora so che non era una malformazione genetica. Ora so che sia io che tu, che tutta la nostra famiglia, abbiamo pagato un conto non nostro. Quelle violenze subite in tenera età avrebbero mandato al manicomio chiunque. Se non ci sono andato è anche grazie alle sostanze stupefacenti. Ma alla fine stavano presentando il conto. Due overdose. Mio padre che bussa alla porta, al di là della porta, ed io in preda ad una crisi epilettica causata dalla cocaina, gli balbetto di chiamare un ambulanza. E lui al di là, disperato. Devo ancora perdonarmi pur avendo compreso i motivi. Ed un giorno anche lui se ne và. Stavolta con preavviso. Un tumore al polmone gli faceva compagnia. L’ultima volta che lo vidi in ospedale capii. Anzi sentii. Tutti i parenti e familiari lo videro bene. Io tornai a casa, mangiai, andai a letto e stetti in attesa. Alle 5 il telefono squillò. Quando mi presentai in ospedale e lo trovai lì già “addormentato” dovetti inscenare qualcosa per il pubblico astante perché in quel momento il Supremo Silenzio aveva messo a tacere tutto. Avevo sempre immaginato quel momento. Avevo sempre pensato che non avrei potuto reggere la sua assenza. E invece in quei momenti, mi sentivo più di Dio, Lui in croce ha avuto paura della Morte, io pensavo di aver vinto la più grande delle sfide. Una nuova energia si impossessò di me, ripresi a lavorare, a fare una vita non disastrata, ancora con quella parvenza di normalità. Poi un nuovo lavoro, nuove prospettive, era tutto, perfetto, riuscivo a lavorare, riuscivo a gestire le sostanze, avevo una macchina, qualche donna ogni tanto, facevo i miei soliti raggiri, i soldi non mi mancavano, un bel castello di carta. Oggi mi rendo conto, che quelli sono stati gli ultimi passi verso il fondo, che proprio in quei momenti la mia disperazione aveva superato il limite dell’udibilità. E poi finalmente la resa dei conti. Sospensione patente; nuova perdita del lavoro. Stavolta ero arrivato. La “festa” era finita. Finalmente ho cominciato a vedere le macerie della mia vita, anche se in mia difesa è subentrata la depressione. Ma ho iniziato a prendere coscienza della mia realtà, a capire che se volevo provare a cambiare vita dovevo farmi aiutare. Ho cominciato ( sono ormai passati quasi 4 anni) un enorme lavoro da una psichiatra affiancando nel contempo un percorso comunitario con l’intento di curarmi più che dalla tossicodipendenza, (in una settimana ci si disintossica) dal buco nell’anima (rubo il titolo di un libro di Furio Ravera) che ha scatenato la stessa. Un lavoro faticosissimo, a volte devastante, ma che mi dà gratificazioni incommensurabili. Un lavoro che mi ha permesso di vedere chi ha ucciso la mia infanzia, sperando di far rivivere la sua, di capire che quel mostro, è prima di tutto un uomo, un parente oramai anziano, che ho si odiato inizialmente ma che ora sto cominciando a perdonare, perché solo perdonando lui potrò perdonare me stesso. Ora il Silenzio che mette a tacere il rombo della vita, non urla più dentro di me, ho trovato delle alternative ben diverse dall’uso di sostanze. Quel Silenzio lo faccio tacere con l’urlo della Vita, attraverso il volontariato con bambini con disagi familiari seri, pur sapendo che anche fuori dal quel centro vi sono bimbi, con una parvenza normale, con famiglie normali, senza grossi traumi, che comunque vivono sofferenze drammatiche anche per un semplice brutto voto, o per lo smarrimento di una penna e, tutto questo perché, queste piccole/enormi sconfitte richiamano in loro sensazioni di abbandono di non riconoscimento, soprattutto quando i loro dei terreni che sono i genitori, svalutano, in buona fede questo loro dolore. Purtroppo accade che vi siano genitori, pure loro sconfitti dalla vita, che chiedono ai loro figli una sorta di riscatto, magari attraverso l’affermazione scolastica, attraverso uno status sociale che permetta di venir riconosciuti da “quelli che contano”. Succede, ahimè, che i ragazzi che soddisfano le aspettative, vengano “premiati” attraverso dei regali materiali. Un cellulare in se non è un reato regalarlo. Ma regalare un “ti voglio bene”, un “come stai”, un “sai papà ha paura di non farcela, papà è un uomo debole ed insicuro in certe occasioni”, un raccontare ai propri figli gli errori commessi in gioventù, le sofferenze patite, le gioie vissute, regalare questo significa regalare se stessi per ricevere dentro di se, da chi ti ascolta, il se stesso che c’è in lui. Mamme e Papà che leggete:” Cosa regalerete ai vostri figli domani”?