ALCIONE E CEICE

  Passa la nave mia, sola, tra il pianto de gli alcion, per l’acqua procellosa; e la involge e la batte, e mai non posa, de l’onde il tuon, de i folgori lo schianto. Giosue Carducci – Passa la nave mia

Alcione, figlia di Eolo, era nata e cresciuta nell’incantevole isola di Euonymos, la più bella di sette meravigliose isole, che viste dall’alto formavano una y. La vita, su quel lembo di terra circondato dal mare l’aveva indotta, sin da bambina, ad imparare a nuotare e ad apprezzare il ceruleo liquido con tutte le sue bellezze naturali. Il padre le aveva insegnato a conoscere e a saper leggere i venti, e ad interpretare la loro variabilità, perigliosa soprattutto per i solerti pescatori e per i raminghi marinai.   ‐ Figlia mia, avverti sul tuo viso sopraggiungere questo alito caldo, fastidioso, umidiccio, violento, che ti toglie il respiro, che ogni erba tenera essicca rapidamente, che solleva nell’aria le sabbie calde provenienti dall’assolato e secco deserto africano che, precipitando al suolo, rendono rossa ogni cosa, che ogni uomo, ogni donna, ogni pargolo è costretto a ripararsi da esse? Ebbene questo è lo scirocco proveniente da sud‐est, ‐ diceva Eolo. ‐ Avverti ora questo corrente aerea che, invece, spira da ovest o da sud‐ovest e assume una potenza molto violenta e quindi molto pericolosa! Questo è il libeccio! – Aggiungeva l’esperto padre. ‐ Il vento che proviene da nord‐ovest invece è il maestrale che trasporta con sé aria fredda, mentre il vento che arriva da nord, soprattutto in inverno, senza dubbio, è la tramontana che rende ancor più fredda l’aria, e gela ogni cosa, figlia mia. Se poi il flusso d’aria giunge da nord‐est e si dirige verso sud‐ovest, portando aria fresca anch’esso, sii certa che trattasi, invece, del grecale, ‐ concludeva Eolo. Dal movimento delle foglie o dall’altezza delle onde, Alcione aveva imparato dal sapiente padre ad interpretare anche la forza del vento. La brezza rendeva le foglie degli alberi costantemente agitate e sollevava le creste delle onde che si infrangevano sugli scogli provocando una leggera schiuma. Nel caso in cui ogni albero nella sua interezza fosse rimasto costantemente agitato, o gli alberi dal tronco sottile venissero piegati, e la schiuma delle onde si sventagliasse sugli scogli formando scie biancastre, il vento avrebbe potuto causare dei gravi danni.   Con queste conoscenze, stando sulla spiaggia, la fanciulla era in grado di presagire se in mare aperto ci sarebbe stata una burrasca oppure una tempesta o, peggio ancora, un uragano. Alcione riusciva anche a preannunziare il maltempo attraverso l’osservazione d’alcuni fenomeni naturali che all’uomo distratto potevano risultare insignificanti. Se il cielo fosse coperto da nubi a pecorelle, infatti, la fanciulla riusciva a prevedere che, nell’arco di due o tre giorni, con buona probabilità, ci sarebbe stato un forte temporale. Se di sera con il cielo stellato, invece, la splendente luna fosse circondata da un’alone, ci sarebbe stata una forte alluvione con trombe d’aria disastrose.  Tutte queste conoscenze costituivano una gran fortuna per Alcione, perché in tal modo sapeva quando era opportuno farsi una nuotata al largo tra le limpide e cristalline acque dell’isola e quando, invece, doveva starsene tranquilla per il sopraggiungere dei forti venti. Rimaneva, in tal caso, sulla spiaggia a rimirar i flutti del mare o si immergeva, per un bagno rilassante, nelle quiete acque termali che si trovavano vicino la sua abitazione, oppure si faceva una passeggiata sulla vetta più alta dell’isola per ammirare, con un colpo d’occhio, il meraviglioso arcipelago che si presentava attorno a lei. Rimirava da quell’altura, verso nord‐est, un’isola a forma di cono, Strongyle, che sputava dalla sua vetta fuoco in tutte le direzioni, in continuazione, con forti e inquietanti boati. Le suscitava emozioni ma anche angoscia quella visione. Poi si girava verso sud‐ovest, dove un’altra isola, quella di Didyme che, con i suoi due monti conici dalle cime sbruffanti alternativamente zampilli infuocati che cadendo in mare facevano friggere l’acqua, assomigliava alle mammelle di una vacca quando viene munta. Quando il clima glielo permetteva, Alcione, a volte, decideva di nuotare lungo il periplo dell’isola per ammirare la movimentata e meravigliosa costa per tutta la sua estensione, a volte, decideva di andare verso il largo per riposarsi poi su uno degli isolotti che costellavano il cristallino mare attorno all’isola. O, ancora, s’immergeva per ammirare i variopinti coralli o le profonde spaccature dai mille colori abitate da una gran varietà di meravigliosi e movimentati pesci variopinti. I pescatori prima di andare al largo a pescare con le loro barche le chiedevano consigli, e lei glieli dava volentieri. Raramente si sbagliava. E i pescatori l’apprezzavano e le manifestavano tanto affetto. Quando, invece, il tempo era bruttissimo con vento e pioggia, Alcione tesseva una tela, su e giù, e poi da destra verso sinistra, percorrendo il suo telaio, con lunghi fili variopinti armonicamente amalgamati. Una lunga tunica color rosso fuoco era il migliore tessuto che aveva creato e che aveva deciso di donare all’uomo della sua vita Alcione, altre volte, costruiva lunghe collane di bellissimi coralli rossi, raccolti nei fondali di quel cristallino mar di Euonymos.   Alcione, era diventata una bella e veneranda giovane, dai lineamenti gentili e gradevoli, dal fisico incantevole, perfettamente modellato dalle onde del mare, quando, un giorno, su un isolotto dalle rocce color grigio‐basalto si trovava a riposare le sue stanche membra dopo aver nuotato lungamente. Stava sdraiata rilassata immobile assopita su uno scoglio nerastro e le sue deliziose membra perlacee, illuminate dal sole, sembravano ancor più bianche per contrasto, e parevano come avvolte da un alone incantevole, divino, celestiale. Giaceva, dormiente, incurante degli sguardi indiscreti. Sembrava che il suo corpo emettesse una luminosità particolare che conferiva alle sue membra ignude un chiarore chemiluminescente. Questa paradisiaca visione attirò senza dubbio l’attenzione del comandante di un naviglio che casualmente solcava, leggero e silenzioso, le acque cristalline dell’isola. Cèice, così si chiamava il capitano che governava quella nave, casualmente guardò verso quella parte e rimase abbagliato da quella inaspettata visione. Era stato il vento che sollevando il moto ondoso in quella direzione aveva spinto l’imbarcazione verso quelle meravigliose isole, solo per caso. E, solo per caso, era apparsa dinnanzi agli occhi del capitano quella deliziosa donna dalle sembianze divine con le sue membra adagiate comodamente sulla nera roccia. Cèice fu attratto subitamente sia per la bellezza divina di quella fanciulla sia perché ormai erano molti mesi che non vedeva una donna.   Cèice, figlio di Espero, era un marinaio nato in mare. Aveva avuto, infatti, sin dalla nascita la sua culla proprio su una nave, e sin da bambino aveva imparato a guidare qualsiasi imbarcazione e in qualunque situazione. Con il mare calmo guidava con sicurezza, ma anche con la tempesta più violenta mostrava altrettanta destrezza e abilità.

Mi sorprende la furia dei venti: si scontrano, e voltola da una parte un’onda, di là un’altra. E noi in mezzo al mare con l’atra nave siamo trascinati

patendo molto per la gran tempesta, dopo che l’acqua è arrivata alla base dell’albero e la vela è ormai tutta sbrindellata e  ampi pezzi pendono,

cedono i cavi …. (Da Il mare in tempesta di  Alceo)   Era un valente marinaio Cèice, aveva l’animo mite, era placido, tranquillo, ma risoluto, determinato nelle decisioni e difficilmente recedeva dalle scelte fatte. Fino allora non aveva incontrato la donna che gli facesse palpitare il cuore. Aveva solcato tutti i mari, e aveva conosciuto tante belle femmine di qualunque parte del mondo, bionde, brune, dalla carnagione nera o bianca o gialla, dagli occhi azzurri o castani o verdi, ma nessuna era stata in grado di mettergli in fermento la tranquillità d’animo. Non sembrava interessato, fino a quel momento, Cèice all’altrui sesso, né tanto meno lo interessava l’amore fisico. L’unica cosa che amava era il mare soprattutto quando si approssimava il tramonto. All’imbrunire del giorno, gli piacevano i contorni colorati del cielo e delle acque, veniva attratto dalla mescolanza di colori del mare e del cielo che assumevano tinte, via via, diverse, attimo dopo attimo. Con lo sguardo volto ad occidente, ad ogni tramonto, reggendo il timone della nave, ammirava, ad ogni istante, le sfumature, color giallo, arancione, rosso, grigio‐verde del cielo che si fondevano con il color bluastro, verde, violaceo, del mare. Ogni volta, al finire d’ogni giorno, contemplava quei quadri, originali e istantanei, variopinti che non assumevano mai la stessa forma né si coloravano con gli stessi colori, di un momento prima o del giorno precedente. Solo lui, governando una nave, poteva avere il beneficio di vedere quelle scene spettacolari, irripetibili, giorno dopo giorno. E Cèice era innamorato di tutto ciò. Non poteva farne a meno.     Quel giorno, tuttavia, la visione di quelle membra, distese sul faraglione di vetrosa e lucida ossidiana, adagiate come un candido panno di un sinuoso velluto, sembravano al marinaio emanare sublime luce divina. L’apparizione di quelle membra, lattee eburnee nivee marmoree, non solo provocò in Cèice uno scombussolamento inaspettato, ma ne sconvolse terribilmente e freneticamente il cuore. Un improvvido e improvviso turbamento l’animo di quel marinaio sovvertì. Un piacevole languore lo toccò. Un gradevole godimento interiore lo avviluppò. Il suo cuore fortissimamente pulsò. Ad occhi aperti a sognare incominciò. Un’ebrietà tumultuosa lo scosse. La sua mente disorientata rimase. Un’affabile e temporanea afasia dal mondo lo estraniò. L’osservazione dei tramonti aveva sempre stravolto l’animo di Cèice, ma l’ammirazione di quel ceruleo corpo nudo sinuoso brillante meraviglioso, là su gl’irti scogli inermi e freddi, improvvisamente lo colpì in maniera inaspettata e inconsueta. Osservare il crepuscolo sempre fuggente non era la stessa cosa che ammirare quel corpo fermo, immobile, statuario di quella giovane che giaceva sulla roccia bagnata dagli spruzzi di schiuma che s’infrangevano su di essa. Per un attimo, Cèice invidiò quello scoglio e, mentre rifletteva su quello che gli si era presentato, venne colto all’improvviso dapprima da una leggera brezza che via via si fece sempre più forte, proveniente da nod‐ovest verso sud‐est: era il grecale che annunciava un forte uragano. Cèice, per prudenza, si avvicinò allo scoglio e ancorò, mentre Alcione sfiorata da quel vento gelido si destò, ignuda tremebonda, ancora stordita dal risveglio repentino, si tuffò per ritornare a riva ma il moto ondoso già forte stranamente glielo impedì. L’unico riparo era la nave a portata di due bracciate. Chiese aiuto. E Cèice glielo diede volentieri: la tirò sul ponte in salvo, subito le coprì l’ignudo corpo tremolante, statuario, bello a vedersi, con una candida tunica che, essendosi inumidita, lasciava intravedere le perfette rotondità corporee di Alcione. Questa lo guardò e il suo cuore sussultò istintivamente, in un attimo. Cèice la osservò e l’animo concordemente gli palpitò. Non era la nave che ondeggiando faceva ondeggiare i loro corpi ma erano loro due che tremolavano di moto proprio. I loro cuori si erano infuocati improvvisamente, i loro animi si erano invaghiti, d’un tratto, così per caso.  Che strana sensazione, che dolce emozione, che meraviglioso sbalordimento stavano provando, per la prima volta, quei due giovani retti, integri, semplici. Ognuno aveva fatto, sino a quel momento, separatamente ciò che gli piaceva fare. L’uno, il marinaio che si beava nell’osservare i tramonti, l’altra la nuotatrice e, a tempo perso, la presaga dei venti o la tessitrice di tuniche o la fabbricante di collane di coralli. Ora, i due giovani erano insieme, l’una di fronte all’altro, ed insieme erano stati colti da qualcosa che li turbava contemporaneamente, in modo irreversibile. Quel turbamento era sicuramente innamoramento. Incominciarono, con voce emotivamente incerta, a scambiarsi qualche parola tenendo fissi gli occhi l’uno verso l’altra. ‐ Come ti chiami, bella fanciulla? – Sono Alcione, figlia di Eolo, vivo su quest’isola incantevole e incantata da quando sono nata. Mi sento imbarazzata perché mi hai visto ignuda, ma è colpa del vento che inopportunamente mi ha obbligato a ripararmi su questo naviglio, e di questo te ne sono grata. ‐ Sono Cèice, figlio di Espero. L’ospitalità per me è sacra e non hai motivo di vergognarti per la tua nudità; non sei stata tu la causa di ciò, rispose il giovane marinaio, che aggiunse: ‐ siediti, rimani coperta, e riscaldati con questa bevanda calda. Non appena tornerà la calma ti condurrò a riva. I due giovani, in quel momento, colti da un’ebbrezza lusinghevole, piacevole furono avvinti vicendevolmente da una frenetica esaltazione d’animo.   Il tempo gli sembrò trascorrere in fretta anche se per ritornare la calma in mare era trascorso un intero giorno. Cèice allora con una piccola zattera accompagnò a riva Alcione, che trovò i genitori sulla spiaggia ad aspettarla ansiosamente e con preoccupazione. Lungo il tragitto si guardarono insistentemente Cèice ed Alcione. Cèice remava e guardava Alcione, Alcione si teneva stretta sul corpo la bianca tunica e ammirava Cèice. Per tutto il percorso, gli occhi dell’uno penetrarono negli occhi dell’altra. Ritornò sulla nave il giovane marinaio ma la nave non si mosse pur essendo ritornata la calma piatta. Per giorni e giorni, Cèice guardava dal ponte della nave verso la spiaggia e Alcione seduta sulla sabbia del mare mirava verso la nave. I loro sguardi s’incontravano in lontananza ma questo non bastava. Cèice, avvilito, avvinto da sentimenti amorosi, prese una ferma decisione. Andò a riva e là trovò Alcione ad aspettarlo. Una forza sconosciuta aveva spinto il giovane ad andare, ma un’identica forza aveva costretto la fanciulla a sostare sulla spiaggia. I loro sguardi s’incontrarono questa volta da vicino, ma ciò non era sufficiente, i loro corpi si sfiorarono ma questo ancora non era soddisfacente, con le braccia si strinsero fortemente e fortemente si baciarono, e i loro corpi trovarono finalmente la pace. Si erano innamorati senza dirsi una parola d’amore. I sentimenti amorosi dell’uno si erano fusi con i sentimenti fervidi dell’altra formando un unico sentimento appassionato ardente caldo. Sospinti da bramosia d’amore fecero l’amore sulla rena e si unirono per sempre, così semplicemente. Assaporarono le dolcezze amorose, provarono la passione smaniosa, appagarono la fibrillante eccitazione irrequieta, acquietarono finalmente lo struggimento voglioso che li aveva avvinti. Si vollero bene. Nuotarono insieme in quelle cristalline acque calorose. Nuotarono insieme fino a quell’isolotto che si trovava di fronte all’isola. Salirono fin sulla cima, e da lassù gioirono del tramonto, furono felici per tutta la notte fino all’alba seguente, godette l’uno del corpo dell’altra. Da lassù, videro la luminosa palla caldissima salire dall’orizzonte su per il cielo ad infuocare la terra e il mare, e ad incendiare i loro animi che già ardevano d’amore. Si sposarono, infine. Fu un giorno di grande festa per i genitori di Alcione, fu un giorno di gioia per tutti gli abitanti dell’isola. Si banchettò, si ballò, si svuotarono i calici pieni di dolce e robusto nettare malvasico. Dioniso così contribuì favorevolmente alla riuscita della festa nuziale. Cèice pose sulla testa di Alcione profumate corone di rose e di viole, le contornò il collo con variopinte ghirlande di fiori, giacque accanto a lei. Alcione prese la morbida tunica rossa che aveva tessuto con le sue mani sin da quando era bambina e la fece indossare a Cèice, prese la lunghissima collana di coralli rossi e gliela pose attorno al collo, giacque accanto a lui. Vissero dei giorni felici come non mai. Venne, purtroppo, il giorno che Cèice dovette intraprendere la navigazione, per completare quel viaggio che aveva interrotto nel vedere la figura sublime di quella candida fanciulla adagiata sul nero scoglio di ossidiana, accarezzato dai flutti marini, e della quale egli si era tanto innamorato. Alcione non voleva che Cèice partisse, era disperata, aveva fatto un brutto sogno premonitore e, poi, osservando l’aria e il movimento degli alberi e i marosi e la brezza, aveva la certezza che il mare sarebbe stato investito da un forte uragano pernicioso. ‐ Cèice, ritarda la partenza, vai via tra qualche giorno quando il mare tornerà sereno, ‐ disse pietosamente la moglie. ‐ E’ tempo di andare ormai, sono rimasto fermo per tanto tempo. Devo completare il viaggio che ho interrotto venendo qui, amore mio. Non preoccuparti perché ho navigato tra i marosi più furiosi e ho affrontato onde altissime raggiungendo sempre la meta, ‐ la rassicurò il marito. ‐ Cèice, portami con te, ‐ disse con le lacrime agli occhi la leggiadra Alcione. ‐ La ciurma è tutta di uomini e nella stiva non c’è posto per una donna. Ritornerò presto e resterò con te per sempre, amore mio, te lo prometto ‐ la rassicurò Cèice. ‐ Mi accontento di un piccolo giaciglio anche sul ponte della nave dove non darò fastidio a nessuno, ‐ lo supplicò ancora la moglie disperata per il funesto presagio che il sogno le aveva anticipato. Cèice, con indosso la bella tunica rossa che Alcione gli aveva regalato nel giorno delle loro nozze, aveva deciso di partire e partì lasciando nell’amara e sconsolata disperazione la moglie. Passarono molti giorni ed ogni giorno Alcione stava sulla spiaggia e pregava. Supplicava gli dei aspettando il suo grande e unico amore e guardando insistentemente all’orizzonte fin dove il mare si tocca con il cielo. Ci fu in uno di quei giorni al largo una gran tempesta che portò a riva dei pezzi di legno frantumati. Sembravano quelli di una nave perché erano piatti e ricurvi. Alcione li raccolse, li scrutò attentamente. Non potevano essere quelli della nave di Cèice, ‐ si consolò. Si rasserenò, ma dopo qualche giorno, in lontananza, vide qualcosa che galleggiava e che si avvicinava verso la spiaggia, dove si trovava lei. Man mano che si approssimava, quel corpo assomigliava sempre di più ad una tunica, precisamente ad una purpurea tunica. Andò camminando tra i flutti, e afferrò quel panno rosso, era la tunica che lei aveva tessuto con tanto amore e che aveva donato a Cèice, nel giorno delle nozze. Una strana sensazione ebbe in quel momento la candida Alcione. Fu presa da un improvviso rigurgito che provenendo dallo stomaco le percorreva tutta la gola lasciandola senza respiro. Ancora una volta, tuttavia, la speranza non l’aveva ancora abbandonata. Incominciò a pregare gli dei tutti, ogni giorno per tutto il giorno. Ogni giorno andava sulla riva e rimirava il mare in lontananza, fiduciosa di rivedere il suo Cèice. Ogni giorno nuotava verso l’isolotto, saliva sulla cima e rimirava il mare fin dove il mare si congiunge con il cielo. Non vedeva niente. Ma ci fu un giorno, uno dei tanti, l’ultimo dei tanti tristi giorni trascorsi nell’ansia, che si presentò funesto. Quel giorno Alcione trovò sulla spiaggia, esanime, il corpo di un uomo con il capo avvolto dalle alghe. Con le mani tremanti ed ancora speranzosa, tolse, uno ad uno, quei fili verdi che avvolgevano la testa dell’uomo. Per ogni filo d’alga che toglieva una parte della speranza che aveva riposto nell’animo suo nei giorni precedenti, andava via. Per ogni filo che toglieva il suo viso si bagnava di una lagrima. Finalmente scoprì tutto il capo di quel corpo esanime. Era il suo amato. Era il corpo di Cèice. Il sogno che aveva fatto prima che Cèice partisse si era avverato. La sua incoscienza divenne coscienza, e la consapevolezza la buttò in una tremenda disperazione accompagnata da un gemebondo pianto. Sollevò verso di sé il corpo di Cèice, lo abbracciò così come lo aveva abbracciato la prima volta, pianse, pianse tanto, pianse a dirotto, ma il pianto non si placava. Era disperata Alcione, non sapeva cosa fare, piangeva, gridava e gridando esclamava: ‐ Ceice mio, amore mio, dolce unico amato della vita mia, ponesti sulla mia testa profumate corone di rose e di viole, avvolgesti il mio collo con variopinte ghirlande di fiori, giacesti con me, accanto a me su un morbido giaciglio di fresca paglia a placare il desiderio amoroso che Eros con i suoi dardi ci aveva trasmesso. Nessuna cosa poteva distrarci dal nostro grande amore. Ed ora tutto questo è finito … per sempre… per sempre.   La gioia di vivere mi ha lasciato; mi avvince  il desiderio di morire e di vedere le rive rugiadose dell’Acheronte. *(*daIl desiderio di morire di Saffo)   Nell’avvilimento più completo, Alcione nuotò, tirando il corpo del suo amato, verso l’isolotto dove lei andava spesso, dove era andata con Cèice prima di congiungersi con lui e dove aveva assaporato le dolcezze dell’amore, trainò con forza il suo amato, strisciando il corpo ignudo e inerme sulla nuda roccia, fin sopra la cima. Era esausta e madida Alcione, ma la disperazione l’aveva aiutata nel possedere tutta quella forza spropositata. Su quella rupe avevano trascorso momenti meravigliosi e indimenticabili, immensamente felici, lei e Cèice. Assieme avevano guardato i tramonti ed i marosi, accovacciati l’uno nell’altra. Abbracciati si erano amati su quell’altura, guardando i tramonti e le albe. Ed ora Alcione, sconsolata, da quell’alta rupe prese il volo verso il mare profondo, come un corpo inerme, priva di volontà, in caduta libera abbracciando il corpo inerme del marito, assieme al marito e per l’ultima volta. Una tuffata fortissima proveniente dal mare si udì nell’aria…. sprofondarono i due corpi nell’acqua cristallina… e, in quel momento, due candidi gabbiani, uno maschio e l’altra femmina, si alzarono in volo, volarono, su e giù, attorno all’isolotto, si appollaiarono, nidificarono...