Algebra
Di tipi così non se ne trovano più al giorno d'oggi, o forse io, per il solo fatto di essere fuori da decenni da quel mondo, non riesco più a coglierne gli aspetti curiosi e, a loro modo, indimenticabili.
Si trattava di una ragazza, è facile capirlo.
Erano gli anni in cui si frequentavano le superiori e "ci si sentiva", in qualche modo, “superiori”. Passaggi naturali dell'evoluzione adolescenziale. Questo lo si dice, o meglio, lo si capisce dopo. Lo capiscono gli psicologi. Loro capiscono e spiegano tutto.
Si trascorrevano interi pomeriggi a ciondolare su e giù per il Corso, a gruppetti, ragazzi e ragazze, soli ragazzi o sole ragazze, a seconda di come tirava il vento. Si parlava del più e del meno, delle cose di scuola, dei compiti da fare, delle interrogazioni andate male, di quelle imminenti e preoccupanti, del prossimo compito in classe di matematica, e di infinite altre cose.
C'era già chi parlava con tono saccente di ragazze, nei gruppetti di maschi, e forse, chissà, nei gruppi di ragazze avveniva la stessa cosa, anche se in realtà oso dubitarne, non perché l'argomento in sé non fosse interessante, che diamine!, proprio a quell'età si fanno le scoperte interiori più sorprendenti. Ci si ritrova innamorati, per esempio. Ma più che altro per il fatto che le ragazze, per natura, per educazione familiare e parrocchiale o per qualche altro motivo (il pudore, per esempio, il pudore dei propri pensieri, dei propri sentimenti), le ragazze ‐ dicevo ‐ erano più riservate.
Fra i maschi, chi parlava di ragazze, ahimé, non ne parlava con quel rispetto che "il dolce stil novo" doveva averci insegnato, ma con una sorta di sguaiataggine, che a me dava fastidio, ma in cui altri sguazzavano, arricchendo il loro dire con barzellette dello stesso tono, ovviamente, o con il racconto di imprese amatoriali pazzesche, generalmente in buona parte inventate, ma che attiravano l'attenzione e la golosità degli ascoltatori del momento.
La ragazza era stata notata. Passava per il Corso con passo svelto, impettita, senza guardare nessuno; tutt'al più un'occhiata a qualche vetrina. Vestiva in modo diverso, avveniristico, direi, per quei tempi. Abitini interi o tailleurs, ma attillatissimi. I pantaloni allora non erano entrati ancora nella moda femminile, né, il cielo ci scampi, le minigonne, ma le sue gonne erano appena appena accettabili, secondo il giudizio morale del tempo. La stretta misura fasciava il suo corpo, che, questo bisogna pur dirlo, era perfetto. Anche se fosse stata vestita in modo meno provocante, avrebbe comunque fatto voltare molte teste, ma così com'era attirava lo sguardo con violenza. Non era possibile non darle una guardata almeno, fosse pure per muoverle interiormente una critica, o per compiacersene. Non sto a dire il tono e il contenuto dei salaci commenti che il suo passare suscitava.
Ma lei pareva non rendersene conto. Non si esibiva, o almeno si comportava in modo tale da non farlo sembrare; che ne so io.
I ragazzi, poco dopo che l'ebbero notata cominciarono anche a seguirla di lontano, per cercare di saperne di più. Abitava infatti appena fuori di città. Allora la città era relativamente piccola. Adesso l'insediamento umano si diluisce alla periferia in piccole industrie, fabbrichette, capannoni per deposito merci, carrozzieri o sfasciacarrozze e così via, fin quasi a toccare il paese limitrofo, tanto che se non fosse per i cartelli stradali, a mala pena si capirebbe dove finisce un posto e ne comincia un altro. Allora era diverso, appena finito l'abitato, in cui si concentrava tutta l'attività lavorativa, si era subito in campagna. Le case coloniche sparse fra i campi, le stradine che le collegavano, un altro mondo. La ragazza abitava in una di quelle case. Nessuno ne sapeva di più. Per esempio il perché di quel suo modo di vestire, così diverso non soltanto dalla moda corrente, ma ancor di più da quella delle donne di campagna.
Chissà, forse era stata a scuola, aveva studiato, ed aveva acquisito un "certo tono" che la staccava dal suo mondo quotidiano. Non vi era altro modo di saperne di più se non affrontandola e attaccando discorso. Non facile, tutto sommato, perché la ragazza non teneva per la strada un comportamento, val la pena di insisterci sopra, che facesse sperare facile un abbordaggio. Tuttavia alcuni decisero di provare. Un gruppetto fece un giorno una specie di schieramento sul marciapiede in modo da incrociare la ragazza al suo passaggio. La manovra riuscì perfettamente. Al momento dell'incontro i ragazzi si divisero per farla passare, finsero di volerle lasciare la destra, poi la sinistra...crearono imbarazzo alla poveretta, ma naturalmente la cosa finì in una risata, tanto parve spontanea la manovra. Ognuno trovò parole acconce per scusarsi e la scena stava per finire, così che ognuno se ne sarebbe andato per la sua strada, quando una voce, dalla retroguardia del gruppetto, buttò là una domanda,
scherzosa e provocatoria insieme: "Che, lei la conosce l’algebra?"
La ragazza, che ancora non si era del tutto districata dall'impedimento creato sui suoi passi, rimase come presa in contropiede. Capiva benissimo che si trattava infine non di monellacci, ma di studenti e cercò lì per lì una risposta.
"No ‐ disse ‐ le lingue non sono mai state il mio forte."
A questo punto furono i ragazzi ad essere presi in contropiede.
"Ah!" fece uno.
"Ci scusi ancora." fece eco un altro. E nel frattempo si erano fatti da parte e avevano lasciato passare la ragazza che con un sorriso e un appena accennato inchino continuò la sua strada.
Sulle prime i ragazzi erano rimasti allibiti, ma dopo qualche secondo, che la ragazza non si era ancora allontanata di più di dieci metri, scoppiarono in una corale risata. I commenti furono concordi; la risposta aveva tracciato un quadro completo. Ahimé, la cultura di quella ragazza non aveva superato il livello elementare. Scambiare l'algebra con una lingua era davvero troppo. Avrebbe fatto meglio, poverina, a tacere o magari a dire che non ne sapeva niente, o a confessare con candore la pura verità. Doveva ben immaginarlo che quegli sbarbatelli che si davan arie di vissuti erano studenti e pronti a giocar tiri mancini a chi gli fosse capitato. E lei del resto, non si dava arie da gran signora, con quel suo tacchettare puntuale per il Corso, fingendo una sostenutezza cui forse corrispondeva una gran voglia di entrare in quel mondo che non le apparteneva?
La voce si sparse nel giro di un pomeriggio. Gli studenti, seppure appartenenti a scuole diverse, di solito, si conoscono tutti ed il "tam‐tam" portava veloce le notizie più golose. Si trattava generalmente di pettegolezzi, piccoli flirt o cose del genere.
Poiché nessuno era riuscito mai a sapere il nome della ragazza, qualcuno suggerì subito di chiamarla Algebra.
E così fu.
I pomeriggi dell'anno scolastico si succedettero l'uno all'altro come una routine sperimentata da sempre, e la ragazza, come se niente fosse accaduto, continuò il suo passare rapido per il Corso, con i suoi soliti abitini attillati, che ne mettevano in evidenza i glutei sferici e saltellanti ad ogni passo, il busto eretto, lo sguardo indifferente. Si era resa conto della enorme gaffe che aveva commesso? Si sentiva, dentro, cresciuta o sminuita nei confronti di quei gruppuscoli maliziosi che la guatavano in silenzio al suo passare?
E dopo che lei era passata, quando era lontana una cinquantina di metri, immancabilmente qualcuno gettava il grido:
"Algebraaa!"
Altri facevano eco, poi il grido si spegneva fra le risate, e lei continuava imperterrita la sua strada.
Non sapemmo mai se si fosse resa conto di quello scherzo goliardico e infantile insieme.
Eh, sì, eravamo in quella età in cui non si è ancora nessuno e si crede, al contrario, di avere il mondo in tasca, solo perché si indossavano da qualche anno i pantaloni lunghi e cominciava la prima pelurie ad oscurare il labbro superiore. Tutto, anche le cose più serie, (non che il fenomeno "Algebra" lo fosse) venivano irrise. Ci sentivamo volta a volta, a seconda dei giorni, in su o in giù col morale, ma in fin dei conti tutto passava. Ben altre erano le sofferenze autentiche; le nostre non lasciavano segni, se non nella memoria, come quadri di una esposizione, come foto di un album.
E Algebra? Che ne sarà stato? La fine degli studi, la guerra, che ci ha rubato una fetta di vita e ci ha dispersi, corpi e anime in un carosello di cui non abbiamo nai realmente capito il movente, lo scopo, i frutti, se non che è stato un capovolgimento di valori, tutto ciò ne ha fatto perdere per noi le tracce.
Era una ragazza carina che sculettava per il Corso e di cui, non senza una crudeltà che nasceva dalla voglia incipiente del possesso, tuttavia precluso, ci prendevamo gioco, senza alcuna consapevolezza.
Forse sta raccontando a nipoti liceali o universitari di quella volta in cui, bloccata per strada da un gruppetto di sbarbatelli, si era trovata confusa tanto da vergognarsi a confessare che non aveva mai studiato l'algebra, lei, povera ragazzina di campagna che aveva voluto tentare di essere una di città.
E le pare di risentire nelle orecchie quel richiamo irridente alle sue spalle che nessuno le avrebbe più tolto di dosso:
"Algebraaa!"