Anamour, Edizioni Creativa 2014.

capitolo 2_ Solitario
Gli tengo in piedi la casa perché da solo si perde, questo

mi ha detto. Fa quasi tutto, ma poi gli manca

l’attenzione al passar dei giorni e si trova con montagne

di roba sul tavolo, nei lavelli, e polvere che appare su

ogni cosa ... non se lo spiega, la vede lì, cresciuta dal

nulla, e si ferma a osservarla.

Ha voluto che ci conoscessimo a pranzo, appena arrivati

in terrazza – era tutto apparecchiato per bene – si è

presentato: mi chiamo Silvio, mi ha detto.

Ha preso a parlare come un ruscello che sgorga, fragile,

dal terreno e te ne accorgi quando la terra si fa scura

caricandosi d’acqua.

Così le sue parole, subito piccole, quasi casuali, si sono

riempite di significato dando vita a un racconto troppo

intimo per un primo incontro.

Ora dice che, da quando le sue donne l’hanno lasciato,

non è più interessato alla vita come vorrebbe.

Vive di istanti che cuce l’uno assieme all’altro, ma fa

fatica a cogliere un filo che li unisca come in una storia.

Si trova solo da poco ma era da tempo destinato a

questo stato.

Ha fatto troppi errori che, sommati l’uno all’altro, hanno

creato una situazione che mi sembra irrimediabile.

Lo osservo un po’ inespressiva e lui riattacca a parlare

come se si dovesse liberare di tante piccole noie, stese

sull’anima come la polvere compatta di tanti giorni.

Continua spiegandomi perché sta da solo in una casa così

grande.

Sua moglie, distratta, ce l’ha lasciato dentro ... senza

chiedere nulla. Una volta ancora.

Non ha mai chiesto nulla se non certezze, l’unica cosa

che lui non avrebbe mai saputo darle.

Cose come un bel sorriso quieto, una mano tesa

immobile a mezz’aria, un pensiero cortese, una

formalità ripetuta uguale a se stessa ogni giorno.

Giunta allo stremo, nel colmo dell’insicurezza

economica, ha deciso di partire.

È scappata come davanti a un uomo violento. Fuggita da

quelle ombre che incontrava ogni giorno, ormai da troppi

anni.

Sagome scure irriconoscibili, disegnate coi margini netti

e tenaci di un’incomprensione sottile, colma di silenzi

lontani.

È sparita mettendo in fretta in borsa quei silenzi

trasformati in distanze incolmabili. Punti interrogativi

atrofizzati, timidi, che non meritavano più attenzione.

Mi racconta tutto e, a questo punto, fatico a seguirlo.

Un po’ in ansia per l’avvicinarsi dell’appuntamento che

ho nel pomeriggio, osservo la cura con la quale serve il

pasto come un atto mirato a calmarmi.

Deve essersi reso conto di quanto tempo ha passato a

parlare o, forse, si tratta semplicemente di un’abitudine

costruita negli anni.

Nulla che abbia a che fare col rispetto per l’ospite né,

tanto meno, col fascino che le mie poche, attente,

parole possono aver avuto al suo orecchio.

Frasi brevissime sparse qua e là nei pochi momenti di

silenzio.

Utili per vendersi al meglio forse, e che mi trovano

silenziosa ed esausta un attimo dopo esserci riuscita.

Le risento stentate, forse troppo mielose per produrre

fascino, me ne rendo conto al cambio di piatto al suo

ritorno.

Ho vissuto sempre dentro di me in questi primi mesi

dopo il mio ritorno, attaccata e centrata sui miei

pensieri.

Tanto da scordarmi che il mio aspetto suonava in

perfetto accordo con la mia voce: nulla oltre pulizia e

ordine.

Unghie pulite, non curate, capelli pettinati non

immaginati, abiti anche troppo stirati, ma banalmente

comodi.

Nessun vezzo che esprima il mio amore per il ballo o

trasformi qualsiasi altro sentimento in un tratto della

mia immagine.

Volevo quel preciso aspetto e, allo stesso tempo, lo

pativo come una punizione.

Allo stesso modo provavo un certo piacere a confortare

quell’uomo ma non potevo che farlo in quel modo:

sufficientemente programmato da sembrare solo

corretto e un po’ freddino, ad alcuni forse addirittura

falso.

Comunque, stanca di quella lunga confessione,

approfitto della sua assenza in cucina per il caffè o

chissà cos’altro, mi bastano pochi secondi di vuoto sulla

terrazza, il vapore caldo che producono ancora i tetti

che tremano come in un miraggio e scappo via con la

mente.

I ricordi sono ancora lucidi, è passato poco tempo dal

mio ultimo viaggio.

Parto verso la pioggia quotidiana che segue le mattine

ventose.

Vedo le nuvole che scendono dalla cordigliera, il verde

impenetrabile dei parchi del fine settimana e, lontani di

giorno e prossimi la sera, i tuguri del bàrrio sulle prime

pendici a est.

Ogni colore vivido come gli schizzi di tempera sul foglio

bianco della mia Stella, ogni foglia pesante dell’ultima

pioggia subita.

Sento il profumo della mia terra bagnata e l’odore dei

freni della Transmilenio sui lunghi binari in discesa.

La puzza del quartiere con le sue lucine fioche che

ciondolano, lente, nel buio dei cavi elettrici rubati.

La voce della gente ... per ultima, sfumata, quasi assente

fino al silenzio e il suo viso, quello dell’uomo che mi ha

costretta a fuggire.

Un viso che sfuma via in fretta su quello di Silvio che

riappare.

Ordinato, capelli troppo pettinati anche lui come me ma

diverso, mi guarda e si accorge che sono partita.

Deve aver realizzato, anche se non lo spero affatto,

l’aspetto innaturale di quel pranzo sulla terrazza.

I tempi troppo dilatati per un primo incontro, l’intimità

artificiale, forse anche la mia fretta inopportuna e

improvvisamente vivace.

Si scusa con poche parole informali, che confermano le

mie sensazioni, e porta via tutto accatastandolo in

cucina malamente, con qualche rumore.

Salutandomi, davanti al caffè della moka, mi dice che

non è la solitudine a dettargli le mosse e, che gli creda

per cortesia, intendeva solo mostrare il giusto rispetto.

Appena scese le scale mi chiama al telefono e mi dice

che allora, se per me va bene, cominciamo pure da

domani, e si scusa ancora.

Ho passato qualche ora, al lavoro nel pomeriggio, su

quelle due frasi “mostrare il giusto rispetto” e “se per

lei va bene”, senza capirle.

Dopo qualche settimana, avendo preso un po’ di

confidenza, davanti a un altro caffè mi ha raccontato il

perché della sua solitudine.

Era una situazione più naturale, ero più presente anche

io, oltre che libera nel pomeriggio.

Produceva il busto di papa Giovanni, mi ha detto.

Ogni anno ne aggiornava il disegno.

Gli umori della gente inseguono il mutare del tempo e lui

faceva lo stesso col busto del “papa buono”.

Un giorno arriva un commerciante che gli propone di

produrli in Cina.

Lui, visto troppo vicino il nemico, decide di diventarne

socio.

Tre anni dopo le copie perfette del suo modello invadono

tutti i negozi del Vaticano.

Le scopre anche sulle bancarelle di Piazza Navona, senza

che siano transitati dal suo ufficio commerciale e capisce

che il socio orientale ha scelto di fargli la guerra.

Di schianto si accorge dell’errore.

Il fatturato che, di lì a poco, diventa un terzo del mese

prima e sempre peggio.

La gente che deve mandare a casa dopo mesi di lotte e

salti del cuore.

Non riesce a parlare a nessuno di ciò che nemmeno lui

accetta.

Una sera, però, abbandona il suo mutismo e decide che a

sua moglie ne deve parlare.

Sbaglia il momento o i modi forse.

Lei non lo capisce o comunque non gli scusa l’errore.

Anzi, di fronte alle cifre che le svela mano a mano che le

domande si fanno più precise e pressanti, lo lascia e di

colpo quel mutismo si trasforma in silenzio: puro,

equilibrato e finalmente intimo.

Le figlie vanno con lei e, poco dopo, lascia il lavoro

anche l’ultimo dipendente dell’azienda, anch’essa ora

colma di quello stesso silenzio che sembra ancora più

assoluto e desolante per quanto è stato improvviso.

Vede spesso le figlie.

Ora lo guardano con gli occhi della madre, è normale

dice, ma lui aspetta con quanta più calma riesce a

tenere: cresceranno.

Ha mollato, d’un botto, tutto ciò che parlava di sé: il suo

ufficio, la politica, la finanza, il partito e gli eventi.

Da allora passeggia per i vicoli del Vaticano nel tardo

pomeriggio e, prima o poi, tornerà a lavorare, dopo che

il tempo avrà cambiato umore.

Mi racconta tutto questo non riuscendo a nascondere uno

strano piacere che, di nuovo, non capisco.

Sottolinea gli sbagli commessi col ritmo lento della voce.

Sembra volerli memorizzare mettendoli in fila come i

panni ad asciugare, ben stesi che non ti facciano patire a

stirarli.

Riesce a piangere solo quando suona la musica.

Si chiude nelle note tutti i giorni dalle nove del mattino

sino a quando vado via, verso l’ora di pranzo, attraverso

Via del Boschetto.

Prima di uscire lo vedo che apre la porta di quella

camera col pianoforte enorme nero e lucido.

Noto in lui uno sguardo un po’ più leggero, non certo

spensierato ... sollevato piuttosto.

Mi rivedo in quegli occhi quando affamata riesco a fare

uno spuntino, piluccato tra un lavoro e l’altro.