Ancora corre...
Era il 1958, l’anno in cui nacque mio fratello.
Nel periodo breve in cui mia madre, per il parto, rimase al reparto maternità del Policlinico Umberto I, mio padre si preoccupò di trovare una persona che la sostituisse in tutto, tranne naturalmente nella funzione di moglie...
Era una ragazza del piccolo paese in sabina da dove proveniveno i miei genitori e che avevano lasciato dopo il matrimonio.
Non sposata, aveva lavorato “a servizio”(come si diceva allora) presso una famiglia benestante di Roma che aveva fatto di tutto e di più per trattenerla per la professionalità e l’affidabilità che la distinguevano, era la migliore sostituta che potessi desiderare. Sapeva quando e come gestire le faccende di casa cominciando dalla preparazione della colazione, del pranzo e della cena e continuando con tutte le attività connesse, fare la spesa e, soprattutto, il controllo delle scorte alimentari che, a casa nostra, è sempre stato effettuato con regolarità e competenza. Sarebbe stato un dramma rimanere senza pane o altro! La ragazza, Silvia, oltre ad essere una brava cuoca, referenza indispensabile per poter coprire il posto e soprattutto il livello di competenza di mia madre, doveva occuparsi anche delle pulizie, del bucato e di tutto ciò di cui si sarebbe occupata lei se ci fosse stata. Nel “tutto ciò” rientravano naturalmente anche gli imprevisti come quello che capitò proprio in quei giorni...
Era quasi l’ora di pranzo, io ero a scuola perchè frequentavo il turno pomeridiano quello che si aggiunse all’antimeridiano per mancanza di locali.
Papà sarebbe arrivato di lì a poco, dopo il servizio nella caserma della “Benemerita” in Piazza del Popolo dove svolgeva il servizio con il grado di “appuntato”.
La ragazza dunque era sola nella cucina del piccolo bicamere a piano terra, in uno di quei villini edificati nelle zone periferche della nostra bella Roma.
La cucina non aveva finestre e la porta di accesso dall’esterno, che vi si apriva direttamente, era quasi sempre aperta per fare entrare aria e luce.
Proprio per la porta aperta Luisa vide un uomo che, bofonchiando un “Buon giorno” a mezza bocca, si accingeva senza attenderne il permesso ad entrare in casa nostra, dopo aver superato i due scalini di travertino che ne permettevano l’accesso.
Quel che avvenne dopo ha bisogno di un breve preambolo...
Il 27 agosto del 1924 era nata a Roma, dalla fusione delle società Sirac e Radiofono, l’ Unione Radiofonica Italiana, l’URI che sarebbe diventata la RAI e che il 6 ottobre di quell’anno aveva trasmesso il primo annuncio radiofonico dalla voce di Ines Viviani :
<<L’URI, Unione Radiofonica Italiana, stazione di Roma. A tutti coloro che sono in ascolto il nostro saluto…>>
Un decreto legge del 1938 aveva, poi, stabilito per chi possedeva “uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni” l’obbligo di pagare un canone di abbonamento. Tale decreto non definì solo l’importo e le modalità di pagamento, ma anche le persone, gli organi preposti al controllo e le sanzioni per gli evasori di quella tassa.
Dunque, tornando al racconto, “Chi è lei? Cosa vuole” gli aveva chiesto Silvia con voce alterata.
“Sono un agente della Rai e devo riscuotere il canone di abbonamento perché risulta che Chini Vincenzo possiede un apparecchio radio.”
La cosa in sé era plausibile visto che il famoso decreto del ’38 all’articolo 17 istituiva un registro per aggiornare l’elenco di ogni apparecchio radio‐ venduto, riparato o regalato‐ con il nome e cognome del possessore e la cui consultazione era permessa, anzi dovuta, agli agenti delle imposte e della Rai.
L’audacia dell’agente spaventò Silvia che cercò di convincerlo:
“Non abito qui, sono ospite per qualche giorno... ma vi posso assicurare che in giro non ci sono apparecchi radio...”
“E io invece vi assicuro che risulta...”
Silvia alzò la voce:
“Qui non c’è nulla! Esca subito da questa casa!”
Quasi contemporaneamente si aggiunse la voce alta e autoritaria di mio padre che, arrivando, aveva colto le ultime battute di quella diatriba:
“Con quale permesso lei è entrato a casa mia?” tuonò.
“Sono un agente ...”
Mio padre non gli fece finire la frase:
“Fuori!” Ripeto “Fuori da casa mia!” Non vede la mia divisa?”
“Mi risulta che lei possieda una radio...” cercò di concludere l’agente.
“Ma allora non ha capito? Ho detto fuori!! Esca fuori” ” e questa volta il tono della sua voce fu veramente convincente anche perché non aveva solo la voce potente ma anche un fisico imponente...
Non ci fu bisogno di ripeterglielo. Gli occhi di Silvia si rasserenarono e brillarono di ammirazione per mio padre.
L’agente si allontanò velocemente brontolando e minacciando denunce.
Papà raccontava spesso questo episodio a mamma, confessando che un apparecchio radio, regalatoci da non so chi, era chiuso nell’armadio e non lo usavamo proprio per non pagare il canone.
Io ascoltavo il racconto sempre volentieri e più di tutto mi piaceva risentire la frase, riferita all’agente, con cui mio padre lo concludeva sempre:
“Ancora corre!”