Annadelmare del sì
"...Da partenze diverse, avevamo percorso tutti la stessa strada accidentata; cadendo e ferendoci, tutti abbiamo sentito dolore e tanti ne sono rimasti accecati; io sono stata fortunata, il dolore è stato pietoso con me e mi ha lasciato solo le ferite che se pure non guariranno, lasceranno cicatrici a testimonio del vissuto.
Il male ricevuto, altro non era che l’evoluzione del Maestro d’Amore; non lo seppi subito, dovetti camminare ad occhi spalancati nell’inferno senza mai poterli chiudere, costretta a sentire l’humus spalmato sulla pelle e il viscido strisciare dei vermi sul mio corpo. Girovagai per anni nel ventre della terra, come vecchia quercia, mi nutrii del putrido lasciando cadere ad una ad una le foglie che ornavano le mie fronde.
Quanto dolore per ogni foglia che si staccò, quanto amore precipitava e cadeva in un sordo tonfo, come costruzione di cemento a cui si bombardano le fondamenta; erano foglie ma non volteggiavano mestamente per raggiungere il terreno, si fracassavano sull’anima. Io, quercia, mi spezzavo sotto il peso dei miei stessi rami e nel tentativo di fermare il sangue che stillava impavido dal moncherino lasciato da ogni foglia, squarciavo il tronco.
Imparai la compassione di me.
Il Maestro d’Amore, paziente, mi guardava apprendere con fatica.
Rimase seduto ad ascoltare i miei ruggiti di animale ferito, accanto a me, nella mia tana buia che pur facendomi paura mi riparò dal cataclisma tutt’attorno.
Mai mi lasciò chiudere gli occhi per non vedere, non fu pietoso; restava compagno silenzioso, sentivo il suo respiro soffiare sulle ombre gelide dei mostri che coprivano il mio cielo da quando avevo aperto il vaso di Pandora, e vagavano dispersi sul mio suolo.
Fu il mio unico amico, l’unica essenza che mi rimase accanto, quando sparii dalla società. Chi mai avrebbe potuto capire la mia anima spezzata, se avevo ripetutamente dimostrato di essere un’araba fenice? Quante volte ero rinata dalle mie ceneri… Ero una colonna portante, ero marmo che nulla poteva scalfire e tutti ebbero facoltà di sbertucciarmi.
Tutti quelli che avevano bevuto alla mia fonte non accettarono che non ci fosse acqua per loro e distrussero la sorgente coprendola di massi.
Il marito, gli affetti, il lavoro, la città, mi lasciarono ai piedi della fonte, Maestro d’Amore spostò i massi e mi tirò fuori circondando con le sue braccia le mie spalle insanguinate, mi strapazzò quando vide che volevo raggiungere la dimensione dove tutto è pace e mi portò al mare, in un silenzioso paesino toscano, e nelle acque fredde di quell’inverno, lavò le mie ferite. L’anima pianse e strepitò quando la salsedine bruciava sulle piaghe aperte e senza pietà lasciava colare il mio malessere nelle onde increspate.
La musica tempestosa del libeccio portò verso terra voci di angeli che non riuscii a distinguere finché non guarirono le mie orecchie, sfidai il mare grosso per riscoprire la forza, figlia della paura, e raccolsi ortiche per nutrirmi, volli rimanere cucciolo di animale esposto e solo, per imparare a vivere; conobbi Dio affondando i piedi nella montagna di alghe che ricoprì la riva quel ventoso e gelido inverno, io, che avevo sempre affidato a Lui ogni mio giorno nuovo, mi accorsi di aver condiviso e mai affidato veramente la vita che avevo vissuta, soltanto in quei momenti lo avevo fatto pienamente.
Ero nelle sue mani, Lui sapeva se quel giorno avrei trovato da sostentarmi e se mi fossi svegliata ancora e se avrei camminato con le mie gambe.
C’era Lui e si prese cura di me, fu il mio cardiologo e il mio pneumologo, fu il medico che tenne costanti i parametri del sangue e del calcio nelle ossa, stabilì le mie capacità fisiche finché rimasi sola, mi diede da bere e da mangiare tutti i giorni.
Volle lasciarmi in vita per non tagliare il nastro del traguardo prima che io arrivassi, pronta. Mi regalò Maestro d’Amore e quadrifogli, e farfalle e uccelli svolazzanti nella mia aria, e anime belle e nuove che hanno profumato di pulito il mio andare.
Sotto la lava che tutto aveva coperto, rimasero vivi affetti creduti dispersi che tornarono a sfilare nel mio sangue per appoggiarsi dolcemente sul mio cuore troppo malato per reggere colori pesanti, malato e vivo di forza nuova quanto basta per concedergli di pompare e far danzare nei suoi riflussi l’amore..."