Antidoto per il veleno nell'anima
Amanda era una ragazza sempre di corsa. Si alzava la mattina, sempre troppo presto, dopo una notte di sonno, sempre troppo poco.
Niente colazione, un caffè a casa, uno di corsa al bar e poi in ufficio a immergersi nel lavoro.
Sempre e continuamente avere la mente occupata. Questo era il suo motto. Con i colleghi andava d'accordo. Quasi con tutti. Alcuni la consideravano scontrosa (quelli che le facevano perdere tempo inutilmente), altri la consideravano una bella ragazza sempre, o quasi, sorridente e se... troppo sorridente.
Maurizio, il suo ragazzo, era un giovane avvocato all'apice della carriera, mentre lei era l'assistente del direttore vendite di una grande catena internazionale di cosmetici. Quei pochi momenti in cui si lasciava andare al passato si chiedeva che cosa nel tempo l'avesse cambiata a quel modo.
Non aveva ancora trovato una risposta.
“Non mi ami più” le aveva detto Maurizio la sera prima sul divano.
Lui sdraiato a guardare la finale di Champions League, lei intenta a “surfare” su internet. Qualsiasi cosa pur di tenere la mente occupata.
Lo aveva dovuto ripetere due volte, tanto lei era concentrata a snocciolare le super offerte su un famoso sito di aste online.
“Cosa? Ma sei matto? Come ti viene in mente” gli aveva risposto metà tra l'assorto e lo scherzoso.
“No, non sono matto. Tu non mi ami”.
Il tono della voce di Maurizio era quello di un ragazzino che faceva i capricci perché la mamma non gli dava retta. Una cosa che ad una persona come Amanda faceva venire i nervi a fior di pelle.
Lo guardò per la prima volta quella sera e quando vide l'espressione sul volto dell'uomo, che avrebbe dovuto amare, si spaventò.
Si accorse che colui con il quale aveva condiviso l'appartamento nei quattro anni passati, era solo un estraneo.
“Non mi racconti mai nulla di te, mai quello che ti frulla per la testa. Nemmeno quando parlo e te fissi il vuoto come se fossi su un altro pianeta.”
La cantilena infantile aveva lasciato il posto a un timbro di voce triste e rassegnato, che per un momento raggiunse il cuore di Amanda.
Per pochi istanti lei sentì un impulso, un sentimento che era tenerezza oppure forse solo pena nei confronti di Maurizio. Ma solo per pochi istanti.
“Insomma non ti fidi di me. Non ti fidi di nessuno tu.”
Sentiva la rabbia che le saliva, ma respirò profondamente prima di rispondergli. Quello che disse le uscì di botto.
“Ovvio che non mi fido di nessuno. Mi sono sempre fidata in passato, mi sono confidata e sia amici che amori mi hanno pugnalato alle spalle. Si sono inventati storie sul mio conto oppure hanno semplicemente raccontato ai quattro venti i miei segreti rendendomi vulnerabile. Amici che mi hanno usata, ragazzi che mi hanno lasciata perché ero troppo strana, troppo malinconica, troppo... Insomma degli altri io non mi fido!”
Stava lasciandosi andare troppo, Amanda, e lo sentiva. Era il momento di stare attente e trattenersi.
“Ma io non sono loro. Non solo gli altri!” le urlò Maurizio.
Silenzio. Durò qualche secondo che però a lui sembrava durare ore.
“No, e nemmeno loro erano gli altri prima, lo sono diventati dopo.” Lo disse con una calma, con un filo di voce. Si stava tradendo, stava tradendo la maschera che aveva imposto alla sua personalità.
Era ora di smetterla con questo gioco pericoloso.
Lo guardò e per un secondo la tenerezza e il dolore le sfiorarono i lineamenti. “Ti sei innamorato di me perché sono così. Se iniziassi a fidarmi di te, ti stuferesti.”
Rise per sdrammatizzare, ma non c'era reazione da parte del suo interlocutore. La Champions League sembrava aver ripreso tutta la sua attenzione, anche se il suo sguardo lo tradiva.
Amanda e Maurizio quella notte divisero il letto e anche le loro vite.
Due sere dopo, quando lei tornò dal lavoro, trovò l'appartamento svuotato delle cose di lui e un biglietto: 'Mi sono stufato anche così'.
Non pianse nemmeno una lacrima. Era tempo ormai che non piangeva più per colpa degli altri.
Si spogliò, fece un bel bagno caldo leggendo e infine si buttò sul divano. Accese il computer e fece tutto quello che ormai da anni faceva per tenere la mente (e ora anche il cuore) occupati.
Si era assopita quando squillò il telefono. Era Melania, l'unica persona al mondo che si avvicinava all'idea che tutti noi abbiamo di un'amica.
“Allora esci? Ho sentito di Mauri. Quello che ti serve ora è una bella festa dove trovare un bel chiodo!”
Era così Melania. Niente miele, niente commiserazione, niente pietà. Avanti. La vita va avanti.
“Sì... per piantarmelo in testa” rise Amanda. E rise di gusto.
“Dai! Sega mortale che non sei altro” ‐ le rispose l'amica con tono di superiorità ‐ “Le feste sono il miglior elisir per le mollate e sconsolate... Poverinaaaaa...” Ci infilò questa frase di finta pietà che però ebbe l'effetto desiderato.
“Sono pronta in dieci minuti e fa che non sia una di quelle feste piene di fighetti tutti sopracciglia rifatte e muscoli!”.
Era la promessa che si faceva fare da Melli, come la chiamava lei, ogni volta che andavano ad una festa.
Amanda era costretta a vestirsi come se andasse a bere il tè con la regina d'Inghilterra (amava questa frase) tutta la settimana al lavoro. Il weekend e le feste erano dedicate all'essere se stessa, almeno esternamente: jeans, magliette coloratissime e anfibi!
Mauri questo non lo aveva capito, ma tanto non uscivano mai insieme nel tempo libero. Incompatibilità di amicizie troppo fighette, la chiamava lei ridendo, senza capire che feriva i suoi sentimenti.
Quella sera fuori faceva freddo. Per essere sicura di non morire e nel dubbio che si finisse con il passeggiare verso casa ubriache, aveva allacciato i suoi stivali con il pelo dentro, legato la bella sciarpa coloratissima che le aveva regalato sua madre lo scorso Natale e infilato in testa il suo berretto di lana verde con i para orecchi, comprato da un peruviano simpaticissimo al mercatino dell'usato.
Attese Melania che arrivò con il taxi una buona ventina di minuti dopo. Si prospettava una serata alcolica, pensò, mentre si infilava nell'abitacolo.
Tra chiacchiere e risate arrivarono al portone della casa di Valentina, la tizia che dava la festa e che ovviamente loro nemmeno conoscevano.
Mentre Melania pagava il taxi, Amanda scorse un barbone seduto al lato della strada. Aveva gli occhi neri e tristi come una notte buia senza stelle.
Si accucciò per riuscire a guardarlo in faccia, anche solo per vedere se stava bene.
Si fissarono a lungo negli occhi senza dire una parola, ma capendo tutto l'una dell'altro.
Ad un tratto l'uomo le prese il polso facendola sussultare, si avvicinò al suo orecchio e con un filo di voce le sussurrò: “La paura è lo strumento preferito della morte. Non lasciare che ti rubi l'anima.”
“Amanda allora vieni?” Urlò Melania che la guardava scocciata. Amanda sussultò nuovamente e si staccò dalla presa. Massaggiandosi il braccio si allontanò dal barbone tenendolo però bene in vista con la coda dell'occhio.
“Cosa aveva da dirti di così interessante il barbone?”
“Mi voleva dare un consiglio” i suoi occhi si erano persi nel vuoto e la voce era come se non fosse la sua.
“Eh beh... proprio uno così ci può dare dei consigli a noi” rise Melania.
Amanda per un attimo la guardò senza riconoscerla, ma poi lei si girò e sorridendo (un sorriso pieno di tenerezza, così strano da parte sua) disse: “Mi sa che però solo un uomo che ha vissuto e visto così tanto schifo può avere un consiglio sensato da darci.”
Si sorrisero e si incamminarono alla festa.
L'appartamento era il solito stile new age che andava tanto di moda. Dava quel tocco di falso anticonformismo, che, per altro, aveva tutta la festa.
Melli era già sul divano avvinghiata ad un pseudo metallaro anarchico (si deduceva dalla maglietta) e non sembrava avere intenzione di staccarsi dalla morsa. Amanda, seduta su uno sgabello davanti al tanto poco anticonformista bancone da bar installato senza il minimo gusto nel salotto con tanto di arredamento indiano e incensi, si beveva l'ennesima birra e pensava (ahimé ci era cascata causa alcool) alle parole del vecchio.
“I tuoi occhi tristi sono la cosa più interessante di questa insulsa festa.”
Si girò e fissò incredula il ragazzo che aveva appena pronunciato la frase peggiore che si potesse scegliere per attaccare bottone con una ragazza ad una festa pseudo new age.
Era il tipico ragazzo per cui la vera Amanda avrebbe perso la testa qualche anno fa. Normale a parte i tatuaggi sugli avambracci che si intravedevano sotto la maglietta verde tirata su fino ai gomiti. Forse un piercing sulla lingua visto quella pronuncia un po' strana. Normale, insomma, a parte lo sguardo incomprensibile di chi è naturalmente misterioso, senza secondi fini. Come la frase che le aveva detto. Aveva quell'aria così... mmmm... No!
Amanda ritornò in sé di scatto. Come morsa da un serpente. Si ricompose e con aria di sufficienza lo guardò meglio.
“Ma complimenti! Hai scelto una frase d'effetto. Peccato che così non riuscirai a portare a letto nessuna o nessuno stasera” gli disse con la sua solita ironia pungente.
“Le persone tristi...” aggiunse lui, come se nemmeno avesse sentito quello che gli era stato detto “... mi affascinano, sai. Hanno sempre qualcosa di interessante da raccontare.” La osservava come si osserva un animale che non si è mai visto prima.
“Ma io non sono triste! Mai! Sorrido sempre” rispose lei seccata e come per provare quello che aveva appena detto abbozzò uno splendido (e falso) sorriso.
Lui non le guardò nemmeno per un attimo le labbra, continuava a scrutarle lo sguardo.
“Dovresti raccontarle sai...” aveva una voce strana, o forse era solo l'effetto della birra “... quelle cose che ti incupiscono gli occhi a quel modo.” Si fermò un secondo prima di sussurrarle: “Liberatene!”.
Amanda era così arrabbiata e spaventata che lo avrebbe voluto mandare a quel paese, ma in un lampo le parole del vecchio le attraversarono il cervello.
“Andiamo a casa tua.” gli disse, senza staccare gli occhi dai suoi.
L'appartamento del ragazzo misterioso, non aveva nulla di misterioso. Non che Amanda avesse avuto tempo di guardare tutto come faceva di solito. Fece, invece, quello che non faceva da un sacco di tempo.
Fece l'amore.
Ma non era quello che non faceva da tanto tempo (anche se a dire il vero non l'aveva mai fatto così intensamente prima), bensì Amanda cominciò a parlare, a raccontare e sembrava aver aperto il rubinetto del suo cuore e della sua anima.
Raccontò se stessa, le sue ferite, i suoi sogni infranti e quelli ancora con la speranza di avverarsi. Il fatto di aver nascosto la vera Amanda dietro ad una maschera. Una maschera che la proteggeva, ma allo stesso tempo le soffocava i sentimenti, le emozioni. Il fatto di essere sempre di corsa, sempre a fare qualcosa per tenere la mente occupata, per non pensare. Le sue paure... e mentre si lasciava andare alle carezze di questo sconosciuto addormentandosi piano piano, lui le sussurrò: “La paura è lo strumento preferito della morte. Non lasciare che ti rubi l'anima.”
Stava per addormentarsi e pensava di sognare. Pensava che fossero ancora le parole del vecchio barbone a rimbombarle nelle orecchie.
La mattina seguente si svegliò, come non si svegliava da un sacco di tempo. Trovò sul cuscino vicino a lei un biglietto e una margherita: “Fai colazione piccolo angelo triste.”
Lei però quella mattina non si sentiva né triste né felice. Non sapeva come si sentiva. Si alzò e si vestì in fretta e furia... Le era balenata un'idea nella testa e ora doveva solo scappare da quel posto!
Il giorno dopo, lunedì, si vestì come al solito, come se andasse a prendere il tè dalla regina d'Inghilterra e fece come tutti gli altri giorni.
Tutto secondo le regole.
Entrò in ufficio e salutò con un sorriso. Si sedette alla scrivania, accese il computer e cominciò a scrivere. Stampò un foglio. Andò dal capo, lo abbracciò e gli porse la sua lettera di dimissioni.
Uscì dall'ufficio senza nemmeno aspettare la sua reazione.
I mesi che seguirono furono il periodo più strano e bello della sua vita.
Con la liquidazione finì di pagare le rate dell'appartamento che aveva comprato un anno dopo aver iniziato a lavorare.
Lavorava con Melanie nella sua libreria.
Si era anche iscritta a lettere! Sì, avrebbe inseguito il suo sogno, uno di quelli che ancora si poteva avverare! Sarebbe diventata scrittrice.
Infatti scriveva, scriveva... sempre, dovunque... in continuazione.
Scriveva per sé, scriveva per Melli, per il vecchio, per il ragazzo della festa, ma soprattutto per lui... o lei... il bimbo che di lì a qualche mese sarebbe nato.
L'appartamento l'aveva affittato ad una coppia gay, new age e falsamente anticonformista. L'avevano rivoluzionato. A lei non importava un fico secco. Viveva con Matteo. Il padre del suo bimbo. Il ragazzo normale della festa.
Lui lavorava come commesso in un negozio di dischi e non chiedeva di meglio.
Il giorno in cui Luna venne alla luce, mentre Amanda la teneva tra le braccia e le accarezzava e baciava il suo visino minuscolo, le sussurrò: “Amore mio, la paura è lo strumento preferito della morte. Non lasciare che ti rubi l'anima.”
Matteo sorrise.
“Te la ricordi ancora quella frase.”
Amanda sorrise a sua volta non capendo.
“Si, il vecchio barbone alla festa dove ti ho conosciuto è anche lui artefice di questo miracolo.”
Mattia sorrideva ancora e nemmeno lui capiva.
“Anche mio padre lo diceva sempre...” accarezzava la manina di sua figlia mentre gli occhi gli brillavano “Ti sarebbe piaciuto piccolina, sai... aveva gli occhi neri e tristi come una notte senza stelle.”
Amanda si bloccò trattenendo il respiro e si girò lentamente verso di lui. Matteo la guardò con un espressione di incomprensione, che immediatamente svanì.
Si fissarono a lungo, negli occhi senza dire una sola parola, ma capendo tutto.
In quel momento Luna aprì gli occhi.
Aveva gli occhi neri come la notte, ma della tristezza nemmeno una traccia, ancora.