Archi di bosso
Giunse nella piccola frazione alla quale era stato assegnato probabilmente a fine primavera.
Le piante erano rigogliose, crescevano fitte, cariche di spighe.
Il grano era pronto per essere raccolto e lui era pronto per diventare parroco.
Il vescovo gli aveva affidato una parrocchia di campagna, che per 25 anni aveva aiutato come viceparroco il prete di un altro posto.
Era alto, allampanato, indossava una lunga veste nera, che denotava, un uso prolungato.
Si accorse che la parrocchia era delimitata da un piccolo affluente di un fiume un po’ più grande.
L’altro limite della medesima era costituito da una via, lunga e tortuosa, Via Conchele Sera, che però dalla gente del luogo veniva chiamata la via dei morti.
La strada portava infatti al cimitero. Secondo le ricerche di alcuni storici quel posto era stato un lebbrosario.
S’insediò nella nostra parrocchia portandosi appresso due sorelle e due nipoti.
Quando fece il suo ingresso solenne, trovò il paese addobbato a festa, con glia archi di “bosso” che partendo dall’inizio della provinciale giungevano sino alle porte della chiesa, con le bandiere multicolori agitate dai bambini e le scritte multicolori tenute in mano dalle donne.
Ogni famiglia aveva un tratto di percorso da fare.
I capifamiglia si riunirono e poiché erano in procinto di mietere il frumento decisero una prima offerta del raccolto non appena trebbiato.
Decisero pure che, per ogni filare di viti, un cesto doveva essere messo a parte per la chiesa e anche che ogni campo di granoturco doveva dare un certo numero di pannocchie per la medesima.
A Pasqua uno dei polli doveva essere destinato per la chiesa e tutte le uova che fossero nate il venerdì dovevano essere consegnate alle ragazze il giorno dopo che provvedere a consegnarle al prete.
Quando si faceva la dottrina, si consegnava un sacchettino di tela bianca che si riempiva di frumento: circa un chilo.
Un’aggiunta a quello che avevano già dato i nostri padri.
Era sempre infreddolito con uno scaldino di terracotta in mano pieno di braci che ogni tanto andava a rinnovare.
Conosceva a malapena il latino e anche l’italiano, quanto bastava per recitare la messa e scandire la corona del rosario.
La prima domenica che Don Giuseppe disse messa nella nostra chiesa, ogni famiglia vi si recò portando una sedia, che poi lasciò in chiesa ad uso e consumo di tutti quanti, in seguito l’avrebbe adoperata.
La chiesa era infatti, ancora vuota.
Vi erano alcuni banchi delle altre chiese che loro non adoperavano ma che potevano ancora andare bene per noi.
Sulle sedie, che famiglie avevano lasciato in chiesa, fu applicata un specie di tassa: chi la adoperava versava una specie di noleggio: prima di 10 centesimi e poi di venti che il campanaro raccoglieva durante le celebrazioni.
Le offerte per gli altari e le anime venivano raccolte da una borsa appesa ad una lunga pertica, i modo che i “ massari”, addetti alla raccolta, non dovessero entrare tra la gente, mentre la raccolta per la chiesa si faceva con la borsa portata a mano, passando davanti ad ogni persona.
In chiesa, sia per le messe che per le funzioni, si osservava una rigida divisione tra uomini e donne e i bambini stavano sui banchi davanti.
Lo aiutammo anche per la costruzione della canonica e per dare un aspetto dignitoso al terreno circostante; poiché esso era molto al di sotto della strada sull’argine ogni famiglia portò più barelle di terra che poté e tutti insieme centinaia di barelle di terra prelevate dai campi di casa, che rialzarono notevolmente il livello del terreno.
Passava lunghe ore in confessionale.
Don Giuseppe era molto vicino alla gente e loro lo ricambiavano.
Quando doveva portare l’estrema unzione partiva in processione con un gruppetto di chierichetti e suonando il campanello.
Tutte le case chiudevano i balconi in segno di tristezza e posavano gli attrezzi da lavoro.
Sovente si univano alla processione per accompagnarlo al capezzale del malato e mentre lui impartiva il viatico si raccoglievano in preghiera per il moribondo.
Si era negli anni trenta e la gente soffriva la fame. Lui visitava regolarmente le case dei contadini per raccogliere le loro confidenze e quando qualcuno gli regalava dei salami, non se li portava in canonica, ma spesso li offriva alle famiglie che visitava.
Se qualcuno era in difficoltà andava a trovarlo e otteneva sempre qualche piccolo prestito.
Durante il suo apostolato si narrano episodi incredibili.
Un volta un gruppo di ragazzi che erano venuti a trovarlo, al momento della partenza si
ritrovò con i fanali della macchina bruciati.
“Andate pure, non succederà niente”, disse, e infatti tornarono a casa a fanali spenti, passando anche davanti ad una pattuglia della Polizia.
Un’altra volta invece doveva recarsi in curia, ma si avvicinò alla casa di un suo fedele, martellato da una voce interiore che lo esortava a far loro visita.
Trovò i familiari che temevano per la vita della loro piccola figlia che era svenuta, dopo esser tratta fuori da un mastello dove stava annegando.
Prima ancora di intervenire si raccolse brevemente in preghiera pronunciando la fatidica frase: “E’ salva, è salva” e difatti la bimba si svegliò all’istante.
Si dice anche che sia andato a far visita ad un ex seminarista che pareva posseduto dal demonio.
Si ritirò con lui in cucina; né uscì malconcio, con il volto gonfio e rigato di sangue.
Lui non disse niente ma il ragazzo ritorno in sé.
Una volta, avanti negli anni, prestò ad uno sconosciuto un’ingente somma di denaro che questi dimenticò di restituire. Fu allora che chiese al suo vescovo di essere collocato a riposo e si ritirò con le sue sorelle in un alloggio per preti anziani.
Nonostante la lontananza dalla sua parrocchia riceveva molte visite.
Un giorno doveva giungere una comitiva di parrocchiani.
Fu quella l’unica volta che aveva deciso di accoglierli ben sbarbato.
Purtroppo morì nella notte.
Fu riportato a furor di popolo nella parrocchia di campagna, con la cassa aperta.
Alcuni uomini riuscirono con un pretesto a far allontanare l’impiegato del comune che assisteva alle operazioni e fecero posare il coperchio di zinco senza farlo saldare come si doveva.
Fu sepolto in una sera nel piccolo cimitero di questa parrocchia di un numero modestissimo di anime.
Amo pensare che quella sera ci fosse una luce rossastra; quella che s’accende quando il sole si confonde e sparisce tra nubi scure e piene di squarci, adagiate sull’orizzonte come se fossero troppo vecchie e troppo pesanti per poter ancora sollevarsi in cielo.
Ma per lui avrebbero fatto un’eccezione.