Atalanta e Ippomene o dell'amore agonistico
Se vuoi cogliere un fiore
non temere lo spino.
(Renzo Pezzani – Belverde)
C’era una volta, nell’antica Grecia, una bella e attraente ragazza di nome Atalanta, figlia di Scheneo, re di Sciro. Già da bambina, Atalanta aveva manifestato di essere predisposta alla corsa perché possedeva delle qualità motorie eccezionali e, per questo, il padre l’aveva spronata ad esercitarsi, ricredendosi in seguito. Il territorio circostante si prestava molto bene all’allenamento perché era prevalentemente collinare e, a tratti, montuoso. Era dotata di ottimo equilibrio e di un’inconsueta coordinazione dei movimenti corporei, che derivavano sia dall’apparato scheletrico slanciato che dall’eccezionale apparato muscolare. E la sua esuberanza atletica proveniva dalla funzionalità coordinata della velocità motoria del sistema nervoso con quella di contrazione del sistema muscolare. Tutto ciò dipendeva, oltre che dalle potenzialità fisiologiche e da quelle meccaniche del suo corpo, anche dalle sue doti psicologiche. La fanciulla, infatti, oltre a possedere una gittata cardiaca molto bassa per l’allenamento continuo che abbassava la frequenza cardiaca, riusciva a controllare ottimamente le sue emozioni, a cui si univa un’innata capacità di concentrazione. Atalanta seguiva, anche, una dieta alimentare molto equilibrata e usava decotti e infusi, ambedue rigeneranti e rilassanti. Ogni sera, infatti, era solita prepararsi una tisana di semi di finocchio, di anice, di aneto e di cumino che la preservava da quel senso di pesantezza che una cattiva digestione le potrebbe potuto causare. E, di tanto in tanto, si preparava un decotto di radice di tarassaco e di liquirizia, di foglie di carciofo e di semi di cardo mariano che le disintossicavano il fegato e che le permettevano una mente lucida e fresca. Il suo profilo corporeo era grazioso ma, nello stesso tempo, appariva robusto, slanciato e aerodinamico. Dal suo animo, in perfetta sintonia con il corpo, derivava tenacia, costanza, forza di volontà, pazienza e tanto amore per se stessa.
Sulla linea di partenza, Atalanta, dopo aver trovato la migliore posizione di contatto dei piedi con il terreno, si chinava poggiando un ginocchio per terra, poi alzava il bacino più in alto rispetto alle spalle poggiandosi sulle braccia che dritte si sostenevano sulla punta delle dita delle mani e, al via, scattava in avanti come una saetta, fino al traguardo, con velocità costante. Era insuperabile nella corsa.
Per gareggiare con lei, i concorrenti dovevano scriversi nei termini previsti e sottostare a determinate regole. Non potevano, infatti, parteciparvi donne sposate, durante la gara non si poteva uccidere l’avversario o intimidirlo, non potevano corrompersi i giudici o protestare pubblicamente contro la loro sentenza.
Atalanta aveva partecipato da giovanissima alle gare di corsa, sempre nuda, ed era diventata una campionessa vincendo sempre i suoi avversari con un forte distacco al traguardo. Per questo, le era stata eretta una statua e scritto in segno di gloria un epinicio, anche se era stata sempre premiata, com’era di consueto, con un’esile corona ricavata da un ramoscello di ulivo, che la faceva sentire una dea. E questo la colmava di orgoglio.
Atalanta, ogni volta nell’attesa di gareggiare, si allenava tutti i giorni precedenti, pensando soltanto di tenersi in forma e di superare sempre se stessa. Voleva continuare a vincere, diventando invincibile. Era bella e meravigliosamente seducente con quel suo corpo atletico e armonico, per questo rivelandosi desiderata dagli uomini, dei quali a lei non importava niente. Vano risultò, infatti, per il padre, quando la vide diventare donna, il desiderio di vederla sposa soprattutto per un erede al trono, dato che non aveva figli maschi.
Ella sapeva, infatti, che sposandosi avrebbe dovuto rinunciare per sempre alla corsa e a tutte le vittorie che avrebbe potuto conseguire. Spesso l’educazione infantile, portata in modo esasperato all’esaltazione del corpo e alla magnificazione della mente, trasforma il bisogno di cercare il senso della vita in quello di vivere unicamente per i piaceri derivanti dall’amor proprio e dalla sopraffazione degli altri.
Atalanta amava moltissimo correre e non voleva rinunciarvi per nessuna cosa al mondo. Accettò, tuttavia, la proposta del padre, non volendogli recare dispiacere, ad una condizione crudele e disumana: il pretendente che non vince la corsa deve morire! Questa condizione nasceva dal fatto che Atalanta voleva dissuadere chiunque a chiedere la sua mano e poi non voleva perdere il significato essenziale della sua esistenza, quello per il quale era stata educata sin da bambina: correre e vincere nella corsa sempre ed evitare che il concorrente avesse secondi fini. Chi l’avesse, inoltre, affrontata nella corsa, consapevole del pericolo cui andava incontro, avrebbe dimostrato di essere veramente innamorato di lei.
Ad un’obiezione del padre su questa nefasta condizione, lei aveva risposto:
‐ O padre, cos’altro c’è di più bello nella vita oltre all’amore e alla morte?
Era una formidabile atleta, unica, insuperabile. Non aveva altro pensiero, se non quello di correre e di vincere, la ragazza. I suoi pensieri erano volti, durante la notte prima di addormentarsi, sempre su quanto e su come avesse dovuto correre durante l’allenamento. Una cosa soltanto la distraeva, però, dalla corsa, l’oro. L’attrazione incontrollata dai gioielli dorati. Ne aveva una collezione tale da fare invidia al museo più grande al mondo. Andava alla ricerca d’oggetti d’oro di qualunque forma e d’ogni grandezza. Atalanta per questa sua debolezza, a tavola, era solita bere in calici d’oro e mangiava nei piatti d’oro.
Non appena si sparse la voce che il re Scheneo dava in sposa la figlia, gli si presentarono tre giovani atleti provenienti dalla vicina Attica, uno più bello dell’altro, Alcatoo, Echione e Ifito, che ne chiedevano contemporaneamente la mano. Il padre, contento che la notizia si fosse sparsa nella regione così velocemente, disse loro la condizione cui dovevano sottostare. Dovevano gareggiare singolarmente nella corsa con la figlia e, in caso di sconfitta, il perdente sarebbe stato buttato vivo da un alto dirupo, in prossimità della città di Sciro. I giovani atleti, rimasti attoniti per la condizione, rifletterono e solo uno di loro, Echione, attratto dall’avvenente bellezza di Atalanta, decise di gareggiare. Si allenò giorno dopo giorno, per trenta giorni. Al trentunesimo giorno si presentò al campo di gara dove già c’era Atalanta pronta e in perfetta forma. Al suono di un colpo di gong partirono, ma per Echione non ci fu niente da fare. Atalanta superò il traguardo quando ancora il concorrente doveva fare altri dieci salti. Il povero atleta raggiunto il traguardo, consapevole che doveva morire, svenne ma quando rinvenne si trovò già buttato giù dall’alta rupe, ivi trasportato dalle guardie.
Questa vittoria di Atalanta fu traumatica per tutti gli altri giovani che, colpiti dalla bellezza divina di Atalanta, avevano pensato di gareggiare, ma in seguito al nefasto risultato preferirono desistere. L’eco sull’imbattibilità di Atalanta e sulla morte di Echione si sparsero per tutta la Beozia e per tutte le isole dell’Egeo in pochissimo tempo. Echione era conosciuto da tutti come un grande corridore e la sua sconfitta significava che Atalanta era veramente imbattibile. Per questo tutti i potenziali giovani contendenti rinunciarono dal chiedere la mano di Atalanta che, per questo, era destinata a rimanere vergine e zitella. Ciò, ovviamente, costituì per il padre grande sconforto e notevole afflizione.
Dopo qualche tempo, quando questo evento funesto era già stato dimenticato, si presentò un altro pretendente di nome Alceo, proveniente dalla vicina isola d’Eubea. Il giovane si era invaghito della giovane donna, se ne era innamorato a tal punto che non riuscì a desistere e ne chiese la mano. Purtroppo anche per lui la sconfitta fu letale. La stessa sorte capitò ad altri che, provenienti da altre regioni, inconsapevoli dei precedenti eventi fatali, si erano presentati ed avevano perduto prima la gara poi la vita. Dapprima toccò ad Euripilo della Focide, poi a Sinone della Tessaglia, infine a Protesilao della Magna Grecia.
Qualche anno dopo, si era invaghito di Atalanta presente come spettatrice ai giochi di Olimpia, anche un altro giovane atleta di nome Ippomene, campione per il pentathlon, una competizione complessa che comprendeva la corsa, il salto, il lancio del giavellotto, il lancio del disco e la lotta. Ippomene era insuperabile in tutte le prove meno che in quella della corsa. Durante una pausa, nei cinque giorni dei giochi, incontrando per caso la bella Atalanta fu colpito istintivamente dalla sua bellezza e cercò di corteggiarla. La fanciulla si svincolò dalle insidie amorose dell’audace Ippomene che, una volta avvicinandosi a lei, le sussurrò: ‐ Assomigli ad una dea, o bellissima Atalanta, il tuo corpo è perfetto nella forma e nei lineamenti, il tuo corpo è bello.
La fanciulla, che era la prima volta che si sentiva fare un complimento del genere, ebbe un sussulto.
Ippomene, continuò poi nel suo corteggiamento: ‐ Ascoltami, fanciulla, odi le parole suggerite dal mio cuore che desidera con tanta voglia un tuo sorriso. Non appena ti ho vista le mie membra si sono sciolte. La tua meravigliosa immagine mi ha sconvolto l’animo. Appena ti ho guardata, non sono riuscito più parlare come se la lingua mi si fosse atrofizzata, e in un attimo un calore sottile s’è propagato sotto la pelle per tutto il corpo, la vista mi si è offuscata, un sudore inspiegabile ha bagnato le mie membra ed un tremore mi ha avvinto.
Al sentire queste parole, Atalanta, accennando un effimero sorriso rivolto al suo corteggiatore, rimase distaccata anche se il suo cuore restò scosso, e rispose con voce tremula, stentando un controllo dell’emozione: ‐ Intraprendente Ippomene, io ti ringrazio dei complimenti che mi fai e sono dispiaciuta per il tuo stato d’animo che arde d’amore per me. A me l’unica cosa che interessa è la corsa e vincere. Gli uomini non mi interessano. Tu non mi interessi!
Ippomene dispiaciuto della risposta, tuttavia, non si diede per vinto, e decise a giochi ultimati di sfidarla nella corsa. Era consapevole del rischio di affrontarla. Sarebbe andato a morte sicura, ma era altrettanto certo che lui voleva quella fanciulla a tutti i costi, quindi doveva giocare d’astuzia. Pensò continuamente ad una strategia ma non ne trovò alcuna. Indagò su quali potevano essere i punti deboli o i vizi di Atalanta. Non ne trovò alcuno ad eccezione del fatto che la fanciulla era attratta dall’oro. Questo fatto gli risultò insignificante in un primo momento, ma poi un sogno propiziatorio gli rivelò che avrebbe potuto sfidare l’imbattibile vergine e come avrebbe dovuto agire per conseguire la vittoria. Non appena i giochi olimpici furono ultimati, Ippomene si recò a Sciro, si presentò al re per chiedergli in sposa la figlia. Quel giorno era presente anche Atalanta che, nel vedere quel giovane, ricordandosi delle effusioni amorose che le aveva esternato ad Olimpia, da un dolce e leggero tremito fu percorsa in tutto il corpo come se avesse ricevuto una lieve scossa elettrica. Anch’ella, in effetti, si era invaghita del giovane e per questo cercò, alla presenza del padre, di dissuaderlo dal partecipare alla gara, a non avventurarsi ad una competizione che gli avrebbe procurato morte sicura. Lui era un bel giovane, aveva vinto la gara olimpica del pentathlon, era dunque un eroe e non poteva permettersi di perdere la vita inutilmente. C’erano tante belle donne, anche più belle di lei, cui poteva chiedere la mano e nessuna si sarebbe negata. Ippomene non si fece convincere, era innamorato di lei a tal punto da sfidare la morte, tanto non valeva la pena vivere senza di lei. Ciò scosse l’animo di Atalanta che, per un momento, diede l’impressione di voler ritirare quella condizione disumana, che aveva già fatto molte vittime tra i giovani greci. Dopo un attimo di smarrimento, tuttavia, la ragione l’ebbe vinta sul sentimento, come sempre. Mantenne ferma dunque l’esecrabile e infame condizione! Nel giorno stabilito, Ippomene si presentò alla gara con una borsa appesa a tracolla. Quando i due atleti si posero sulla linea di partenza, Atalanta si incuriosì nel vedere quella bisaccia e suggerì all’atleta di togliersela perché quel peso in più lo avrebbe rallentato. Ippomene non le diede ascolto e assunse la posizione di partenza. In quella bisaccia nascondeva tre pomi d’oro, che si era fatto fabbricare facendo fondere tutti gli oggetti d’oro che possedeva. Era presente tanta gente perché era la prima volta che un giovane aveva avuto il coraggio di sfidare Atalanta dopo tanti morti. Gli spettatori facevano il tifo per il coraggioso Ippomene in quanto ormai non sopportavano la tracotanza e l’alterigia di Atalanta e perché volevano che lei diventasse la loro regina, dato che Scheneo, ormai vecchio, malato e decrepito, non riusciva più a governare. Al gong, i due saettarono verso il traguardo: Ippomene era veloce ma Atalanta lo superava. Purtroppo era più veloce di lui. Già a metà percorso Atalanta lo aveva distanziato di parecchio. A quel punto Ippomene, infilò, correndo, una mano nella bisaccia, prese un pomo e lo lanciò innanzi ad Atalanta, la quale vedendo il luccichio dorato si fermò a raccoglierlo e, in quell’attimo, Ippomene la raggiunse. La folla incominciò ad urlare e a saltellare sugli spalti per la contentezza. Niente da fare. Subito dopo, infatti, Atalanta era di nuovo in testa: un silenzio assoluto dominò subitaneamente il campo di gara. Il giovane, allora, prese dalla borsa un altro pomo d’oro e lo lanciò ancora una volta dinnanzi alla fanciulla che nel raccoglierlo perse un altro attimo prezioso che permise ad Ippomene di passare in vantaggio. La folla, un’altra volta entrò in delirio, applaudendo il giovane che doveva vincere a tutti i costi. I due correvano veloci, erano quasi sulla stessa linea con un leggero vantaggio di Atalanta ed il traguardo era vicino. Solo un miracolo poteva salvare Ippomene, che prese l’ultimo pomo d’oro dalla borsa e lo lanciò. Grazie alla debolezza di Atalanta, in quell’attimo in cui la fanciulla si chinò a raccogliere il pomo, permise a Ippomene di vincere la gara superando il traguardo anticipando di un soffio Atalanta. La folla esultò per la gioia ed acclamò Ippomene, finalmente il primo vincitore su Atalanta. È vero che aveva vinto con l’astuzia, ma aveva vinto per amore. Per amore aveva vinto sull’amor proprio e sull’orgoglio di Atalanta. E cosa non si fa per amore? La vittoria consentì a Ippomene ovviamente di continuare a vivere e di avere in sposa la sua amata e tanto desiderata campionessa.
Ippomene, sfruttando una debolezza dell’amata, aveva vinto facendo trionfare l’amore, e aveva trasformato l’orgoglio, l'amor proprio e il gusto di sopraffazione di Atalanta, nel vero amore e nel rispetto degli uomini.