Bar delle Rondini
Ci ha un odore tutto suo il bar delle Rondini, di sale e di cloro, a seconda se il vento tira dal mare oppure ci prende alle spalle, dalla parte dei depuratori. Dico alle spalle perché qui a piazza s’è sempre guardato verso il mare, sto gigante sdraiato che sembra poco più che un lago, stretto ormai tra l’ultimo stabilimento e il cantiere del nuovo porto turistico. E lo sguardo salta sempre oltre la spiaggia, uno sputo di sabbia nera come una radiografia andata male. Oggi, a dir la verità, è più il cloro che sento mischiato al cappuccino. Sarà questo che mi mette l’umore storto, ed anche la solitudine che la domenica mattina è impossibile nascondere, e lo sciopero della SNAI, proprio oggi che ho una martingala sicura e i cavalli di Massimo sono andati a nascondersi, lontano dalla polizia. Se ne chiacchiera poco, per non dire nulla, di questa faccenda, fra noi, del fatto che siamo rimasti orfani, dico. Invecchiano facile le storie, e poi non si parla volentieri di certe cose, nessuno ci tiene a sembrare bene informato con le orecchie lunghe dei poliziotti sempre all’erta agli angoli delle strade. Confidenze si, qualcuno che conosce un particolare in più, che offre una ricostruzione inedita, naturalmente si trova, ma queste indiscrezioni si fanno a bassa voce, a tu per tu, lasciando che sia il vento a portarle più in là le parole, fino a farle confondere come piccole onde. Ad ogni modo, a forza di star là a traccheggiare con le cronache sportive, è arrivata pure a me la risacca. Due settimane fa, verso le undici e mezza, Massimo è venuto come al solito per l’aperitivo. Lo avevano visto in diversi buttar giù il campari e sgranocchiare due pistacchi. Aveva pure commentato, sornione, la nuova pettinatura di Alessia, la ragazza che sta al banco, e lei aveva riso un po’ troppo forte, agitando i capelli. Non è un mistero che avesse un debole per lui. Le portinaie del bar sussurrano pure che di tanto in tanto gli facesse dei servizietti in macchina, dalle parti del monumento a Pasolini, e questo solo per farsi scarrozzare fino al Kursaal con la porsche. Sono quasi sempre pettegolezzi, quelli che ci si ferma a dire dei morti ammazzati. Vale per tutti, questa regola, anche per spacciatori e poeti. Pare che però Massimo avesse altro per la testa quella mattina. Una moto ad acqua appena comprata, un modello nuovo, una meraviglia gialla e nera, tutta carbonio e propulsione tedesca, una specie di demonio che voleva provare quel giorno stesso. Era in effetti la giornata ideale. Un cielo di giugno come si vede spesso sul mediterraneo, né troppo alto né basso, un arco dolce da dove non pare strano che gli dei siano scesi ad incontrare gli uomini, lo incoronava, a lui, Massimo Sacconi, re di piazza Gasparri. Passata da poco la trentina, era già uscito indenne da un paio di guerre. Dei suoi compagni d’avventura, quelli con cui aveva iniziato da ragazzino a vendere il fumo per strada, un paio erano finiti sparati, un altro stava scontando vent’anni per traffico internazionale, ed uno, il più furbo a conti fatti, era sparito nel sudamerica, in qualche buco tropicale senza trattato di estradizione. Quando le guardie, dopo aver tollerato e a volte favorito la resa dei conti, s’erano fatte vive gridando “Basta così, ragazzi!…”, lui era stato l’unico a rimanere in piedi, il re che metteva di nuovo d’amore e d’accordo tutti: guardie, mafia e malavita indigena. Noi, gente del bar che lo conosceva da sempre, ne traevamo da questa situazione una serie di vantaggi difficilmente comprensibili da uno di fuori, una specie d’impunità per le nostre piccole magagne. Si capisce bene, quindi, quanto ognuno pure quella volta abbia mostrato interesse per la sua nuova moto ad acqua. Si sentivano come in dovere di condividerlo il suo entusiasmo, quando capitava l’occasione. Prima di andarsene al mare, aveva detto però di aver da sbrigare un’altra faccenda. Doveva incontrarsi con Gigi, un delinquentello malato d’incoerenza, un senza coraggio, che gli avanzava soldi per venti grammuzzi di coca mai pagati. Naturalmente non è che Massimo parlasse di solito così, davanti a tutti, dei suoi affari, ma appunto il fatto era che non lo considerava un affare vero e proprio quello, solo una seccatura senza importanza. Si conoscevano da una vita lui e Gigi, dai tempi della scuola addirittura, per quel poco che a tutti e due li avevano visti da quelle parti, e a quello che si sapeva, non era nuovo, l’amico, a scherzi del genere. Di norma in quei casi, Massimo aveva sempre lasciato correre. Era poca roba, niente, rispetto agli affari seri che trattava nei narcotici e con le scommesse clandestine, ma quella volta, non so perché, s’era impuntato, gliel’aveva voluto fare anche lui uno scherzetto. Gli si era presentato a casa, aveva tirato fuori la pistola e senza tanti complimenti, a calci nel culo, lo aveva caricato in macchina, guidando fino alle fratte in mezzo alla pineta. Una volta arrivati, l’aveva ficcato fino al collo in una buca fonda e poi s’era seduto tranquillo, con la sigaretta accesa, a ragionare sull’importanza di saldare i debiti, specie con gli amici. Ce l’aveva lasciato fino a sera, a riflettere. La storia aveva fatto in un baleno il giro di Ostia. Manco a dirlo, i soldi erano saltati fuori. Entro le 48 ore, aveva ricevuto una telefonata da Gigi che gli dava appuntamento per le due e mezza del giorno dopo al parcheggione. Aveva detto “va bene” senza stare a pensare che fosse sabato l’indomani e lui avesse da collaudare il nuovo giocattolo. Insomma, era una scocciatura rimandare al pomeriggio il suo programma marino, ma voleva lo stesso togliersi il pensiero, disse, ed anche in fondo rassicurare Gigi prima del week end. Andato via dal bar, da solo, intorno alla mezza, aveva puntato dritto verso la Vecchia Casetta, a pranzare in faccia al sole. Quando sono andato a parlarci, Beltrani, il padrone, se ne ricordava perfettamente perché se n’era occupato lui in persona del servizio, come si fa con i clienti di riguardo che col contante smuovono all’amicizia perfino i commercianti. Aveva ordinato, mi ha detto, un’aragosta alla catalana, di quelle piccole, delle Baleari, e un Regoldego del trentino secco bianco e freddo. Mi ha detto anche, questo Beltrani, che il signor Sacconi aveva gradito, lasciato come al solito una buona mancia per i ragazzi e prenotato per la metà della settimana successiva la saletta privata per una cena di quattro persone. Non ne sapeva niente, ovvio, di chi fossero gli altri avventori, non sono cose che un ristoratore deve conoscere. Inutile perfino chiederlo, ma comunque mi ha congedato a quel punto, con la scusa dell’ora, come se infantilmente pensasse di aver parlato troppo, dicendomi che gli dispiaceva molto per quanto era successo. Un ottimo cliente, ha ribadito, prima di sparire in cucina. Sono rimasto, io già che c’ero, altri cinque minuti, sulla terrazza a guardare il mare. Finito di mangiare, ammazzato il caffè, m’immagino che pure Massimo abbia fatto lo stesso. Da lì, dalla veranda della Vecchia Casetta, si vede meglio che da noi, il mare si apre e svela la sua enormità, che è il suo vero mistero. Grande, il mare visto da lì, quasi come a Pantelleria, da dove era venuta la sua famiglia. Aveva ancora una casa là e ci tornava un paio di volte l’anno a scherzare con i pescatori che conosceva uno per uno. Si sentiva, mi ha confidato una volta che era in vena, al sicuro là, come in famiglia, col mare tutt’intorno che lo abbracciava, senza essere costretto a girare armato, a guardarsi le spalle di continuo. Ci passava, mi raccontò pure, tre mesi l’estate, quando era bambino, in compagnia di uno zio Bastiano che lui vedeva come una sorta di eroe classico. Questo vecchio lo portava a guardare l’isola dalla cima di Montagna Grande, spiegandogli tutto sui movimenti dei banchi di pesce che sfiorano il promontorio prima di perdersi verso l’Africa. Se avesse potuto supporre che quello era il suo ultimo pasto, forse non l’avrebbe scelto diverso, ho pensato, ma sono valutazioni arbitrarie le mie. Per come l’ho conosciuto, non credo che sarà rimasto così, in contemplazione, per più di tre minuti, sulla terrazza dopo il pranzo. Anche se non la toccava quasi, i suoi tempi erano comunque quelli della cocaina, del gran commercio cioè. Si muoveva, come gli uomini d’affari, secondo schemi mandati a memoria e poi dimenticati di azioni successive, senza spazi vuoti per pensare o esitare. Quei pensieri che gli attribuivo, assomigliano, in effetti, più al mio modo di essere che al suo. Quel che so per certo è che, con una porsche, traffico del lungomare considerato, non ci vogliono più di dieci minuti fino al parcheggione. Era in anticipo, quindi, se è vero che se n’era andato da lì che non erano nemmeno le due. Tutto il tempo ha avuto di fare un salto da Luana. Stavano insieme da circa un anno e, a quanto si diceva in giro, Massimo ci aveva perso la testa. Io, lei l’avevo vista diverse volte al bar degli Attori. Non è una che passa inosservata, nel suo genere. Fino a che non s’era messa con Massimo, avevo pure in un paio d’occasioni provato ad attaccarci discorso, senza fortuna. Una gran bella ragazza, una mora con un corpo e una testa da velina mancata, inavvicinabile da comuni mortali che non avessero cioè caratteristiche da maschio alfa. Avevo quasi subito lasciato perdere. Dopo il fatto sono andato a trovarla, a Luana. Lavora come commessa, aspettando tempi migliori, nella boutique di un marchio prestigioso fra i modaioli, su via delle Baleniere, la strada dello struscio incessante quando, specie il sabato, il popolo di Ostia, ripulito, si da allo shopping. Il negozio però a quell’ora era deserto e lei se ne stava seduta dietro il bancone, a leggere un giallo storico sulle peripezie di un faraone incredibile. Non mi ha riconosciuto lì per lì. Mi lanciò lo stesso sguardo che avevo già notato le altre volte, di una malizia a vent’anni già scettica. Sembrava sforzarsi sempre di esserci, ma lasciava, guardandola con un minimo di attenzione, non distratti dal faccino disegnato col pennello, piuttosto la sensazione di un’assenza disperante. Se aveva del dolore dentro, lo nascondeva bene. Dopo i convenevoli, le spiegai il motivo della mia visita. Le raccontai che collaboravo con un giornalino locale e volevo scrivere qualcosa di diverso da quello che già era stato detto sulla fine di Massimo e speravo che lei mi desse una mano. Era un pretesto idiota, forse, ma non trovai nulla di meglio. Invece di rispondere, chiuse il libro, infilò una mano sotto il bancone, prese la borsa e tirò fuori una copia del Messaggero piegata in quattro. Era del giorno dopo il delitto. ‐ Sai leggere? ‐ ecco che mi fa. ‐ Ci tieni a sapere come sono andate le cose? Qui c’è tutto, compresi i particolari. Accomodati!… però, a me, lasciami in pace… Non mi feci impressionare. ‐ Il fatto è che non credo sia stato Gigi, le dissi a bruciapelo. ‐ E invece è stato lui. L’hanno trovato con ancora il sangue di Max addosso, ha pure confessato… ‐ Mi riesce difficile crederci, perché avrebbe dovuto farlo?… e poi, non mi figuro neppure che ne avesse il coraggio… Dicevo quelle cose soprattutto per provocare la sua reazione, per invogliarla a parlare, ma ciò non significa che non le pensassi davvero. ‐ E invece non è strano. Quel vigliacco ha aspettato gli girasse le spalle e l’ha colpito al collo… ‐ Si, lo so, con un coltello da cucina… Ma ti pare che abbia senso? Voglio dire, proprio adesso che hanno bisogno di ripulire la zona del porto perché arrivano i soldi veri, ecco che il boss muore ammazzato. Scusa, se parlo così… Non mi ha risposto. Si è alzata in piedi ed è andata verso la porta spalancandola. ‐ Fuori! Tu sei ancora peggio degli altri, almeno fossi stato un suo amico, capirei, ma sei soltanto uno sciacallo di giornalista, solo un po’ più sfigato… ‐ Quelli come Massimo è difficile che abbiano amici in senso tradizionale, Luana. Quanto a me, è vero, mi pagano, e male, per scrivere di queste cose. Cerco di farlo. Ma forse hai ragione tu, è inutile andare a rovistare… Ero già sulla porta e lei mi dava le spalle. Mi bloccai. ‐ E i soldi? ‐ Che soldi? ‐ Massimo non si fidava di nessuno, non poteva permetterselo. Forse non si fidava nemmeno di te, ma tu sei di sicuro la persona della quale aveva più voglia di fidarsi. Parliamo di un mucchio di soldi… ‐ Non ne so niente – disse in fretta. Avevo fatto quel riferimento ai soldi d’istinto, senza starci troppo a pensare, ma pareva che l’avessi in qualche modo colpita. Aveva smesso come d’incanto la sua aria da piccola dura. Anche lo sguardo le era diventato più umano. Assunsi un tono di voce dolce. ‐ Non era preoccupato? insomma, un affare come quello del porto era troppo grosso per farselo passare sopra la testa. ‐ Non so. Non mi parlava di queste cose. Però non era preoccupato. Diceva che aveva legami troppo importanti e a nessuno conveniva scatenare una guerra per farlo fuori. ‐ A meno che… un tizio, un balordo qualsiasi, spaventato a morte, o a cui hanno fatto credere di dover essere spaventato a morte, non gli facesse il piacere… ‐ Questo lo stai dicendo tu. Adesso vattene. E non ti azzardare a fare il mio nome, se per caso scrivi un articolo. Ti faccio passare un guaio!… Non ne cavai insomma quasi nulla da lei. Peccato perché mi piaceva proprio, anche se era forse un po’ troppo ragionatrice per i miei gusti. Sapeva nascondere la paura come la maggior parte delle persone non si sogna neanche. Un tipo interessante, che però probabilmente non sarebbe andata più in là del genere calciatore, e alla fine avrebbe sposato un dentista. Sono riuscito, interessando un’amica avvocato, ad ottenere il permesso d’incontrare Gigi a Rebibbia. Lo avevano già processato per direttissima e condannato a quindici anni in primo grado. Il suo difensore aveva puntato sulla legittima difesa e gli avevano riconosciuto delle attenuanti, ma non più di tanto evidentemente. Quello che mi comparve davanti era un ometto piccolo, con degli occhi cisposi da nutria che non riuscivano a contenere lo spavento che gli covava dentro. Sembrava avere una paura folle che lo aspettava alle spalle mentre mi guardava. Gli ho fatto alcune domande, evitando quelle troppo dirette. Lui mi osservava in silenzio, non capiva assolutamente perché mi fossi preso la briga di venire fin là per incontrarlo. Come ha intuito che non avevo alcuna possibilità di dargli una mano, che non ero lì per quello, ha preso ad insultarmi. Ad un certo punto ha addirittura urlato che ero lì per assassinarlo. E’ stato imbarazzante. Gli altri detenuti e le guardie nel parlatorio stavano a far finta di niente, ma avevano l’aria di trovare la scena perfettamente naturale. Poi, uno dei sorveglianti è intervenuto. Gigi si è fatto portar via docile a quel punto. Non m’è rimasto che alzarmi e andarmene senza guardarmi intorno. In fondo, volevo solo che Massimo non fosse dimenticato così in fretta, che non finisse tutto così, ma ancora una volta avevo avuto torto. Non mancava a nessuno, Massimo. Al di là del bene e del male…rimane soltanto l’oblio. In più, rovistare nelle ultime ore di vita di un boss ucciso per caso, me ne rendevo conto, è quanto di più malinconico. Un po’ come sorprendere la regina d’Inghilterra nel cesso. Non è solo il suo di prestigio che ne esce compromesso, ma anche il tuo amor proprio. Non sarà più possibile, dopo, ricostruirti l’immagine che ne avevi avuto fino a quel momento. Non è altro che casualità il destino che ci costruiamo con le nostre mani. Il mio, solo un po’ più anonimo. Andai a passeggiare quel giorno. Oltrepassai il cantiere del porto e arrivai fino a fiumara. Era il tramonto. Una luce meravigliosa arrivava dal largo, un tappeto magico srotolato dal sole, una sequenza di onde luccicanti come oro. Il Tevere che fluiva placido, più melma che acqua, si trasformava appena arrivava al mare. C’era una grande tranquillità. Nessuna imbarcazione a quell’ora. La marea bastava ad impedire alle barche di guadagnare il mare aperto. In lontananza c’era però un puntino che si muoveva a zigzag fra le onde, a circa cinquecento metri dalla costa. Approfittava dell’ultimo sole per quelle evoluzioni spericolate. Pareva una moto ad acqua. Mi sarebbe piaciuto avere un sorso di vino da mandar giù.