Baronia e il primo mattino del giorno
Cantastorie cieco – come lo diventerà l’Ateo che mi ha immaginato ‐ e Baronia è il mio nome, sono nato nel campo di concentramento di Treviri in una baracca di intellettuali nell’avvento del 1940, ma la mia storia si svolge nella Giudea dominata dai romani e ho visto il primo tra tutti i primi “Mattini del Mondo”. Ero il capo di un villaggio vessato e dissanguato da Roma. Decidemmo in consiglio così di dedicarci alla volontà di una cullata estinzione, le madri non avrebbero concepito figli, noi non avremmo lavorato la terra, ci saremmo cancellati giorno dopo giorno in una sola generazione per liberarci dall’oppressione. Persino quando scoprii che la mia sposa aspettava un figlio, non esitai un solo istante nel cercare di convincerla che una bocca in più avrebbe perpetrato l’umana sofferenza.
Ma siccome in quel periodo troppi angeli erano sulla terra alcuni di loro apparvero ai miei pastori e annunciarono la nascita del messia. Il mio villaggio mi si rivoltò contro e decisero tutti di partire per Betlemme per assistere alla sua nascita. Rimasi solo, la mia protesta si inaridì in una sola notte sospesa tra l’eternità e il dolore umano. La mia rabbia mi fece proclamare la libertà dell’uomo anche nei confronti di Dio e se anche lo avessi guardato in volto non lo avrei seguito pur riconoscendolo, la mia ribellione e il mio dolore generarono una sete che nessuna divina promessa finalmente mantenuta avrebbe placato. Tre re sconosciuti provenienti da oriente trovarono riposo nella solitudine del mio villaggio e Baldassare – il mio inventore – amplificò la mia rabbia graffiando la mia libertà affermando che ogni uomo, nella pesantezza della sua carne, è sempre altrove da dove è convinto di essere.
Decisi allora di partire per Betlemme e uccidere con le mie mani quel neonato per convincere me stesso che la libertà dell’uomo è talmente profonda da assassinare anche quella di Dio, non immaginando che con quella decisione mi sarei incamminato proprio verso un altrove – con la pesantezza dei miei piedi e della mia carne ‐ dove non avrei mai pensato di giungere. Arrivai ad un monte in festa e vidi quel bambino perfetto e terrificante, Maria inondata da un angelo evanescente in una casa spoglia era diventata madre, era amorevole e a seno nudo alimentava il sangue di Dio con la tenerezza e l’illusione che fosse solo suo figlio, un semplice figlio che nessuno le avrebbe ma strappato dalle braccia per poi restituirglielo schiodato dalla croce senza vita e le certezze non sono mai presagi. Ma quella bambina in quella notte d’astri in festa aveva partorito solo suo figlio tra animali sporchi, accattoni pastori, cimici, insetti di ogni sorta… e nessuno, neanche gli angeli, sarebbe stato così crudele da cancellare quell’istante di pura maternità. Rincontrai il mio Baldassarre Jean‐Paul, che senza il minimo stupore nel vedermi in quel primo mattino mi disse che io non ero la mia sofferenza, che la lotta tra il desiderio della vita e la sua inevitabile sofferenza sono frutti dell’umana contingenza e che mi appartengono come il giorno della mia morte, certo ma sconosciuto… dato ma non rivelato. Che l’accettazione della sofferenza senza troppi giri di parole è la prima e più radicale dichiarazione di vita, la prima prova della sua potenza che mi supera infinitamente, il senso più profondo dell’umano. E un Dio in fasce e lì per questo… e per questo ha già le stimmate impresse in quelle minuscole mani che si aggrappano al seno di una madre illusa che sia suo e solo suo: “Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia». E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola.”
Decisi allora, per puro caso, di permettere a quei tre accattoni una via di fuga dalla follia di un Erode impazzito, riuscii a prender tempo combattendo contro i suoi soldati impegnati a sgozzare bambini con le lacrime agli occhi e qualcuno di loro avrà assassinato anche il suo.
“Ecco, sono sballottato dalla notte come una botte dalle onde e la stalla è dentro di me, luminosa e fonda, come l’Arca di Noè essa naviga nella notte, rinchiudendo in sé il mattino del mondo. Il suo primo mattino. Poiché non aveva mai avuto un mattino. Era caduto dalle mani del suo creatore indignato in una fornace ardente, nel nero, e le grandi lingue brucianti di questa notte senza speranza passavano su di lui, coprendolo di vesciche e facendo aumentare la forte affluenza degli onischi e delle cimici. E io sono nella grande notte terrestre, nella notte tropicale dell’odio e della disgrazia. Ma – potenza ingannevole della fede – per i miei uomini, migliaia d’anni dopo la creazione, si alza in questa stanza, al chiarore di una candela, il primo mattino del mondo.”
Jean Paul Sarte, Baronia e il figlio del Tuono, piéce teatrale sulla Natività scritta nel campo di concentramento di Treviri nel 1940.