Batman

Non ho mai saputo il suo vero nome, quanti anni avesse o dove fosse nato, per me e i miei amici è stato sempre e solo Batman. Oscuro, enigmatico, misterioso, Batman si è affacciato sulle nostre vite per il breve volgere di una stagione, avvolto da un silenzio fitto di incognite, lasciandoci il ricordo speciale di qualcuno che ha vissuto la vita in un cono d’ombra, sulla linea di frontiera.
Lo incontrammo per la prima volta in un tardo pomeriggio di sole. Erano i giorni in cui la primavera scivola nell’estate, quando l’aria porta profumi inebrianti e la notte sembra non arrivare mai. In quel periodo avevamo colonizzato un giardino all’interno del parco del manicomio a Collegno. Due panchine, sotto un albero, tra le mura della Certosa, dove l’antico complesso resisteva allo scorrere del tempo, bloccato, congelato, come in un fermo immagine. Era il nostro angolo di mondo riservato, il posto in cui rifugiarci ad aspettare il tramonto e poi la sera.
Persi nel nostro confuso delirio tardoadolescenziale non ci accorgemmo neanche del suo arrivo. Prima non c’era e poi, d’un tratto, era tra noi, ritto in piedi tra le due panchine, con la testa china e un sorriso sfuggente sulle labbra. Aveva i capelli neri, immobili e scapigliati allo stesso tempo, la barba di qualche giorno e negli occhi il riflesso della follia, profondo e indelebile, tagliente come l’aria gelida dell’inverno.
Siamo nati a cresciuti vicino al manicomio, negli anni appena successivi alla sua chiusura e alla sua conseguente apertura verso l’esterno. Abbiamo un rapporto particolare con i matti, di consuetudine, di familiarità, di convivenza quotidiana, eppure in quel momento ci trovammo spiazzati e stupiti. C’era qualcosa, in lui, di inquietante e curioso, che lo rendeva speciale, diverso da tutti gli altri malati che ci capitava di incontrare.
Indossava un paio di jeans malconci, scarpe da ginnastica consumate e una maglietta nera con il simbolo di Batman. Restammo in silenzio per un momento, in lontananza il suono di un antifurto e il latrato ossessivo di un cane, a guardarlo sedersi tra noi, sul bordo sinistro di una panchina. Non disse una parola, poi dopo qualche secondo, con un gesto inequivocabile della mano ci chiese da accendere. Fumava ignote sigarette senza filtro e le fumava fino alla fine, tenendole con la mano destra. La pelle tra le dita era completamente bruciata, ustionata, carbonizzata dal tabacco rovente che ardeva e si spegneva lentamente. Una crosta marrone e nera, spessa e rugosa gli ricopriva parte della mano, negli spazi tra le prime dita. Non so come avesse fatto a sopportare il dolore, prima di perdere completamente la sensibilità, ma ormai sembrava non accorgersene. Rimase con noi per il tempo di quattro sigarette. Il nostro imbarazzo iniziale svanì con l’incedere dell’imbrunire e presto tornammo a parlare, scherzare, ridere. Poi, così come era venuto se ne andò, in silenzio.
Passarono diverse settimane, arrivò l’estate e Batman, a partire da quel pomeriggio, venne a trovarci quasi ogni giorno. Si sistemava comodamente sulla panchina, accavallava le gambe, fumava qualche sigaretta e ci stava ad ascoltare, senza mai aprire bocca, con il suo indefinibile sorriso stampato in viso. A volte era più vispo, altre un po’ rallentato. Credo dipendesse dalle medicine.
Ogni tanto cercavamo di coinvolgerlo, scherzavamo con lui, una battuta, una domanda, ma lui non rispondeva mai, si limitava a qualche impercettibile cambiamento di espressione, niente di più. Fino a quando, un giorno, all'improvviso, parlò.
Aveva una voce rauca e graffiata, di catrame e nicotina, sporcata dal tempo e dalla vita.
“Mia sorella”, esordì, guardando a terra, “mia sorella è una stronza”.
Poi prese coraggio e raccontò. Una storia di cattiveria e dolore, di una coppia di fratelli rimasta orfana, di un fratello minore debole e problematico, di una sorella maggiore meschina e opportunista che si libera del problema e lo fa ricoverare in un ospedale psichiatrico. Le medicine, la solitudine, le terapie, la desolazione, la paura, una spirale terribile, una caduta libera.
Non era lucido, ma era sincero. Il suo racconto era confuso, passato e presente si sovrapponevano, le nostre domande lo agitavano, ma la verità si leggeva negli occhi, nelle mani che tremavano e nel modo in cui, come se stesse scappando da qualcuno, d'un tratto, si allontanò veloce tra le mura del manicomio.
Non lo rivedemmo più e presto anche l’estate finì.
Con l’inizio della scuola e le prime brezze autunnali abbandonammo le panchine della Certosa e tornammo alle abitudini di sempre, ma il ricordo di Batman lo portiamo ancora con noi.
Quel giorno, il giorno in cui parlò, capimmo quanto sottile e sfumato sia il confine tra pazzia e disperazione, quanto dura, logorante e cattiva possa essere la vita.
Mi piace pensare che, anche solo per qualche ora, seduto in mezzo a noi, sia stato bene, si sia sentito parte di qualcosa, di un gruppo. Perché alla fine della storia c’è una cosa di cui anche i grandi eroi, anche i cavalieri oscuri, non possono fare a meno: gli amici.