Benvenuto Cellini
(Firenze, 3 novembre 1500 ‐ Firenze, 13 febbraio 1571)
Credo non ci sia nulla di più piacevole che andarsene in vacanza dopo un intero anno lavorativo, dimenticando le arrabbiature, le delusioni, le battaglie verbali con l'eccentrico, con il perfettino, con l'ignorante, con il saccente e con il prototipo del cafone romano. Sì, perché noi romani, quando ci mettiamo, sappiamo essere ignoranti e sgradevoli come pochi altri al mondo. Inutile illuderci.
Allora, dopo un intero anno a combattere con gente simile, la vacanza sembra una vera manna dal cielo, un modo per ritemprarsi e fare rifornimento di buonumore per poter sopravvivere a un altro anno di duro lavoro.
È meraviglioso starsene su una barchetta a remi a crogiolarsi sotto il sole, sopra un lago piatto e invitante, la mente vuota e il cinguettio melodioso degli uccellini che corrobora lo spirito abbrutito dal caos cittadino. E poi, se decidi di fare un bagno rinfrescante, hai la possibilità di godere della fauna marina che pullula, vive e prolifica sotto la barchetta.
E non solo la fauna: anche un uomo ormai in là negli anni, che se ne sta lì, sul fondale, accovacciato su uno scoglio sommerso, le braccia incrociate e l'aria bellicosa.
«Era ora.» esordisce acido. «È da un bel po' che ti aspetto e tutta questa umidità non fa certo bene alle mie povere giunture.»
Sgrano gli occhi incredula e porto la mano alla maschera e al boccaglio che indosso, prima di dire:
«Benvenuto Cellini?» e mi domando come diavolo faccio a comunicare con lui sotto la superficie del lago.
«Io, sì, in persona.» ribatte con tono burbero e cipiglio fiero.
«Ma cosa ci fai qui?» domando sorpresa e in quell'istante mi accorgo che è il mio pensiero a parlare, non io.
Lo sento borbottare qualcosa di incomprensibile, circondato da un branco di bellissimi pesciolini gialli e rossi, prima di bofonchiare:
«Aspettavo te. Chi altri?»
«Be', tutto ciò è alquanto lusinghiero e sono onorata di trovarmi al tuo cospetto.»
«Dacci un taglio figliola e vieni al sodo: cosa vuoi sapere?»
Santo cielo! Ma allora è proprio vero che Cellini era scontroso, irascibile, attaccabrighe e violento, al pari del suo genio. Sì, perché nel Rinascimento italiano un solo nome si ergeva al di sopra di tutti gli altri in fatto di arte orafa: Benvenuto Cellini. E non solo orafo alla corte papale e coniatore della zecca, ma anche scultore, visto e considerato che ci ha lasciato in eredità un Perseo di mirabile bellezza.
«So che sei nato a Firenze, la città dei Medici, da un suonatore di flauto.» inizio, decidendo di ignorare la sua maleducazione.
Fa una smorfia e con la mano scansa i pesci in malo modo, prima di controbattere:
«Discendo da un capitano di Giulio Cesare.»
Sorvolo su quell'affermazione inventata di sana pianta e continuo:
«Sei stato amico di Michelangelo, che tu hai sempre considerato un idolo e un modello da seguire.»
Gonfia il petto come un attempato pavone e subito dopo dal naso gli escono migliaia di bollicine d'aria che provocano la mia ilarità.
«Quale amicizia, eh? Puoi vantare lo stesso?»
«No, purtroppo no.» rispondo alzando le spalle.
«A quel tempo, nella Signoria, si incontravano persone fuori dal comune.»
«Non stento a crederlo. Tuttavia tu a Firenze non ci sei rimasto a lungo.» faccio presente.
«Vero. Mi sono spostato a Roma non ancora ventenne, presso papa Leone X Medici, il quale mi ha preso a servizio come incisore della zecca e suonatore di flauto. Ma questo secondo mestiere lo facevo solo a ricordo di mio padre.» ammette con una certa riluttanza.
«Un bel lavoro.»
«Sì.» conviene con superficialità, osservandosi le punte delle dita. «Ero un genio: tutto ciò che toccavo trasformavo in oro. Un dono che nessun altro, nel corso dei secoli, è riuscito ad avere.»
«La modestia non è il tuo forte, vero?» replico con evidente sarcasmo.
Vedo le sue narici dilatarsi dall'ira e con stizza ribadisce:
«Checché tu ne dica, il mio era un dono che tu, per certo, non hai e mai avrai.»
«Un dono, sì, ma lo usavi male.» gli rammento, per nulla intimorita dalla sua arroganza. «Non facevi che giocare d'azzardo e andare a donne, ignorando tua moglie, e ogni volta avevi problemi con la giustizia.»
Lo vedo sbuffare con irritazione e portare una mano al fianco, in posa prosaica, l'aria meditabonda e infine china appena la testa e ammette:
«Era l'unico inconveniente che mi costringeva a cambiare città. Però a Roma sono sempre tornato. Il fascino dell'Urbe è irresistibile.» commenta annuendo.
«E a Roma stavi, durante il sacco del 1527.»
Lo vedo sogghignare strafottente e mi sistemo meglio la maschera sul naso per osservarlo più nitidamente. Quest'uomo, un genio nel far uscire dalla sua fucina monete, monili, medaglie, intarsi e via dicendo, era, tutto sommato, un mezzo delinquente, un furbacchione, un ladruncolo che si spacciava per erudito e che riusciva a farsi perdonare ogni marachella, ogni omicidio, ogni rissa grazie al tocco magico delle sue mani. Un novello re Mida.
«Sì, ero a Roma quando giunsero i lanzichenecchi di Georg von Frundsberg. Mi sono offerto di divenire artigliere del papa, Clemente VII Medici, ed è stato un mio proiettile, sai, a uccidere il Conestabile di Borbone e a ferire il principe Filiberto d'Orange.»
«Tu?» esclamo inarcando le sopracciglia.
«Io, sì!» ringhia furente, convinto che non gli credessi.
«Ottimo.» rispondo malleabile, per calmarlo. «Potevi ammazzarne altri, visto che c'eri.»
«L'ho fatto. Ho anche provato ad accoppare quel vecchio volpone del Frundsberg, ma non ci sono riuscito. Vedere Roma devastata da quell'orda barbarica… Ah, quale atroce spettacolo!» esclama con un gesto della mano.
«Il Frundsberg non ci è arrivato a Roma.» commento condiscendente. «Comunque, papa Clemente ti nominò mazziere a ringraziamento del tuo servigio e sei rimasto a Roma fino…»
«Fino a quando,» conclude per me, «il papa si è accorto che facevo la cresta sull'oro destinato alla zecca e sostituivo i metalli buoni con quelli vili e falsificavo le monete e via dicendo.»
Sgrano gli occhi dinanzi alla sua ammissione e chiedo:
«È vero?»
«Certo.» risponde fiero. «Per questo, dopo che il papa mi aveva condannato a morte ‐ingiustamente secondo me‐ sono fuggito a Napoli, presso una delle mie amanti. In seguito, al cambio di papa, sono rientrato nell'Urbe, per poi fuggire di nuovo a gambe levate, riparando in Francia presso re Francesco.»
«Il munifico Francesco I?» ripeto incredula.
«Lui, proprio lui, quel gigante in persona.» borbotta, in qualche modo contrariato al ricordo.
«Era davvero così alto?» m'informo curiosa.
«Altissimo. Suppongo arrivasse a due metri; non ho mai visto un uomo simile in vita mia.» risponde pensieroso, grattandosi il mento barbuto.
«E poi?» domando, conquistata dalla sua vita avventurosa e irriverente.
«E poi… I francesi, quei bastardi di prima categoria, non mi hanno trattato affatto bene ed io ho rifatto fagotto e sono tornato a Roma.»
«Roma. Sempre Roma.»
«Eh, che vuoi.» sospira malinconico. «La città eterna era la mia gallina dalle uova d'oro. Il guaio è che la stessa gallina si è arrabbiata e mi ha rinchiuso in Castel S. Angelo per una sciocchezza commessa durante il sacco del '27.»
[Benvenuto Cellini ‐ Perseo (Firenze, Piazza della Signoria, 1545‐55)] «Una sciocchezza?» ripeto chinando appena la testa per guardarlo di sottecchi, maledicendo l'acqua che non mi fa vedere le giuste proporzioni.
«Mi accusarono di aver rubato nelle casse. Tst! Che taccagni!»
«Ci risiamo.»
«Erano trascorsi tanti anni, undici per l'esattezza ed io non ci pensavo più. Ovvio, non trovi? Ma, a quanto pare, qualcun altro ci aveva pensato al posto mio, rimuginando e aspettando il momento favorevole.» commenta acido. «Quel Pier Luigi Farnese ce l'ha sempre avuta con me, bastardo pusillanime!»
«Suppongo avrà avuto i suoi validi motivi.» borbotto.
Mi fissa a lungo, con sguardo truce e senza accorgermene deglutisco, ammonendomi di non commettere altri errori.
«E poi dicono a me che sono scontroso!» sibila.
Provo, per quanto l'acqua me lo concede, a fare un gesto di scusa per non irritarlo maggiormente e incalzo con noncuranza:
«Allora? Ti hanno rinchiuso.»
«Sì. E lì ho bestemmiato, urlato, pregato e alla fine ho tentato la fuga. Volevo emulare il gesto di Cesare Borgia quando è riuscito a fuggire dalla rocca della Mota: a lui andò bene, a me no. Mi calai con le lenzuola annodate, ma caddi e mi ruppi una gamba.» ricorda scuotendo la testa canuta.
«Ed è stato allora che, dopo aver scontato il fio, sei tornato in Francia.»
«Sì, e stavolta accolto con tutti gli onori. Purtroppo il mio caratteraccio mi ha ributtato in mezzo ai problemi e sono stato costretto a far di nuovo fagotto e tornare di gran carriera a Firenze. È stato allora, presso il duca Cosimo de' Medici, che ho creato il Perseo. Oh, ma a Roma ci sono tornato un'ultima volta, ammaliato dalla sua eterna bellezza.»
«E poi sei ritornato definitivamente a Firenze, quando, in un impeto di espiazione, hai preso gli ordini e ricevuto la tonsura.»
China la testa e annuisce mesto.
«Ho trascorso la vita intera nella sregolatezza, nella violenza, nell'imbrogliare il prossimo e nel maltrattare le mie mogli e le mie amanti. Avevo cinquantotto anni quando ho preso i voti e mi sono messo a scrivere la mia biografia. Non mi sono pentito della scelta fatta. Alla fine, dopo tanto vagare alla ricerca di me stesso, ho trovato la pace e il conforto nella Fede.»
«Sei stato un rivoluzionario ante litteram.» commento.
Alza le spalle, come se la cosa non lo interessasse e un pesce gli passa davanti agli occhi perspicaci e attenti.
«Addio, figliola. Auguro anche a te di riuscire a trovare te stessa. E se, per caso, in questo tuo girovagare tra le anime del passato, incontrassi il Frundsberg, porgigli i miei più calorosi saluti.»
Rimango letteralmente spiazzata e lo fisso attonita, comprendendo che il vecchio detto ha un fondo di verità: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ed è con perplessità che mi allontano nuotando, chiedendomi se, tutto sommato, il genio immorale quanto inimitabile che risponde al nome di Cellini, non abbia ragione.