Bianco Natale
Nevica su queste mura antiche. Non speravo più di vedere la neve.
Il vialetto romantico che si snoda lungo i bastioni medievali della città, sta lentamente imbiancandosi cogliendomi di sorpresa. Ho lasciato da poco, alle mie spalle, Castelsismondo e la breve piazzetta di Porta Montanara. La lunga muraglia interna, che s’incurva con l’incurvarsi della strada, nasconde la vista delle case e delle strade: solo il campanile di Santa Chiara svetta là dietro, contro il cielo di piombo. Cascate di edera scendono rigogliose dall’alto del muro e accolgono il dono impalpabile e prezioso della neve. Ecco, dietro la svolta, Porta Romana ornata dalle pietre bianche e dai bassorilievi dell’Arco d’Augusto. E qui lo svolgersi parallelo delle due cinte murarie, quella antica e quella medievale, si rivela evidente. Sembra quasi di vederli i due bastioni, poco distanti l’uno dall’altro, segni di epoche diverse in una città piena di vita, di attività e di movimento, dove col tempo le case si sono addossate alle case, appoggiandosi alla prima cinta muraria e creando un unico agglomerato di edifici. Tutto distrutto, ormai, dalla storia e dagli eventi nefasti dell’ultimo secolo. Di qui, per Borgo San Giovanni, parte l’antica via consolare in direzione di Roma, la via Flaminia; come all’altro capo dell’abitato, dal Ponte di Tiberio e lungo Borgo San Giuliano, comincia a snodarsi la via Emilia che conduceva verso il mondo celtico e il vasto, misterioso nord.
C’è qualcosa di simbolico nello sfarfallio della neve sui merli, nella dissoluzione dei candidi fiocchi sul prato, nel silenzio che oggi circonda questo monumento così solitario e imponente, un po’ sdegnoso e un po’ malinconico. È un silenzio che parla, come parlano le pietre, come parla la cortina leggera di neve che sta velando i contorni dell’Arco, tanto da farmelo sembrare un’illusione, una visione sognata per dar vita ai miei pensieri.
C’è una poesia francese ricorrente nella mia memoria.
“Ou sont les neiges d’antan?”: dove sono le nevi di un tempo? Questo verso ha una suggestione che ritorna sempre. Evoca ricordi, nostalgie, immagini sepolte nella mente e ancora magiche per il cuore. Contiene una musica dell’anima, un intero mondo di sensazioni e di sogni che risalgono all’infanzia, ma che sopravvivono negli anfratti nascosti del mio inconscio.
Dove sono le nevi di un tempo? Quando leggevamo i libri per ragazzi o i sussidiari delle scuole elementari fitti di illustrazioni “naif” (e il naif non era ancora uno stile), dove le immagini di vita quotidiana erano semplici e colorate come i disegni dei bambini, ma avevano la ricchezza popolosa dei quadri di Bruegel e fissavano gesti ed emozioni in una staticità fuori dal tempo diventando riferimenti ideali... Quando aspettavamo ansiosamente la neve e la realtà si confondeva con la fantasia nell’immaginare un Natale fatto di slitte e campanelli, di cristalli di ghiaccio che sembravano stelle, di bianche notti incantate che sapevano di fiaba, di presepi fabbricati con fantasia ingenua e ricca d’inventiva, di canti liturgici ascoltati con commozione vera. E le lettere a Gesù Bambino o i cartoncini augurali scintillavano di polvere d’argento… Quando sognavamo gli elfi del bosco, la regina delle nevi e l’alone luminoso delle lampade oscillanti degli gnomi, sapendo bene che erano creature immaginarie, ma che inondavano il cuore di poesia. Quando riuscivamo a cogliere istintivamente il senso delle cose, e a goderne con semplicità, senza che nessuno frapponesse tra noi e la nostra mente cumuli di messaggi mediatici, quantità smisurate di oggetti da possedere, martellamenti di luci e di suoni, frenesie consumistiche. Non c’era, allora, la vertigine dell’acquisto, lo stordimento del divertimento continuo, la necessità di riempire le ore ad ogni costo e di rompere il silenzio ad ogni costo.
C’era, anzi, la magia del tempo e del silenzio.
Dove sono le nevi di un tempo? Quando i giochi e le letture e la vita quotidiana erano un’unica realtà impastata di affetti familiari, sicure regole di vita e intimo calore. Quando si guardava il mondo con occhi fiduciosi e non c’erano stridori, perché la realtà era solo quella, con i suoi volti di gioia e di sofferenza, chiunque ce ne parlasse, senza contrasti o interpretazioni o regole mutevoli o possibilità virtuali. Quando essere bambini voleva dire farsi cullare dalle certezze degli adulti che sapevano la strada, e i bambini potevano affidarsi a loro e tentare pian piano di crescere. Quando non sapevamo ancora che sognare la vita e poi viverla sono due cose assai diverse, ma nel sogno dell’infanzia riuscivamo a trovare lo slancio ideale per camminare e mantenere la direzione. E quando essere giovani era una specie di avventura tutta da vivere con passione e col gusto della scoperta.
Oggi è tornata la neve. Non è più la neve di un tempo, ma mi avvolge ugualmente col suo incanto.
Scende sui merli di Porta Romana, questo Arco d’Augusto che ha da poco ritrovato una sua accettabile dignità. Scende su quel che resta delle antiche mura e più avanti, in fondo alla strada, sui ruderi dell’Anfiteatro, sulle chiome del parco che ricopre il corso del torrente Aprusa.
Scende lieve e gentile sfiorandomi con dolcezza, nascendo dal nulla, correndomi incontro dalle profondità grigie del cielo e scomparendo nel nulla, sul terreno umido. Mentre io resto affascinata dalla musica del silenzio: mute armonie, ritrovati accordi del cuore e assorte divagazioni della mente. Una sinfonia che non ha note perché nasce al di là delle sensazioni e delle percezioni, direttamente da una misteriosa sintonia universale che si riesce a cogliere solo quando sappiamo ascoltarci.
Lo sento come un regalo di giovinezza, una rinascita di emozioni: mi torna quella voglia di vivere, quell’accettazione gioiosa di rinnovate occasioni e di possibili slanci che erano forse di un’altra età. Non è più la neve di un tempo: è destinata a sciogliersi presto, non ha lo smalto brillante delle esperienze vissute per la prima volta, ma ha la stessa freschezza eccitante, anzi, è più cangiante nei suoi riflessi, nella luce dei suoi cristalli. È più viva per lo stupore della riscoperta inattesa, la sorpresa di sentire in se stessi la vitalità e l’emozione di un tempo, arricchite dalle infinite gradazioni di sensibilità e di consapevolezza portate dagli anni trascorsi, non escluse la sofferenza e la capacità di “elaborare” il dolore. Forse è tutta in noi la capacità di vivere e poi di rivivere, di assaporare e di gioire, di ritrovare una giovinezza del cuore e dei sensi, senza rimpiangere le “neiges d’antan”.
Non nevica più. Ma nevicava davvero? E nevicava in passato?
Forse siamo noi a ricordare la neve solo perché ricordiamo come eravamo: perché è la nostra poesia dell’animo che la immagina, la proiezione di un desiderio, la nostalgia inespressa per tutto ciò che era e per tutto ciò che ci sembra non esserci più.
No, non è nevicato: sono io che ho sognato la neve.