Blue Marble, la prima fotografia alla terra
Il 7 dicembre 1972 l’equipaggio della missione Apollo 17 fotografò per la prima volta il pianeta azzurro in tutta la sua bellezza e rotondità. Una visione unica di un pianeta unico: dallo spazio quasi una carta d’identità che racconta di un unico popolo, di un unico confine, di un’unica frontiera.
Incredibile ed evanescente, eterea e immobile, la Terra si mise quasi in posa, mostrandosi accarezzata da nubi leggere, quasi un velo da sposa, attraversata da venature azzurre sopra un viso diafano e color terracotta, un viso indifeso e appena ombreggiato da pensieri offuscati e dolori taciuti. Il continente africano appariva liscio e splendente e siccome era quasi il solstizio d’inverno anche l’Antartide era colpito dalla luce.
Il Sole si trovava proprio dietro la navicella Apollo 17 e per la prima volta la Terra era tutta illuminata, completa, senza angoli nascosti, senza zone dimenticate e straniere, senza esclusioni.
Oltre quel silenzio opalescente era nascosto alla vista un turbinio di eventi, drammi, storie e gioie che ne facevano un libro aperto.
La fotografia della signora Terra venne chiamata “Blue Marble” cioè “Biglia Blu” e fece in breve tempo il giro del mondo lasciando tutti senza fiato. Non ci si stancava di guardarla, non ci si stanca di ammirarla.
La scattò l’astronauta Harrison Jack Schmitt verso le dieci del mattino, a circa cinque ore dal momento del lancio. La navicella era diretta verso la Luna e in quel momento si trovava ad una distanza dalla Terra di circa 45.000 chilometri. L’astronauta usò una macchina fotografica analogica, di quelle che oramai non se ne vedono più. Non sapeva quell’astronauta che quella foto sarebbe diventata in assoluto la fotografia più riprodotta di tutti i tempi. Fu la prima e l’unica volta in cui il mondo su cui corriamo e respiriamo divenne casa, quartiere, guscio, nido, coperta e tetto sotto cui ripararci. La prima e unica volta in cui il buio era “là fuori” e noi tutti umani eravamo sulla “nostra” barca, al sicuro dall’ignoto, dai cattivi. Eravamo nella nostra casa sospesa sull’albero al riparo dai mostri sconosciuti. Fu la prima e unica volta in cui una fotografia cancellava ogni differenza, ogni diversità, ogni disagio. La Terra e noi il Mondo.
Non sapeva quell’astronauta che per pochi istanti la terra divenne Patria per miliardi di abitanti, dove un’unica lingua e un’unica razza si fondevano in un linguaggio universale: quello dell’immortalità. Poi l’istante svanì, il silenzio riprese il suo vorticare e quello scatto si frantumò di migliaia di frammenti che come lame taglienti ferirono uomini e storie, anime e menti.
Quella dell’Apollo 17 fu l’undicesima missione americana e l’ultima missione umana sulla Luna. Da quel momento nessun essere umano ebbe più la possbilità di scattare una fotografia in cui la Terra appariva totalmente e completamente esposta all’obiettivo.
Oggi si scattano ogni due minuti migliaia e migliaia di fotografie, superando di molto quelle scattate in tutto il 1800, il secolo nel quale si inventò la fotografia. Ogni mese novanta milioni di video vengono caricati su Youtube.
Si vive di fotografie, ma non nel senso classico: si scattano selfie. Ognuno racconta il proprio “io” per dimostrare agli altri di essere “vivo”, di esistere. Ogni fatto, ogni evento, è lo sfondo alla nostra personale esistenza, ognuno di noi documenta una storia, ma queste miliardi di storie non riescono a trovare il proprio spazio, il proprio tassello. Sono come prigioniere di una scatola con il coperchio chiuso. Come una prigione, dove non si resce a vedere nient’altro che uno spicchio di quell’universo stellato e celeste sotto cui viviamo. Ed ecco allora che tutto è distorto, frammentato, disuguale. Ognuno di noi racconta il proprio Mondo. Ci siamo dimenticati del Mondo che ancora attende uno scatto. Quello immortale ed eterno. Lo scatto che narra un’unica Storia. La storia univerale di un popolo. (Quello umano).