Campo 3 / 50
Nel breve ritorno mi lascio incantare dal luccichio dei prati di asfalto, che quasi mi commuovo restando fermo a uno stop, sul quale la linea bianca grande pare una siepe insormontabile, Non cade più nulla dal cielo, è cessato anche quel vento bagnato che si intrufola ovunque, la notte dicono porti consiglio con quei suoi rumori muti, molto più trasparenti del vetro di una spenta finestra. Stappo una Becks con la scusa di baciare un bicchiere e sentirne il suo sapore di schiuma, la sua saliva di malto. L'orologio che veglia la porta d'ingresso si è addormentato, per fortuna non russa. Pensavo deve essere difficile la vita di un orologio che vive con chi non ha orario, pochi sguardi e poi l'estate è finita, non può mica più dirmi che non arriva mai sera, mai buio, mai notte. Mi specchio nelle vuote sedie, nessuna ha il mio volto, ci sono sere che ci si sente inutili quanto un confetto, inutili per tradizione, per abitudine, per mania. Una nuova alba mi aspetta, pronta a spuntare sulla testa della grande fabbrica dai portoni di ferro, i quali ancora tremano di terremoto. Mancherò di nuovo l'appuntamento col sorgere di tutte le cose che il buio nasconde, allergico alla luce fredda mi son scelto un dignitoso declino tipo oggetto da mercatino dell'antiquariato. Al campo 3, numero 50, c'è la foto di un uomo che sorride timido: mi sono accorto di assomigliarli mentre riempivo le mie unghie di terra e gli chiedevo perdono per ciò che non son diventato, stato. Chi può meglio capire di un muto che ascolta? Il rumore di una lavatrice in centrifuga mi ricorda che l'acqua fa sempre il suo corso, di fiume, di fosso, di torrente, di viso.