Chiamala bandiera rossa.
Si, la mia generazione ha visto nascere il comunismo, anche se l’origine storica andava ben più indietro. Ricordo il primo bagliore di rosso, intravvisto una sera, a Villa Adela, sulle alture che arginavano lo Scrivia. Si stava nella grande cucina a piano terra, dopo cena, tutti attorno alla sola luce della stufa, che trapelava da uno sconnesso sportello. Tra parole che rimbalzavano nel buio, solo occhi e qualche sorriso rasentato da una luce sanguigna. L’attesa era il cuocersi delle patate nella cenere. La fame era insaziabile, a quei tempi. Una patata stava per un dolce. La Guerra era nelle parole e nei racconti che salivano lassù, in collina. Ai colpi sul portone verde di casa qualcuno rispose con un timoroso “Chi è?”. Entrarono in tre. Volti bui, vestiti di lane grosse. Odoravano di neve e fumo. Non fucili, solo infilati alla cintola, mozziconi di scopa che affondavano in scatolette di metallo. Bombe a mano, precarie. Parlavano veloci, dialetti che non capivo. Scorsi, con stupore di bimbo, per la prima volta, un fazzoletto rosso al collo, logoro, unto di sudore. I volti con la mimica delle allusioni, forse per non spendere troppe parole. Quel buttare giù, di un solo sorso, bicchierini colmi di grappa che nonno gli riempiva. “Bevete ragazzi..venite dal gelo”. Si ascoltava radio Londra. La sigla, con i tamburi, la ricordo, posso ancora rabbrividire. “La coperta, la coperta!” –invocava nonna Amina. Si creava, stendendola, una barriera, affinché il suono non uscisse di casa e ci denunciasse al passante. Uscirono, veloci, senza parole e senza preavviso al gesto di uno di loro, forse il capo.
‐“ Vedrete che ci libereranno dalla guerra e torneremo alle nostre case”‐ ci rassicurava nonno Angelo.