Ciao Morte
La mattina che ci svegliammo morti, impiegai un po’ di tempo ad accorgermene.
Mia suocera si era alzata molto presto, come faceva da una vita intera. Anche nella morte è difficile cambiare le proprie abitudini, buone o cattive che siano.
Quella mattina la madre di mia moglie, da buona italiana, era uscita presto a far la spesa. Tornata a casa si era messa a spignattare Con il suo piglio burbero ma affettuoso, l’avevo sentita redarguire la mia consorte in cucina. Probabilmente Vera intendeva dare aiuto e suggerimenti per il menu del giorno. Un’autentica blasfemia per una vecchia casalinga come la signora Giovanna.
Sotto le confortevoli coltri il mio corpo, ancora convinto di essere di questo mondo, si crogiolava godendosi gli ozi del sabato mattina.
I bambini scorazzavano per casa, trascinando giocattoli, gridando e riempendo il nostro habitat con la gioiosa vitalità dell’infanzia. Loro meno di tutti potevano rendersi conto di non essere più nel mondo dei vivi e continuavano a spendere il loro infantile entusiasmo.
La tenue luce invernale filtrava dalle persiane chiuse, lasciando la camera da letto nell’ombra discreta e perlacea che concilia un risveglio dolce e graduale.
L’odore del caffè stimolò i miei neuroni, anch’essi convinti di dover svolgere ancora tutte le loro funzioni. Vera aveva poggiato la tazzina sul comodino e se ne era tornata a badare alla prole.
Mi rigirai nel letto un paio di volte, cercando di fermare nella memoria sprazzi onirici di dubbia origine. La vaga sensazione di aver fatto qualcosa di molto avventuroso, nella dimensione del sogno, solleticava il mio ego, ma inutilmente. Il cervello non seppe recuperare nessun ricordo della notte.
Emersi dalle coperte come un vecchio orso a primavera. Lo stomaco mandava i suoi consueti borbottii mattutini. La bocca, stranamente, non era impastata e al gusto di fogna, come era ormai da molti anni. Un leggero pizzicore al pube mi ricordò che prima di dormire io e Vera avevamo fatto l’amore, con la lentezza dell’età matura, assaporando ogni gesto come si assapora una buona tazza di qualcosa di caldo, per conciliare il sonno.
Bevvi il caffè ormai intiepidito, in un unico lungo sorso. Rimasi seduto sul ciglio del letto, a strofinarmi la faccia e la testa. Il risveglio è forse il momento più traumatico e doloroso nella vita di un pigro come me. Anche se più che pigro, potrei definirmi “diversamente attivo”, come ho letto da qualche parte. Assodato che la mente non si ferma mai, nella veglia come nel sonno, il mio organo del pensiero è decisamente sovreccitato, sempre.
Nell’iconografia popolare, la pigrizia è raffigurata come un’oziosa immobilità, col cervello spento, apatico, indolente. Per me non è così. Anche nelle lunghe ore di dolce far niente, anzi particolarmente in quelle, la mia mente frizza di idee ed elucubrazioni. E considerando che i miei sogni, quando me li ricordo, sono faccende assai complesse e ricche di significati, per quanto oscuri, vuol dire che il mio cervello è una macchina che lavora a pieno regime 24 ore su 24.
Quindi non posso certo definirmi realmente pigro.
Il mio lavoro di artista, fortunatamente, mi permette di far girare la potente dinamo della fantasia, quando e quanto voglio. Privilegio del talento.
Quando non dipingo, scrivo. E quando non scrivo, leggo. E quando non leggo, penso. Se il mio corpo langue in lunghe giornate di inattività, la mia mente non conosce sosta.
A molti questo stile di vita apparirà strano, perfino aberrante. L’amore per la cultura alberga in poche menti e la passione per l’invenzione artistica è rara come una malattia tropicale al circolo polare, o un virus alieno. La maggior parte delle persone ritiene che una vita piena e attiva sia fatta più di movimento fisico che mentale. Milioni di persone, nel tempo libero, vanno a sudare in palestre, piscine, campi sportivi, convinti di esercitare il meglio delle funzioni vitali. Ben pochi si impegnano con altrettanto sforzo e costanza alle pratiche intellettuali.
Se fossi anch’io come la maggior parte dei miei simili, cioè privo di fantasia, probabilmente ci avrei messo molto più tempo ad accorgermi del cambiamento avvenuto nella notte. Il corpo funziona per automatismi, per oggettivi scambi stimolo‐reazione, e la mente gli va dietro anziché tenerlo d’occhio. La morte non confuta questi meccanismi, soggiace alla teoria del Caos come la vita.
Dopo aver bevuto il caffè me ne andai in bagno per fare una doccia. Intorno a me sentivo tutta la sinfonia dei rumori casalinghi. I bambini stavano combinando qualche gioco di attese e sorprese, ogni tanto scoppiavano in grida e risate e scalpiccii, poi ripiombavano nel silenzio.
Vera faceva il bucato, la incrociai in corridoio e ci scambiammo una fuggevole carezza. La signora Giovanna continuava a far sbuffare pentole, ticchettare coltelli, tintinnare stoviglie.
Dalla finestrella del bagno giungevano gli echi delle altre vite condominiali. Così simili da infondere nella coscienza l’idea che siamo realmente tutti uguali. Ben più di quanto non riescano a fare religioni, filosofie e sociologie.
Feci scorrere l’acqua fino alla temperatura ottimale. Un atto scontato, quotidiano, ma a pensarci bene, il prodotto di secoli di evoluzione, millenni di evoluzione. Il vero frutto del progresso tecnologico, altro che aeroplani, automobili e bombe atomiche. La concreta realizzazione del controllo sul proprio ambiente vitale.
Dopo le abluzioni mi vestii e uscii a comprare giornale e sigarette. Evidentemente anche da morti il vizio del fumo persiste, col suo piacere, il suo senso di colpa, il suo costo sempre più esorbitante.
Anche l’interesse per le cose del mondo, per le notizie, non sembra subire un arresto o un cambiamento percepibile nell’aldilà.
Uscito dal portone, attraversando la piazzetta, notai che c’era molta più gente del solito in giro. Al sabato mattina, in genere, soprattutto d’inverno esce soltanto chi deve, o chi non ha nulla da fare e non sta bene a casa sua.
Invece quella mattina era tutto un brulicare di persone, di ogni età e strato sociale. Cercai nell’archivio della mia mente se fosse un giorno particolare, una festività di cui mi ero scordato, ma no, era un sabato qualunque. Un sabato italiano, come cantava Sergio Caputo.
Mentre pensavo alla canzone, fischiettandone in maniera improbabile e stonata la melodia, gli occhi mi si posarono su di un passante. Assomigliava sorprendentemente a Sergio Caputo. Almeno per come me lo ricordavo. In effetti non poteva essere lui, aveva la stessa età di quando compariva in TV. Una trentina d’anni. Facendo il conto, ormai doveva averne 50 o giù di lì.
Mi strizzò l’occhio, accennò un sorriso, e si allontanò fischiettando la canzone in maniera impeccabile.
Mentre mi avvicinavo al bar‐tabaccheria, la mia parte puerile, il residuo di cervello‐bambino, immaginò che avessero quei succulenti bomboloni alla crema che mi ingolosivano ancora. Entrando, li vidi in bella mostra, sul bancone, una bella cabarettata di krapfen ripieni di crema, che se ne stavano lì a dire “mangiami mangiami”. Sorpreso dalla coincidenza lasciai che la salivazione si facesse canina e le papille della lingua si protendessero come anemoni marini.
Mi concessi quindi il lusso di cappuccino e bombolone. Poi comprai le sigarette che, sorprendentemente, erano calate di prezzo, e uscii.
Mi accesi la prima sigaretta della giornata che, dopo l’estasi zuccherina, mi parve ancora più gradevole e saporita del solito. Neanche un leggero bruciorino alla gola accompagnò le intense boccate di fumo. Anche le sigarette, quel mattino, sembravano innocue e voluttuose.
Avviandomi verso l’edicola, dall’altra parte della piazza, adocchiai una splendida bionda, sui 25 anni, con pelliccia di volpe argentata tre quarti, gambe tornite fasciate da un sottile collant trasparente, scarpette decolté con tacco da dieci, un tantino temerarie nel freddo di Gennaio. Camminava tranquilla e flessuosa, completamente a proprio agio. Procedevamo uno incontro all’altra, così rallentai il passo, per godermi l’avvenente sconosciuta. Metro dopo metro, avvicinandoci, la signorina prendeva forme sempre più distinte e procaci. La capigliatura bionda si faceva più splendente e folta, il viso sembrava non voler risparmiare la perfezione. Notavo la curva del mento deliziosa, la bocca generosa ma non eccessiva, il naso lievemente all’insù, gli occhi azzurri, chiari, due acquamarine. Le ciglia lunghe e nere. La fronte appena segnata da un’espressione di concentrata attenzione a qualche pensiero conturbante. Le sue mani bianche facevano a gara nell’attirare l’attenzione, come due gemelle fatali e stregate. La sinistra teneva una sigaretta, con elegante noncuranza. La destra pareva accarezzare la pelle lucida della borsetta firmata.
Arrivati a pochi passi, mi accorsi che la sconosciuta teneva la sigaretta in bella vista, spenta, e si guardava intorno. Forse cercava da accendere. Come mi vide, o fece segno di avermi notato, si rivolse apertamente verso di me e mi venne incontro.
Da buon vecchio gallinaccio, precedetti la sua richiesta e, ficcandomi la sigaretta in bocca, tesi mani e accendino verso di lei, fermandomi a mezzo metro dalla sua sensuale figura.
Lei mi elargì uno sguardo ammaliatore e portò la sua sigaretta alle labbra rosa e lucide. L’accese guardandomi negli occhi, con quello sguardo a capo semi reclinato che infiamma qualunque uomo.
La bionda venere impellicciata aspirò una boccata ed espirò la sua nuvoletta. Io espirai la mia nuvoletta, mentre riponevo l’accendino. Ricambiò il mio gesto cavalleresco con un sorriso favolistico, e mentre riprendeva il suo cammino, si girò un attimo e mi disse “Grazie Ste”. Come se mi conoscesse.
Rimasi fermo, in mezzo alla piazza, tra la fontana e il porticato, nella folla che come un fluido scorreva in ogni direzione, domandandomi chi mai fosse la ragazza e come potesse conoscere il mio nome. Lei intanto si stava allontanando a passi agili e disinvolti.
Pensai che l’età, anche se avevo appena 46 anni, forse cominciava a giocarmi qualche scherzo ai neuroni. Come potevo conoscere una simile bellezza e non ricordarmelo?
Fui tentato di rincorrerla e chiedere lumi, sulla sua identità e sulla mia smemoratezza, ma la folla aveva ormai occultato la visione argentea e dorata della fanciulla.
Dopo qualche attimo di smarrimento mi ricordai di avere una casa, una famiglia, una moglie, una suocera. Riposi con cura il ricordo della ragazza, in una teca di cristallo tutta sua, sulle mensole della mia memoria, imponendomi di non dimenticarla un’altra volta, se non altro in ossequio alla sua bellezza e a conforto del mio amor proprio.
Davanti all’edicola mi soffermai a leggere le locandine esposte. Il quotidiano cittadino avvisava, con i soliti caratteri iper‐cubitali e l’improbabile sintesi sintattica, nuove clamorose scoperte per la cura del cancro. Strano modo di dare una notizia così, pensai. Di solito cautela impone di presentare e sviscerare novità scientifiche, soprattutto mediche, nelle pagine interne, badando bene di non suscitare aspettative ed entusiasmi eccessivi. Eppure quella mattina di Gennaio il Secolo XIX, e così pure tutti gli altri fogli, proclamavano a gran voce il miracolo medico.
Con il mio solito scetticismo, addestrato e incattivito da decenni di deludenti aspettative e sempre troppo umane credulità, relegai i roboanti manifesti nel circo mediatico dell’invenzione.
L’edicolante, conoscendomi, mi porse una copia del giornale e, rivolgendomi un sorrisone commosso, si limitò a dirmi “Era ora no?”.
Pagai il fascio di effimera carta e ripresi la via di casa.
Non resistendo alla curiosità per la rivoluzionaria notizia del giorno, iniziai a sfogliare il giornale mentre camminavo. Notai che molte altre persone facevano la stessa cosa, dando alla piazza la strana atmosfera “retrò” di una civiltà ancora basata sulla carta stampata. I commenti che coglievo nella folla variavano dall’incredulità, alla commossa accettazione, al sardonico scetticismo.
Lessi le prime righe del corposo articolo, in prima pagina.
“L’annuncio, divulgato nella tarda serata di ieri dall’ Istituto Mondiale della Sanità, conferma le voci che da tempo circolavano negli ambienti bene informati. L’ équipe diretta dal Professor D.Leblanc, presso la John Hopkins University di Baltimora, ha presentato, dopo dieci anni di ricerca, i risultati della sperimentazione sull’uomo di un rivoluzionario vaccino retroattivo...”.
Rimasi scettico, per inveterata abitudine, mi riservai di continuare la lettura a casa, comodamente seduto sul divano.
Procedendo a slalom nella inesauribile folla di quello strano mattino, mi resi conto che, nonostante la calca, la gente pareva meno isterica e sgarbata del solito. Non subivo il continuo bombardamento di spintoni e borsate, ineludibile, che in genere farcisce ogni passeggiata in centro. Tutti badavano con molta attenzione a scostarsi, defilarsi, lasciare spazio. Alcuni con manifesta galanteria e anacronistica buona educazione. Mi compiacqui molto di questa novità, perfino più della strepitosa notizia riportata dai giornali. La differenza di atmosfera che aleggiava nell’aria pervase il mio animo tenero ed elevò il mio spirito sensibile.
Era ancora presto e la vibrazione positiva che avvertivo nel cuore mi spinse a passeggiare fino al porto antico, dove certamente ci sarebbe stata gran folla ma, visto il comportamento inusitatamente urbano, non sarebbe stato un fastidio, tutt’altro.
Scendendo per la strada che porta alla cattedrale, le variegate musiche di alcuni suonatori di strada accompagnarono il mio passo lieve e spensierato. Una ballata popolare, scaturita dal violino e la chitarra di due zigani, diede alla via il sapore speziato e caloroso di vecchio film picaresco.
Costeggiando la cattedrale, girai l’occhio verso il sagrato. Un consistente raggruppamento di persone stazionava sulla scalinata. Sorprendentemente il Cardinale stava intrattenendosi, davanti al portale bronzeo, con i comuni cittadini, in gioviali conversazioni. Scoppi di risa risuonavano squillanti, sprizzando dal brusio come fuochi artificiali.
Continuai a discendere la strada, torcendo il collo in direzione della chiesa, per seguire l’insolito spettacolo conviviale. Mai avevo visto Sua Eminenza sostare davanti al duomo, come un umile parroco di paese.
Pur essendo da molti anni un mangiapreti, quella mattina provai un moto di simpatia per la tonaca scarlatta.
Arrivato in fondo alla discesa, mi infilai sotto i portici antichi, ombrosi e fitti di negozi e bancarelle.
Gli ambulanti erano tutti presi da contrattazioni di vendita, i negozi erano pieni di gente intenta a scegliere e comprare. Attribuii la frenesia consumistica alla persistente stagione dei saldi.
Mi ricordai di conseguenza, di una concupiscente voglia di mia moglie. Sapevo che desiderava da tempo un completo firmato, giacca e gonna neri, che costava come una vacanza di dieci giorni sul Mar Rosso. Ispirato dall’atmosfera gaia e godereccia presi la decisione di andarlo ad acquistare nel pomeriggio.
Uscii dai portici e tagliai per la grande spianata, dirigendomi con passo allegro e generoso verso il porto turistico.
Una nuova giostra era sorta nottetempo davanti all’ingresso del porto. Cavallini di ottocentesca fattura danzavano ruotando, accompagnati dalla musica argentina, un grande carillon su cui bambini incappottati ridevano eccitati.
I genitori se ne stavano intorno a osservare rapiti il divertimento della prole.
L’aria fredda e frizzante mi penetrava nelle narici riempendomi di una sensazione leggera e sbarazzina.
Procedevo a passo tranquillo, ogni cosa risplendeva di una luminosità nuova, tutto mi pareva immerso un un’atmosfera fanciullesca, quasi favolistica.
Perfino i barboni che stazionavano sulle panchine davanti alla darsena avevano visi tranquilli, sorridevano ai passanti e questi, incredibilmente, deponevano monete nei loro cappelli e bicchieri, tanto che erano già tutti colmi.
Questa visione mi convinse in maniera definitiva che il mondo non stava girando come al solito. Mai avevo visto una generale compassione, un diffuso altruismo di tal fatta.
Mi fermai in fondo al molo, appoggiato alla ringhiera lasciai che la brezza marina mi scompigliasse i capelli. Che succedeva? Forse stavo ancora dormendo, forse non mi ero affatto svegliato e stavo vivendo il mio sogno più lungo, più vivido e più cosciente?
Strinsi forte la ringhiera e la strattonai, il ferro gelato tremò leggermente, sentii le braccia e i pettorali gonfiarsi nel prolungato esercizio di scuotere il mondo e me stesso.
Ero sveglio, non avevo dubbi. Intorno a me decine di turisti e concittadini chiacchieravano, ridevano, ammiravano l’orizzonte e le navi di passaggio.
Poco distante da me un vecchio se ne stava seduto al sole, compostamente proteso verso i raggi, come un antico fiore. Mi sedetti sulla panchina, accanto a lui. Aprì gli occhi e mi rivolse un sorriso e un cenno di saluto cortese. Fece un grosso sospiro si piacere, alzò gli occhi al cielo, e scomparve. Svanì nell’aria, senza un rumore, senza una parola, un attimo prima era lì, un attimo dopo ero da solo sulla panchina.
Tutte le altre persone lì intorno sembravano non essersi accorte del portento. O era stata soltanto una mia allucinazione? Forse quel mattino ero impazzito e non riuscivo a rendermene conto? E del resto, se si impazzisce, probabilmente non ci si accorge di esserlo, se ne rendono conto gli altri.
Deglutii un ultimo residuo di saliva inzuccherata, avrei dovuto spaventarmi a morte di quell’evento. Avrei dovuto essere completamente scombussolato da quell’evidente manifestazione dell’assurdo, o avevo assistito a qualcosa di soprannaturale, oppure ero impazzito. Non c’era alternativa.
Mentre mi guardavo intorno con aria perplessa, mi resi conto che non riuscivo ad avere paura. Mi conosco bene, non sono mai stato un coraggioso, neanche un vigliacco, ma di certo non uno spirito infuocato e temerario. E inoltre ho sempre avuto, come la maggior parte di noi, una naturale inclinazione all’ipocondria. Com’era possibile che quello che era appena accaduto non mi precipitasse nel panico?
Rimasi qualche minuto seduto davanti al mare. Aspettando che la mia coscienza di risvegliasse e un naturale e legittimo terrore invadesse la mia mente. Niente. Continuavo a sentire un senso di leggerezza e di euforia misurata.
Mi accesi un’altra sigaretta, mi alzai e ripresi la strada di casa, incerto se raccontare a Vera gli strani accadimenti della mattina, ansioso di stringerla fra le braccia.
Uscendo dal porto me la vidi venire incontro, radiosa come quando aveva venticinque anni. Non ci dicemmo niente, ci incontrammo al centro della grande piazza, tra le giostre e le bancarelle di dolci. E ci abbracciammo stretti stretti, piangendo di gioia.