Cinque minuti, mille anni
Quella mattina Mauro si svegliò di malumore, non era certo una momentanea particolarità, era una prassi. La sveglia gli gettava pedante il suo insistente ronzio nelle orecchie facendogli irrigidire i villi piliferi che prontamente trasmettevano al cervello la situazione di allarme. Si svegliava, però; si vestiva e guadagnava le scale borbottando e pensando a quale cazzo di vita stava dando i suoi trent’anni. Invidiava quasi i coglioncelli lindi e pinti che tirando fuori dai garages privati le loro automobili si apprestavano a “fornir l’opra” accompagnati dall’inseparabile cellulare da incollare all’orecchio di primo mattino.
Lui aveva voglia di fare una benemerita minchia. Perché mai non si trovava in Polinesia, stravaccato su di una piroga a pescare pesce solo quando avrebbe avuto fame! Avrebbe fatto l’amore con bellissime ragazze, e di sera avrebbe triangolato il cielo limpido sopra le spiagge del pacifico.
“Sono discorsi del cazzo” – diceva l’amico suo Silvestro‐
oramai è andata come è andata”
“Tu come sei nato così morirai” – ribatteva Mauro‐
tanto valeva che tu rimanessi una voglia nel pisello di tuo padre”
Taciturno e scorbutico nei modi, si attirava le antipatie dei suoi colleghi. Non vedeva l’ora che finisse la giornata lavorativa, tutti quei pacchi da recapitare… si domandava spesso: chissà quali troiate ci saranno lì dentro! Pupazzetti, vestiti, riviste porno, mutande acquistate in offerta da qualche magazzino con vendita per corrispondenza. Il pensiero poi veniva dirottato nel bar all’angolo dell’agenzia, dove riusciva a traslocare anche il suo corpo. Il Campari serale era il sangue di un sacrificio, lo beveva purificandosi dalla contaminazione di padroni e padroncini del lavoro, accorciando la distanza che lo separava dai mille e cento euro mensili. Alcoolico assassino della sua esistenza, questo si. Ne era al corrente. Era egli il padrone di sé stesso. Gli abitudinari del bar sommavano quel secondo cicchetto al primo della mattina, spiando con la “coda dell’occhio” sorseggiando con le labbra a beccuccio l’ennesimo caffè addolcito con zucchero di canna. Quelle gran facce di… menta. Glie lo pagavano loro da bere! Andava forse a mangiare nelle loro case! Finito di consumare il goccetto serale fece per intraprendere la strada di casa. Quella casa venutagli a noia, quel solito rincasare, quell’insipido televisore roboante di stupidità e faccette levigate. Lui sì, faceva il culo a tirare su pacchi tutto il giorno. Con l’andare del tempo andava assumendo la colorazione marroncina di quelle scatole, L’ittero andava modificandosi e le rughe che comparivano sul suo viso somigliavano sempre più alle gobbe ondulate del cartone che maneggiava ogni giorno. Lui andava a dormire sempre presto dopo cena, non che avvertisse una così grande stanchezza ma quello che desiderava era l’essere annullato da quel sonno; nove ore di filato collegato al neurone della morte in una sinapsi elastica e senza impegno. Ignaro di tutto e di tutti, ignavo nei confronti della sua stessa esistenza. Quale buio era più luminoso e totale delle sue dipartite notturne. La voce roca rotta dalla “tossetta” procuratagli dalla quarantesima sigaretta gli impediva di dare in modo udibile la buonanotte al resto della famiglia, o forse la sua volontà agiva annodandogli le corde vocali.
Quella sera uscito dal solito bar andava fischiettando una vecchia canzone degli Who, gli era rimasta impressa nella testa, poi ripeteva “ My generation, my generation”. La sua generazione di cinquantenne aveva varcato le soglie del duemila, ed era sopravvissuta. Impugnò il polso sinistro e guardò l’ora.
Che strano! L’orologio si era fermato alle cinque del pomeriggio e le lancette non ne volevano più sapere di “camminare” . Si era rotto! Quell’accidenti di oriolo aveva fatto il suo dovere per vent’anni, ora stava avvertendo il risentimento del tempo. Già, tutto prima o poi finisce, l’orologio aveva concluso il ciclo della sua esistenza, se pur meccanica. Ebbe un attimo di vuoto, si accese una sigaretta avviandosi verso casa. Notò che il solito viale non era asfaltato, gli appariva, ora come una lastra di metallo ed era privo di pali sostenenti i lampioni. Eppure la strada era illuminata; da dove diavolo veniva quella luce. Quelle striature grumose e marroni che vedeva intorno, cos’era, ruggine! Emanavano un odore di sangue rappreso, le sere precedenti e ancora prima non l’aveva mai avvertita, quella puzza. Quel silenzio irreale, nemmeno il fruscio di un’auto lontana, non un abbaiare di cani. Cosa stava succedendogli, aveva esagerato col gin quel buontempone di un barista. Gli era parso lì nel bar di vederlo versare la scolatura, per “spicciare” la bottiglia. Sul suo cammino incontrava gente completamente nuda: questi mancavano di espressività sul volto; chiese loro informazioni, non rispondevano, notò che sulla loro faccia vi era assenza di movimenti muscolari, erano come i volti degli animali. Alcuni di loro si erano riuniti in capannello e pareva stessero mangiando della carne, delle grosse ossa venivano gettate bianche e spolpate, e ogni uno di loro teneva a tracolla uno strano oggetto, a Mauro ricordavano le segaossi dei macellai. A cosa servivano, e come erano alimentate quelle seghe circolari. Pensò di trovarsi in un incubo e affrettando il passò cercò di guadagnare svelto la strada che lo avrebbe portato verso casa. Camminò a lungo. Possibile che si era stancato così tanto da metterci tutto quel tempo ad arrivare alla sua abitazione! Incontrava gruppi di capanne, e spinto dalla curiosità si soffermò a sbirciare all’interno di una di esse, dato che queste non avevano né porte né finestre si affacciò, fu notato dagli abitanti, questi non dissero nulla. Osservò quegli esseri con più attenzione, molti di loro avevano impresso sulla pelle dei segni di tumefazione ‐erano i resti di microcips installati oltre cinquecento anni prima, in era transumanistica, rimasti poi nei secoli a fare bella mostra conficcati nei corpi dei nuovi androidi. Quegli animali non morivano e non si riproducevano, non provavano sensazioni e agivano per istinto.‐ In quale strano mondo parallelo era capitato. Perché quelle steli umanoidi non parlavano, come mai erano completamente nudi e sporchi, e come vivevano, si organizzavano, si nutrivano. All’interno di quella capanna due esseri afferrarono un corpo, dalle fattezze doveva essere una donna, uno di loro afferrò la segaossi. La lama circolare di quella sega si posò decisa sulla gamba della femmina recidendola in un breve tempo. Il sangue zampillò veloce, e fluendo in terra provocava quei rigagnoli poi rappresi che l’uomo aveva notato sul suo cammino. I due macellai, insieme ad altri collaboratori si divisero il macabro desinare. La donna zoppicò bilanciando il suo corpo mutilato con il peso delle braccia, andandosi a sedere su uno strano sgabello di materiale trasparente. Una intensa luce verdolina fece cicatrizzare all’istante la grossa ferita. La cosa più inverosimile da potere essere accettata da parte di Mauro fu che l’arto stava ricrescendo. ‐Si erano condotti in passato degli esperimenti osservando il comportamento di alcuni rettili che trovandosi in condizione di pericolo abbandonano parti del corpo, queste poi ricrescevano in breve tempo. Quegli studi avevano portato avanti gli esperimenti condotti sulle cellule staminali progredendo e mettendo a punto la tecnica di fare ricrescere gli arti agli esseri umani. Quell’assenza di organizzazione, quell’abbandono, lo lasciava interdetto. Erano rimasti degli avanzi di tecnologia in virtù della quale quell’assurda “comune” aveva continuato a esistere. Mauro si guardò le mani erano verdi come la colorazione dei corpi che vedeva, incredulo e inscemito. – il fenomeno era dovuto a uno stanziamento del sole all’orizzonte che assorbendo lo spettro del rosso illuminava gli oggetti e tutto intorno di una luce verdognola. Non esisteva più la notte, né il giorno. Tutto era derivato da una tempesta magnetica che aveva sconvolto l’equilibrio fisico del pianeta. Lo sviluppo delle civiltà aveva raggiunto il suo apice; si erano annullate. Forse un nuovo corso stava iniziando.
Mauro semistupidito si guardò intorno, rivide le luminaria dell’insegna del bar, sentì in lontananza il guaire di un cane, tornò a sbirciare l’orologio, camminava di nuovo ora, le lancette segnavano le diciassette e cinque.