Cola di Rienzo
(Roma, 1313/14 ‐ Roma, 8 ottobre 1354)
Cosa c'è di più incredibile, buffo e irriverente nella vita di un uomo, che andare una sera a dormire e ritrovarsi in una spelonca scura, umida, fuori dal mondo e, all'improvviso, volgendo lo sguardo intorno, intravedere un fuoco fatuo che, inesplicabilmente, ti richiama alla stessa maniera di come un orso è attratto dal miele? Nulla, a parte la curiosità, la legittima curiosità. Non saremmo uomini altrimenti, non credete?
Ed io mi ritrovo invischiata in qualcosa di meraviglioso, unico, singolare: un incontro quanto mai irreale con il passato che cambierà totalmente la mia esistenza.
Lo vedo stagliarsi nitido contro la roccia ricoperta di humus, che mi fissa con i suoi occhi perspicaci che perforano l'animo, le braccia conserte, il peso del corpo sostenuto da una sola gamba, a testimonianza che era da un po' che stava lì in attesa di incontrarmi.
Inghiottisco di colpo l'urlo che mi nasce spontaneo e, tremando appena, chino la testa come a sincerarmi di ciò che sto osservando: sono viva o sono trapassata nella parte dei più? È lui, non possono esserci errori: Nicola di Rienzo Cabrini, più comunemente chiamato Cola di Rienzo, conosciuto dai giovani romani più per la strada a lui intitolata che per ciò che ha fatto.
Mio Dio! penso allibita. Se è veramente lui, lui… Dio mio, qui stiamo parlando del periodo storico che si snoda tra la prima metà del XIV secolo e la sua fine! Quando la sede papale si trovava ad Avignone, in pieno marasma della Guerra dei Cento Anni, quando Roma era solo uno sbiadito ricordo dell'epoca d'oro, quando Dante componeva i suoi immortali versi e Petrarca imperava!
«Sei proprio tu?» domando titubante, sbattendo più volte le palpebre per essere certa di vedere bene.
Indispettito gonfia il petto, tronfio come un pavone, scioglie le braccia e posa le mani sui fianchi prima di borbottare:
«Chi diavolo pensi possa essere?»
«Un fantasma?» azzardo provando ad avvicinarmi.
«Un fantasma! Tst! Che tu lo voglia credere o no, sono proprio io, in carne e ossa. Forse,» ammette ammiccando, «un po' più in ossa che carne, dati i trascorsi secoli. Ma non mi lamento. Prova.» e mi invita allungando un braccio.
Esitante mi accosto a lui e poggio la mano sull'avambraccio, ritraendola subito dopo, come se mi fossi scottata: era vivo! Cola di Rienzo era vivo e vegeto dinanzi a me! In quale malia ero finita?
L'istinto mi porta a toccarmi il volto, per sincerarmi di essere anch'io viva e quel semplice gesto lo fa sogghignare.
Alza l'indice a mo' di maestro ed esordisce:
«Io sono romano, trasteverino, tu non so se puoi vantare altrettanto. Sono nato non so bene se nel '13 o nel '14, all'epoca non esisteva l'anagrafe, da genitori contadini. E contadino sono stato anch'io per i miei primi vent'anni, ma ‐ascoltami bene ragazza di oggi‐ con le idee già chiare in testa: studiare i classici. Capisci cosa intendo?»
Annuisco quasi impercettibilmente, ancora attonita e lui inspira a fondo, prima di continuare:
«L'ho fatto, figliola. Ho studiato i classici e sono diventato notaio in Roma.»
[Cola di Rienzo_ritratto] Percepisco l'orgoglio nelle sue parole e ne ha ben donde. Io, dal canto mio, all'improvviso mi sento piccina dinanzi a un uomo di tale stampo e sussulto quando lo vedo farmi un gesto con la mano.
Mi avvicino e lui mi indica la parete alle sue spalle, umida e scura. Sto per aprire bocca, quando, all'improvviso, la roccia muta aspetto e vedo Roma. O meglio: percepisco che è Roma poiché riconosco i Fori Imperiali, eppure non è la mia Roma. Non c'è neanche il cupolone. Sembra un paese in abbandono, dove per le strade girano postulanti, pellegrini e ladri, e dove solo il ricco signore e il principe della Chiesa si possono permettere il cavallo.
«Lo vedi anche tu lo squallore in cui era precipitata l'Urbe?» domanda Cola con aria assorta. «Io ho dato letteralmente la vita per cercare di ridonare alla nostra capitale la magnificenza che le era dovuta. Non era un'impresa facile, ne convengo.» commenta con il volto corrucciato. «Io ho amato moltissimo la mia città e vederla ridotta così, com'era nel 1300, rispetto alla maestosità dell'epoca d'oro dei Cesari, mi dava un colpo al cuore. Pure il papa era fuggito.»
«Per questo motivo sei partito per Avignone?» domando studiando il suo volto largo, dal naso aquilino, gli occhi vigili e attenti, e le labbra serrate.
«Sì, per intercedere presso papa Clemente VI de Beaufort, per porre fine a tutte le lotte intestine tra le varie fazioni nobiliari che dilaniavano l'Urbe. Ma tu,» aggiunge con aria inquisitoria, «hai una vaga idea di come si viveva all'epoca?» domanda indicando la città apparsa alle sue spalle.
«Be'… Vaga, sicuramente vaga.» ammetto.
Con uno scatto nervoso si passa una mano tra i capelli corti e borbotta:
«Voi giovani d'oggi cosa ne potete sapere? Oggi girate con le macchine, con i motorini, infestando la città con il vostro smog. Avete la televisione, i videogiochi, i cellulari. Cosa ne potete sapere?»
«In effetti, siamo più fortunati.» convengo con un sorriso di scusa.
Lui mi fissa con sguardo accigliato e ribatte aspro:
«Fortunati? Tu non hai capito nulla: siamo stati noi i veri fortunati! Noi non ci spaventavamo a metterci in marcia a piedi, pronti a intraprendere un viaggio lungo e massacrante per giungere all'altro capo del mondo conosciuto; non temevamo di perdere un gioco perché andava via la corrente; non ci scannavamo per una partita di calcio andata male. Qui,» conclude ammiccante, con aria di superiorità, «se c'è qualcuno fortunato, sono io, non tu.»
Rimango un attimo in silenzio, poco convinta del suo modo di interpretare la fortuna e chiedo:
«Il linciaggio lo vedi come una morte fortunata?»
Lo scorgo sgranare gli occhi e illividire, camuffare il ricordo doloroso con un gesto vago della mano e ringhiare:
«Aho! Noi romani siamo fatti così. Che ci vuoi fare?»
«Ma tu, all'inizio, desideravi solo il loro bene.»
«Si capisce! E dopo che il papa mi aveva investito dei pieni poteri, ho governato con giustizia, proclamandomi Vicario pontificio e liberatore della sacra repubblica romana.»
«Il che significa?» chiedo con un pizzico di impertinenza.
Indispettito, torna a incrociare le braccia sul petto e risponde piccato:
«Ho cercato di riportare Roma al suo giusto ruolo: capitale dell'intero mondo cristiano.»
Gli brillano gli occhi e gonfia il petto ed io posso solo immaginare l'orgoglio che gli fluisce nel sangue.
«Tuttavia i baroni romani non la pensavano come te.» gli rammento.
Mi guarda e scuote la testa, sconsolato.
«Non solo loro: pure il pontefice, che prima mi ha teso la mano e poi l'ha ritirata. Pensa un po': mi ha fatto processare. Io! Io che ho fatto tanto per la mia amata città, per elevarla a titolo di capitale del mondo e renderle il giusto posto!»
«Forse hai esagerato un tantino?» insinuo inarcando le sopracciglia. «Sei stato costretto a fuggire per evitare il linciaggio.»
Lui sorride e si mette in testa la corona di alloro, come i vecchi Cesari.
«Per Roma ho sopportato la reclusione prima presso l'imperatore, poi ad Avignone. Ho persino fatto amicizia con i topi che dividevano la mia misera sorte. Un'intera famiglia di ratti, con baffi alquanto lunghi e denti aguzzi.»
«Compagnia piacevole.»
«Più che altro silenziosa.»
«Ma poi sei tornato a Roma.»
«Eh!» sospira. «All'elezione di Innocenzo VI Aubert, mi sono visto cavare di prigione per accompagnare il battagliero cardinale Albornoz in Italia, per spianare il ritorno della sede pontificia a Roma. Chi meglio di me poteva influire sui romani?»
Osservo lo scorcio di città alle sue spalle e, a dispetto di tutto, rimango incantata dinanzi a quel pezzetto di esistenza così remoto che mi si snocciola dinanzi agli occhi. Non è da tutti vedere la vita quotidiana che si faceva nel XIV secolo e mi ritengo eletta.
«Tu, però, i romani li hai vessati con tasse altissime, con gabelle sul sale che il popolino era impossibilitato a pagare.» gli faccio notare.
Lui alza le spalle e risponde:
«Roma era un letamaio. La gente viveva di elemosina e solo pochi potentati potevano permettersi certi lussi. Se dovevamo riportare il papa a Roma occorreva rinnovare la città.»
«Tu i romani non li conosci poi tanto bene.» commento trattenendo un sorriso divertito.
[Cola di Rienzo] Abbassa gli occhi e sospira mesto.
«Quale riconoscenza, vero? Essere linciato e dato alle fiamme dal popolo che volevo innalzare agli onori della Storia.»
«Siamo romani.»
«E che vuoi farci? Correva l'anno 1354 ed io ero ancora piuttosto giovane. Ma così va il mondo.»
«Più che il mondo, sono stati i baroni romani a sobillare il popolo, scontenti del tuo rientro.»
«Certo, loro erano il vero argano e il popolino‐ bastardo come una meretrice‐ pronto a coalizzarsi con chi alza di più la voce. E loro l'hanno alzata abbastanza.» ammette con un sorriso.
«Però tu hai comunque perso la testa. Il potere ti ha dato al cervello e, permettimi di dirlo, non ti sei regolato. Lo stesso popolo, che all'inizio ti ha aperto le braccia, fomentato dai tuoi discorsi, dalle tue arringhe, dalla tua retorica, alla fine si è reso conto che eri uscito fuori dei binari e ben volentieri ha prestato orecchio ai baroni. Sai, con le belle parole ma con la pancia vuota…»
Vedo i suoi occhi brillare di una luce vivida e alza il mento, fissandomi dall'alto in basso.
«Per lo meno, io ero spinto da un alto ideale. I baroni erano spinti solo dal loro tornaconto.»
«A vederti ora,» commento stringendo gli occhi come a pesarlo, «non sembrerebbe che tu fossi divenuto piuttosto pingue.»
«Be', sì.» ammette chinando appena la testa, come colto in flagrante. «In effetti,» mi sussurra nell'orecchio, come se avesse avuto timore che qualcuno lo udisse, «la cucina non mi faceva difetto. Soprattutto la buona cucina romana.»
Sorrido divertita e torno a guardare la Roma del 1300 che lentamente svanisce, per lasciar riaffiorare la nuda roccia. Vedo Cola che mi sorride a sua volta, quasi felice di avermi fatto partecipe della sua vita e mi fa un cenno di saluto con la mano.
Prima che svanisca anche lui, mi precipito a chiedere:
«Saresti pronto a rifarlo?»
«Chiaro! È Roma, la mia città, la capitale del mondo!»