Come luna nel ventre
“Eccoti qui piccolino! Vieni, fatti stringere dalla mamma”.
Un istante, uno solo, e quel cucciolo dagli occhi di pece, si precipitò fra le gambe di Sara, braccandola con una forza inattesa. Ne abbracciò la pelle, avida di sole e di cielo, spense i brividi di un’eternità sottesa al tempo, e la guardò con lo sguardo innocente di chi ha il mondo tra le ciglia.
Non sbagliava.
Lei, minuta e gracile, da quel momento sarebbe stata davvero il suo mondo, il solco di speranza dal quale rinascere. Lo sarebbe stata per sempre. E sulla tela di un giorno piovoso, che non so non amare, una vita si abbandonava al suo destino, forse già deciso, o forse frutto della scelta di un istante.
Così, seduta sul bordo di quel vialetto anonimo, rugiada fra i capelli, scattavo l’istantanea di quell’attimo, ecografia di un parto, miracolo adottivo che mi aveva visto battermi per anni.
Professione meravigliosa la mia, perché tra colloqui, documenti
e udienze, mentre chiudevo una pratica, una madre nasceva, e rinascevo anch’io, ogni volta.
La scena, sempre la stessa. La donna che avanza, che trema, che piange, che ride. Il bimbo che corre felice, la osserva, la scruta, la annusa, si affida. Protagonisti di un film ben studiato, si muovono davanti ai miei occhi immobili. Io, muta, incastrata nel vento, sfioro quel frame, assassino di sensi e polmoni. Una mamma veniva al mondo, e io ero lì, come una ladra di emozioni, inginocchiata a derubare briciole di una gioia che non mi sarebbe mai appartenuta.
L’esistenza lo aveva deciso per me, aveva scritto il mio poi, senza chiedermi nulla sul mio oggi. Ero una manciata di lettere, sparsa tra le pagine di un copione irrisolto, di una sceneggiatura fin troppo scontata, scritta a quattro mani dai miei dubbi, intrappolati fra nuvole e illusioni. Una sola possibilità, una sola, e avrei anch’io respirato l’amore, protetto un seme, tessuto una seta di sogni e di carezze, affidato al mio uomo un cuore vestito di bianco da cingere e crescere.
Ma la mia vita una rotta non l’aveva, credo non l’avesse mai avuta. Era sempre troppo tardi per leggere la cartina delle mie ore, per riflettere su di me, per provare ad immaginare come sarebbe stato custodire una luna nel ventre. E allora decisi che curare le adozioni, come avvocato, sarebbe stato il mio mestiere. Certo, non avrei dato alla luce un figlio, ma avrei partorito dei genitori, accarezzandone le speranze. Speranze incatenate tra le loro ginocchia esauste, piegate sulla stoffa rossa del divano che li accoglieva nel mio studio, ad elemosinare prospettive sfocate di un futuro sospeso. E raccogliendo dettagli sul passato e sulle famiglie di quelle due anime, ne raccoglievo le amarezze, soffocate, via via, dalla violenza degli smarrimenti. Assistere le coppie che non riuscivano a procreare, quella era la professione che avevo scelto, e che mi completava. Si, perché grazie al mio lavoro, alla mia penna e alla passione che mi scorreva nelle vene, non ero più soltanto un legale, immerso tra carte e documenti, ma ero anche una donna che poteva, a volte, svegliarsi madre.
Una madre di riflesso, ma pur sempre una madre.
Infinita, davvero infinita, era la gioia che mi spaccava i sensi, quando quella moglie e quel marito, che avevo difeso e supportato nel fragile e denso viaggio dell’adozione, riuscivano finalmente a stringere tra le braccia la loro creatura. E ogni volta che la loro attesa terminava, la mia carne sottile, straziata dalle lame affilate di un ventre ancora vuoto, si ricuciva piano, curata da mani guidate da aghi di lana e fili di morbide stelle. Amavo scaldarmi di quei miracoli che inaspettati si accendevano così, d’improvviso, quando in un’alba qualsiasi, una delle “mie” coppie, sfinita dalla quiete di una casa troppo grande, e murata nel silenzio viola della notte, mi chiamava, sorpresa, per annunciarmi l’evento. Uno squillo del telefono, un passo, uno solo, e sarebbe arrivato il loro bambino.
Oggi era accaduto ancora.
E ancora non mi restava che odorare il profumo della maternità, posare i sensi sull’istantanea di quel mattino, quello dell’incontro tra Sara, Lucio, e il tenero Karel.
Vivevo di emozioni riflesse. Vivevo dell’amore e del calore di altri amori e di altri calori. Amori universali, eterni. Questi sono gli amori che, codice alla mano, vedevo plasmarsi ora dopo ora tra aridi carteggi. Amori che legano a doppio filo, due cuori e il loro angelo. Amori come quello che sognavo, sera dopo sera, nel mio letto, quando braccia tese al soffitto bianco, abbandonavo lacrime sul collo, e mi aggrappavo al tessuto lucido del buio, incapace di asciugare idee.
L’amore intenso, pensai, quello che fonde un genitore a suo figlio, in realtà, è tutto nell’equazione di Dirac: (∂ + m) ψ = 0.
Un’equazione che, fin dai tempi in cui studiavo fisica al liceo, mi aveva affascinato. Ricordo perfettamente il pomeriggio in cui ne lessi per la prima volta il principio, scritto su un libro rigido, dalla copertina verde. Restai per non so quanti minuti, con le mani nascoste nelle vene, a fissare quelle parole. Consonanti e vocali si rincorrevano, fino a formare una frase che per me, gambe incrociate sul letto, segnò una rivoluzione.
Secondo la formula, “se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema”. Così, quello “che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”.
Magia. E allora, se la fisica non mente, potevo immaginare i miei clienti e il loro piccolo, come un unico ed inseparabile sistema: il sole. E io? Io, distante e distinta, appartenevo ad un altro sistema: la luna. Ecco, probabilmente non ci saremmo più rivisti dopo quel giorno in cui i servizi sociali programmarono l’incontro, ma ero certa che quell’incrocio di sguardi e aliti, quei tre corpi confusi in un abbraccio d’anima, quella foto scattata dalla mia mente, avrebbero continuato “ad influenzare” i miei giorni “anche se distanti chilometri o anni luce”.
In quel frammento di luce, io ero loro. Ero madre fra le braccia dell’amore. Io ero amore. Dirac mi aveva insegnato l’amore, e le mie dita che si muovevano sul giorno, mi chiedevano di solcare un’altra via, mi chiedevano di vivere.
Ci provai. Spensi l’obiettivo su quella scena, e decisi di tornare a studio. Di pratiche, ne avevo diverse da esaminare. Le ore chiusa in quella stanza, mi avrebbero intorpidita, probabilmente nauseata. Ma annegare tra quei documenti, sarebbe stato un balsamo prezioso, un nettare spalmato sulla schiena dei miei domani, a nutrire ferite di pensieri screpolati dalle mie lente assenze. Assenze che si diluivano nei sogni, e che mi osservavano vivere, anche quando mi allontanavo da me stessa. Ritrovarmi, in fondo, non era più essenziale.
Il mio percorso era già stato tracciato, segnato, deciso. Ma da chi? Forse, da chi non aveva compreso di quanto amore fossi capace, lasciando scivolar via la mia innocenza, come sabbia stretta tra mani che non conoscono rispetto. O forse, da chi non comprende il valore di un vita pronta a donarsi, ed a donare il futuro, senza contropartita, senza riserve. Mille interrogativi senza risposta, e mille attimi rubati a chi mi avrebbe amato. Forse, ma avevo troppi adempimenti da sbrigare.
Presi l’auto e mi avviai in centro. Avrei posteggiato qualche isolato prima della mia palazzina. Adoravo camminare. I miei passi, calcati con ansia sui ciottoli medievali della città, quasi a soffocare inquietudini, sanno parlarmi di polvere e di cemento, di malinconie, di profumi, di attese, di percorsi senza meta e di finte partenze. Di quelle partenze che sanno nascondere arrivi. Come oggi. Come ogni giorno. Come quando parto, quando vado via, quando mi allontano da me stessa, lasciando i miei sogni ben custoditi nelle abitudini, tra una pausa caffè e un adagio di Albinoni.
Ma quel giorno non era un giorno qualsiasi. No. La mia partenza,
inconsapevolmente, portava in grembo il mio ritorno. Mi allontanavo dalla me più stanca, e mi avvicinavo alla me più vera, a quella donna forte e consapevole che, seduta su una foglia, non attendeva altro che il mio arrivo.
Fu allora che compresi. Tutto ha un senso. Ogni nostro battito conosce la sua dimensione. Ogni movimento del corpo conosce la sua meta. Basta chiudere gli occhi ed ascoltarli. Basta credere che tutto sia possibile, e tutto lo sarà. Tutto lo è.
“Eccoti qui piccolina! Vieni, fatti stringere dalla mamma”.
Mi volto un istante, uno solo, e vedo una cucciolina immersa fra i suoi riccioli, precipitarsi fra le mie gambe, e braccarmi con forza. Poi… poi abbasso lentamente lo sguardo, mi stendo su un fianco, e resto incantata a riflettere l’armonia della luce che filtra timida dalle persiane verdi della mia camera. Spengo la luce, mi addormento serena. Fra i colori del sonno, focalizzo ogni particolare di quella scena, la scena che sembra quella di sempre. Una madre ed un figlio, incastrati in un solo sospiro. Ma qualcosa mi sfugge.
Un tuono mi sveglia, respiro, sorrido.
Avevo ragione, tutto è possibile. Tutto lo è.
È già quasi un anno che non fuggo da me.
E’ già quasi un anno che qui ci sei tu. Tu che adagi soave la mano sul mio ventre, posandoti sull’attesa della nostra luna.
La scena, la stessa? No, non lo è.
È alchimia di un impasto, di amore e infinito, e noi, attori nel frame di una vita che pulsa e chiede respiro.
Due professioni, da oggi, le mie. Di avvocato che plasma e che crea genitori, di madre e di donna che si dona a suo figlio, ed al
suo papà.