Come uno sparo al centro del bersaglio.
Le mie palpebre, perforate da lame di luce insopportabile, si spalancarono con violenza, come gli infissi delle finestre sbattuti da una folata di vento infernale.
Il brusio attorno a me era attutito dal ritmo di una canzone che non avevo mai udito prima e che ripeteva ossessivamente in tedesco parole incomprensibili... "Spegnete quel diavolo di radio", avrei voluto gridare, ma rimasi immobile a fissare il turbinio di luci che ancora mi ipnotizzavano come un serpente a sonagli incantato dalla magia del flauto. Le labbra rimanevano serrate in una morsa e la lingua era diventata tutt'uno con il palato. Un'ondata gelida di terrore mi pervase ogni singola cellula, partendo dalla testa, per arrivare ai piedi, come un torrente in piena allo scioglimento dei nevai d'alta quota. "Che succede?", mi chiesi, senza riuscire a muovere le gambe, neppure di un millimetro. Scrutai il fascio di tubi e fili che scorrevano come rampicanti al di sopra delle mie braccia. Dopo qualche istante che mi parve un'eternità, realizzai che non mi trovavo più nella hall dell'hotel, dove stavo disbrigando le pratiche per il pernottamento, ma bensì ero distesa in quella che aveva l'aspetto di un'ampia sala operatoria. Il via vai di donne e uomini con il camice verde, la cuffia e la mascherina in viso insieme all'odore acre di sostanze disinfettanti mi proiettarono subito nella nuova dimensione, quella dell'ospedale.
Tanti pensieri cominciarono ad affollare la mia mente in una danza frenetica. Avevo preso il volo per Oslo prima di mezzogiorno, quando a Bologna il sole era ormai a picco e con la camicia saldata dal sudore alla pelle avevo fatto di corsa un corridoio lunghissimo per arrivare al check‐in.
Poi il buio. Non ricordavo più nulla, com'era possibile? In quel momento un sorriso che odorava di caffè catturò la mia attenzione. Due pupille verdi come i fondali trasparenti delle scogliere di Capo Rizzuto avvolsero amorevolmente il mio sguardo: "E' andato tutto bene ‐sussurrò il chirurgo in un italiano perfetto, con qualche accento laziale‐. Ora è sedata, ma domani potrà muoversi un pò e non si spaventi se ora non riesce a parlare. Anzi è meglio che riposi. Le schegge di vetro sono state tutte rimosse e i punti di sutura non le daranno problemi in futuro. Tornerò da lei più tardi".
La mia memoria vacillava sotto il peso delle macerie dell'esplosione che mi aveva ridotta in quello stato. Impiegai molti anni per recuperare, tassello dopo tassello, il mosaico di quella giornata ad Oslo, quando un improvviso boato squarciò i muri e le vetrate dell'hotel nel quale ero appena arrivata.
Proprio mentre stavo per tamburellare con le nocche della mano sulla calotta rugosa e zigrinata di un melone, tra gli scaffali del supermercato, nelle mie orecchie risuonò il timbro inconfondibile di quella voce: "Lo lasci al suo posto. Quel melone non è maturo al punto giusto".
Nella frazione di un secondo riaffiorarono nella mia mente tutti i ricordi dell'esplosione di Oslo, come un plotone d'esecuzione che avanza inesorabilmente appresso al condannato a morte. Grida, allarmi, sirene, polvere, fumo, torce umane, macerie, detriti aprirono un varco nel buio di quella giornata come uno sparo al centro del bersaglio.
Un pacco‐bomba abbandonato all'interno di un cestino delle immondizie, a pochi passi dall'ingresso dell'hotel aveva provocato una strage. Le rivendicazioni dell'attentato non giunsero di lì a poco e gli inquirenti cominciarono a seguire la pista di un gesto folle messo in atto da uno squilibrato.
Il verde scintillante di quegli occhi mi rapì proprio come quel pomeriggio in sala operatoria. I ricordi si fecero via via più nitidi e anche la paura di quegli istanti cominciò a tamburellare nello sterno, come un puledro lanciato al galoppo. Forse non era più solo l'evocazione di quella paura a farmi sussultare il cuore ad un ritmo forsennato.
Forse era qualcosa di più profondo e misterioso che mi lasciava quasi senza fiato.
Afferrandomi la mano con malcelata spontaneità, mi suggerì di tastare un altro melone, ma il mio sguardo rimase paralizzato su quei fondali marini trasparenti che evocavano i miei tuffi dalle scogliere impervie di capo Rizzuto, quando da piccola sfidavo le correnti, il vento ed i miei nonni per ricongiungermi alle sirene delle favole...
FINE... O forse no.