Cosa sarà mai la nebbia?
Cosa sarà mai la nebbia?
So bene che non posso rispondermi, eppure seguo, imperterrito, a codificarla dal finestrino dell’aereo.
A guardarla distaccatamente, essa non ci da soggezione, abbiamo tutto il tempo di interpretarla con cognizione, di comprendere che è una delle componenti della natura, così come il suo successivo diradarsi è l’inevitabilità che l’attende; ma nell’attimo in cui la si osserva, come la osservo io in volo, così intimamente prossima al mio animo, essa si schiude agli occhi, compenetra il cuore, reso frattanto più caldo dalla fiammella interiore di certi pensieri; e a quel punto, non c’è tempo di chiedersi se lo vogliamo o no, cominciamo a piangere.
Una regolazione di conti, il cui massimo pronunciamento doveva essere stroncarlo ; come persona, per la sua vigliaccheria, fatuamente dissimulata; come marito, per avere reso,in poco più di un anno, mia madre il fantasma di se stessa; come padre,infine, per l’abbandono spietato della sua famiglia.
Con questo carico di esplosivo, ero giunto ad Haarlem.
Mia madre tempo addietro mi aveva mentito, quando le avevo intimato di dirmi dov’è che si trovava; disse di non saperlo, che aveva chiuso i ponti.
Esattamente quello che avrebbe voluto fare, se avesse avuto maggiore forza d’animo.
Venni a sapere da uno zio che lei, per mezzo dell’opera di un non meglio qualificato “007”, suo lontano parente, aveva scoperto che mio padre si era stabilito in Olanda e che un amico gli aveva fatto pervenire il certificato di residenza all’estero.
“Ha aperto un bistrot, cosa da poco” le era stato riferito.
Mia madre, indotta dallo sconvolgimento emotivo, aveva preso l’abitudine di uscire quasi ogni sera con colleghe dell’ufficio, a suo dire.
Ma la verità, tremendamente appurata da un’agenda di appuntamenti che lei aveva lasciata aperta sul tavolo della cucina, era che usciva con uomini sempre differenti, in rispetto a uno strano sistema di appuntamenti“usa e getta”, adottato da tutta una frangia di persone, iscritte allo stesso sito internet, lei compresa.
Una sera, rincasato nottetempo a casa, la trovai rannicchiata sul divano del soggiorno , rossa in viso e inveente contro mio padre. Fu allora che ella stessa non si trattenne dal confidarmi il luogo dove il “maledetto” si era già creato il nucleo di una diversa esistenza; Harem.
Sì, perché la sua mente,forzata dagli eventi, aveva involontariamente trasferito sul nome della città di Haarlem, tutta l’asprezza di quel dolore a suo tempo inaspettato; il nome “Haarlem”per mia madre non aveva senso, tanto più che non era mai stata in Olanda; lo aveva invece il nome Harem, che si prestava meglio alla logica induttiva secondo cui l’abbandono di mio padre era stato a tutto favore di una, o più donne.
“Fagliela pagare!” fu l’eco martellante del suo strazio.
Avevo soltanto l’indicazione del bistrot, peraltro senza nome, ma una frenesia ferina che mi avrebbe consentito di stanare la lepre più caparbia.
Raggiunta la Grote Markt, presi posto in un tavolino esterno a uno dei locali della piazza. Domandai a un cameriere smilzo, dalla carnagione chiara come l’avorio, se lui, o qualcuno della birreria, avessero per caso sentito parlare di un bistrot cittadino, gestito da “Tullio Scoletta, un italiano”.
Il cameriere mandò a chiamare la titolare, una donna dalle spalle massicce e una voce stantuffata, solforosa, la quale mi disse che sì, lo conosceva; mi porse cordialmente una piantina della città, cerchiandomi la stradina dove avrei trovato il bistrot, e mi augurò una buona permanenza.
La molla ostinata di un ingranaggio mal collaudato, il risultato imprevisto di un calcolo, la realizzazione di cui, sul momento, ci ha distolto dalla precaria conoscenza dei nostri mezzi; la vita può essere anche questo.
Mio padre seduto di fronte a me, con le narici piene di ovatta insanguinata, e un silenzio irrisolvibile di cui allora ho conservato il gelante ricordo.
“Federico, dopotutto è mia la colpa”.
La foga con cui l’avevo affrontato si era disciolta d’un colpo, svelando a occhi disincarnati da me stesso, la piena grossolanità del mio essere.
“Perdonami per prima, papà; davvero. Lui dov’è?”
“Vuoi conoscerlo?”.
“Mi piacerebbe”.
Mio padre si alzò e, muovendosi fluidamente , come se a quei gesti si fosse preparato già da prima, lo vidi imboccare una scalinata a chiocciola e chiamare, con tono ascendente e confortevole, suo figlio Stephen.
Io di sotto mi preparavo a essere ricevuto da quel ragazzo, come un fedele confuso che ha perduto le coordinate del mondo, e che passeggia avanti e indietro sul sagrato della chiesa.
“Papà, raccontami com’è andata”.
“Ero al primo anno di università, quando conobbi sua madre, durante un scambio studentesco ad Amsterdam. Me ne innamorai, e lasciai gli studi, per trasferirmi con lei, che lavorava in un chiosco turistico.
Rimase incinta. Al sesto mese di gravidanza, mi disse che i medici le avevano detto che il neonato sarebbe nato con un qualche difetto congenito, ma non seppero dire di più.
Io ero spaventato, forse più di lei. Ma mi sembrava giusto farlo nascere, quel bambino, di ciò ero convinto.
Ma io e Karen litigammo e finì che io me ne tornai in Italia, dopo la morte di tuo nonno, e portai avanti la pasticceria. Non la sentii più. Poi conobbi tua madre. Il resto è storia che conosci”.
“E la telefonata?”
“La ricevetti un anno e mezzo fa; proveniva da un istituto dove Stephen aveva vissuto fino ad allora. Mi dissero chiaramente che la madre da anni non si faceva più viva, e che aveva fatto il mio nome al direttore, l’ultima volta che la videro. Aggiunsero che Stephen da un pezzo stava molto male, che soffriva la solitudine e crisi di grida, e che loro avevano già fatto tanto. Ma guarda, come ti sorride! Stephen, this is your brother, Federico”.
Sì, Stephen sono tuo fratello. Cosa c’entra la sindrome di Williams con noi? Con l’affetto che in tutto questo tempo ti dovevo?
Lo domando alle nuvole, a una in particolare, che da quest’altezza pare somigliante al volto di un re con una corona piena di gemme; hai ordinato tu di erigere per primo questo muro, che divide arbitrariamente una città con più mezzi, da una che per quanto non abbia le medesime possibilità, fa comunque parte dello stesso spazio che condividiamo?
“Papà, ma perché non dire semplicemente la verità; perché andarsene via così, passare per persona crudele, per nemico degli affetti?”
“Federico, Stephen è un po’ agitato. Lo vorrei portare a Parkwijk, al parco; sai, anche a lui piace tanto pattinare. Oggi, vi posso portare entrambi”.
“Non mi hai risposto”.
“Federico, quando partii la prima volta per vedere Stephen, mi ero ripromesso di farlo, di confessare a te e tua madre tutto quanto”.
“Perché allora non l’hai fatto?
“Perché… non era quello che voleva Stephen. Lo sai cosa mi ha detto, fra risa e lacrime, quando una ragazza dell’istituto gli ha fatto capire che ero suo padre?
Mi ha detto che gli sono sfuggito, che è stato più veloce di me; e che adesso mi permetteva di raggiungerlo, perché si era stancato di correre tutto da solo. E’stato il suo rimprovero, capisci?”
Li ho conservati così nella mia testa, Stephen che prendeva una mano a mio padre, e lui che teneva nell’altra il passamontagna che Stephen non voleva perché diceva che gli metteva caldo.
Eravamo andati al parco, trascorso ore a cadere giù col sedere sul ghiaccio. E’stato meraviglioso.
L’indomani, all’aeroporto di Schiphol, mio padre si raccomandò con me affinché portassi a termine l’università, di non lasciare nessun tragitto a metà. Mi diede dei soldi, dicendo che me ne avrebbe spedito un tanto ogni mese.
“Papà, mi sorprende che tu non mi abbia chiesto come sono riuscito a trovarti. E un’altra cosa; cosa dovrò dire alla mamma? ”
Mio padre drizzò le sue spalle alla maniera di chi sa di avere combinato un impiastro ai fornelli, eppure celebra bonariamente la sua pietanza come fosse la più saporita mai realizzata;
“Sono certo che lo “007” le farà pervenire mie notizie”, fu la sua risposta.