Cosimo

Si sentiva anonimo e non aveva pretese. Gli altri passavano le ore a far le vasche, che in tutte le città piccole con un lungo viale o una piazza di forma ellittica o rettangolare, si facevano come se quelle piazze fossero piscine, pozzanghere di pensieri accavallati e spesso raccontati in modi identici,o con più rabbia, dipendeva dall’orario, colme di pseudo ironia le parole degli amici, nelle ore di riposo, direi molte, ma di subdola malizia alla sera; o le frasi degli amati nei tardi pomeriggi domenicali, senza dimenticare gli amanti. Le sigarette. I colori del cielo che sfumavano come i volti delle sette della sera. Vasche dove voli pindarici di uomini riempivano il cielo di ulteriore vuoto, gazze ladre di parole altrui quasi incapaci di farne un pensiero proprio.  A volte una bella fontana al centro, per movimentare l’ossigeno.
Cosimo si sentiva come attorniato da zanzare, che in un attimo sarebbero potute finire schiacciate tra le sue mani, quelle di chi voleva solo vivere.
Finalmente aveva sperimentato lo sfogo improvviso della rabbia del corpo: non se l’era mai concesso, ma ora, cercando di disintossicarsi da psicofarmaci deleteri, sentiva l’irrequietezza chimica, pari forse solo a quella di un tossicodipendente; si sentiva cosi male che solo Dio gli era testimone, diceva, e per la prima volta la sua frenesia, o depressione, o strenua intertia, non era dovuta alla sua mente , ma a dei farmaci. Non era colpa sua. Che scoperta! Piangeva per la solitudine del suo stato , cosi provava a fermarsi in un angolo, o su una panchina, o ad accovacciarsi  dietro un’automobile, stringeva i gomiti vicino al busto, stringeva i denti, le gambe e “Hiiiiiiiiiiiiiiiii”. Sfogava la rabbia incontrollata del fisico. Non era pazzo, non era pazzo.
Hedna era fortunata, aveva al suo fianco un ragazzo volenteroso, certo a volte molto fragile e sfacciato, ma non si trattava mai di ingenuità, era piuttosto la violenza dell’animo che, guardando le distese di ulivi circostanti lo rendevano capace di gettar l’urlo più disperato che un venticinquenne potesse. Guardava spesso il grano, gli ulivi, la loro forma, e, c’è poco da fare, più si osserva anche distrattamente una cosa, più si ha la sensazione che sia li per te, o che tu sia quella cosa. Un legame profondo con le rocce, le lame che, per quanto le amasse, ora  considerava squarci nella roccia di forma vaga, con un ciuffo di rosmarino e origano selvatici sulla punta. Intorno il silenzio e i profumi delle piante.
Un enorme squarcio pietroso, ce l’aveva dentro, al posto di vene che avrebbero dovuto pulsare di sangue color primitivo, ma non era certo colpa sua. La condanna del luogo in cui nasci non la decidi : chi potrebbe mai decidere per sé ? Se strozzarsi attorno ad un cordone ombelicale o venir fuori da una vagina col sorriso. Molto probabilmente con il treccione vivifero c’avrebbe fatto un cappio, se avesse saputo che a venticinque anni si sarebbe ritrovato in una piscina sorvolata da uccelli ciechi, tra piccoli canyon pietrosi, silenziosi e angoscianti, anche se sempre cosi belli. Dalì ne avrebbe fatta una tela. Surreale il mondo che ci piega a voler essere guardato.
E al suo fianco la sua bella, che sotto la fontana diveniva carina, ma la notte un’estranea che lui non riconosceva. C'era qualcosa. In alcuni momenti di solitudine rabbiosa, era questo il “Disprezzo per l’amorosa”:

’E’ ss’akàpisa mai, de’ ss’ucha angegno
Ce manku s’icha mai is’ i’ kkardìa,
Panta se mìsisa sa’ tton Anfierno,
T’ison gomài zinfogna ce fotìa.
An èmenes imèa na s’akapiso,
’En èmbene ’sù mai is’o’ Pparadiso.  

Non t’ho amata mai, non avevo simpatia per te
E neppure t’ho avuta mai nel cuore,
Sempre t’ho odiata come l’Inferno
Ché eri piena di orgoglio e di superbia.
Se t’aspettavi che io t’amassi,
Non entreresti mai in Paradiso.  

Voleva vivere