Dalla parte dei poeti - Vittoria Colonna: storia d'un cor perso ma no spaurito!
Il sonetto che segue dopo le mie note (trattasi di quattordici versi endecasillabi a rima), intitolato "Dolore senza tempo", fu scritto da Vittoria Colonna (Marino, Roma, 1490 ‐ Roma, 1547), figlia del celebre condottiero Fabrizio nonché figura di donna aristocratica e colta, "angelicata", quasi, e pura, nonché venerata da molti intelletti dell'epoca sua (tra gli altri, Michelangelo Buonarroti e Galeazzo di Tarsia li dedicarono versi quando era ancora in vita): è inserito nella prima parte delle Rime, sua opera poetica omnia, edita a Venezia nel 1544 e dedicata tutta alla figura del marito, il marchese di Pescara Ferrante d'Avalos ch'ella avea sposato appena diciannovenne e che perì a causa delle ferite riportate nella battaglia di Pavia del 1525, combattuta da alto ufficiale per gli eserciti di Carlo V°di Valois. La seconda parte delle Rime, invece, è permeata di sentimento religioso ed ha tono molto più riflessivo. La figura del coniuge, nel componimento di cui detto, è evocata dalla donna (e dalla poetessa) con rimpianto e disperazione; esso era stato per lei la "luminosa stella", il faro che la guidò verso una meta sicura illuminando il suo cammino: ora che non c'é più si sente un fragile ramoscello esposto al vento ed alle intemperie, una nave in balia dei flutti del mare, delle acque e della tempesta. Ella, tuttavia, non teme tutto ciò né tali insidie, ma la spaventa invece il pensiero che dovrà "camminare" da sola d'ora in avanti, e continuare il lungo "viaggio" che l'aspetta senza aver al fianco il marito che le infondeva forza d'animo e sicurezza: il suo cuore, però, è di certo insicuro ‐ e forse perso ‐ ma no spaurito! E'da dire che dopo la morte del marito la donna si dedicò ad opere di carità , e trascorse lunghi tratti della sua esistenza in convento (tra l'altro, visse anche a Ischia e ad Orvieto); morì nel convento romano delle benedettine di sant'Anna.
Provo, tra duri scogli e fiero vento,
l'onda di questa vita in fragil legno
e non ho più, a guidarlo, arte nè ingegno;
quasi è, al mio scampo, ogni soccorso lento.
Spense l'acerba morte in un momento
quel, ch'era la mia stella e 'l chiaro segno;
or, contro 'l mar turbato e l'aer pregno,
non ho più aìta, anzi più ognor pavento.
Non di dolce cantar d'empie sirene;
non di romper tra queste altere sponde;
non di fondar nelle commosse arene;
ma sol di navigare ancor quest'onde,
che tanto tempo solco, e senza spene:
ché il fido porto mio morte nasconde.
A proposito delle Rime e dell'opera della Colonna questo scrive Maurizio Cucchi nel suo Dizionario della poesia italiana: ‐ Lo stile è sempre controllato e contenuto ‐ risultato di una rigorosa educazione ‐ ma privo di vere invenzioni. E questi versi ‐ una dichiarazione di poetica forse nemmeno tanto inconsapevole ‐ sembrano confermarlo: "Amaro lagrimar, non dolce canto, / foschi sospiri e non voce serena, / di stil no, ma di duol mi danno il vanto". E forse la fama che l'ha sempre accompagnata si deve più al contegno della sua vita che alle intrinseche qualità della sua poesia. La fermezza del sentire diventa quì un limite imposto alla spontanea espressione dei sentimenti, perché mancano gli abbandoni del cuore. L'adesione alla formula petrarchesca (in particolare agli aspetti più malinconici propri della seconda parte del Canzoniere) è piena, senza incertezze, ma ne accoglie gli aspetti più freddi, quelli che più indulgono al ragionamento, e che perciò stesso conferiscono al corpus di queste rime una certa aura di lontananza statica ed estatica. ‐ Ancora, così conclude il Cucchi: ‐ Una più schietta testimonianaza offrono le Lettere (pubblicate soltanto tra il 1889 e il 1901), in cui, lasciate da parte le pretese e le preoccupazioni letterarie, meglio e più apertamente la Colonna diede la misura del suo fervore e della sua nobiltà d'animo.
Taranto, 18 gennaio 2014.