Datemi un martello
Ormai la notte calda e umida aveva ammantato la città deserta, ma una coppietta stava con le sue risate rumoreggiando in fondo all'ingresso della propria abitazione.
«Cara, ma dove hai messo le chiavi?» esclamò lui, vistosamente ubriaco, mentre nel tentativo di rovistare nelle tasche dei suoi pantaloni, non riusciva nemmeno a centrarne l'apertura.
Ma la compagna, ancora più sbronza, a malapena reagì, ridendo sguaiatamente alla sua richiesta.
La risata rimbalzò al compagno che continuava ad annaspare, riuscendo solo dopo molti tentativi ad agguantare le chiavi.
Ma ora arrivava il difficile: infilare nella toppa della porta la chiave così a lungo cercata.
E tra una risata e uno schiamazzo i due alticci condomini riuscirono a farsi strada nel pianerottolo del loro palazzotto, barcollando tra un gradino e uno stipite e proseguendo nella loro sghignazzante andatura.
A un certo punto, quasi davanti al pianerottolo della loro abitazione, la donna cadde rovinosamente in avanti, sbattendo per sua fortuna con il mento sul tappetino d'ingresso, di spugna colorata.
Ci fu, dopo quel tonfo, un attimo di silenzio, ma l'uomo appena si rese conto della scena, scoppiò a ridere ancora con più entusiasmo, tanto da mettersi a piangere per l'incontrollabile ilarità.
La sua compagna, incapace di provare il benché minimo dolore, si girò su un fianco e appena diresse il suo sguardo verso di lui, riprese a ridere per la sua stessa dabbenaggine.
Dopo alcuni istanti, l'uomo, esitante sulle proprie gambe, si sforzò di far rialzare la donna ancora sdraiata a terra e sul punto di addormentarsi e i due abbracciati si avvicinarono alla porta della loro abitazione.
Tra le risate e le imprecazioni l'uomo riuscì anche questa volta ad aprire la porta, ma dato che tutti e due erano appoggiati con la testa all'uscio, rovinarono insieme sull'enorme tappeto dell'ingresso, in un tonfo pesante.
Questa volta i due si erano fatti veramente male, ma alla fine erano giunti a destinazione, e mentre la donna, a fatica cercava di alzarsi, ridendo ancora di gusto, l'uomo con un calcio spinse la porta sbattendola con forza dietro di sé.
Nello stesso piano, quell'ultimo colpo era sembrato come un tuono, e gli occhi di Amilcare, prima socchiusi a forza, nel disperato tentativo di dormire, ora si erano completamente spalancati, ancora rossi dalla fatica e dai lampi del saldatore.
Aveva da poco finito il turno di notte e, appena spogliatosi, si era buttato sul letto nel tentativo di addormentarsi e di chiudere velocemente una giornata a dir poco estenuante.
Ma sin da quando i due vicini si erano avvicinati al pianerottolo del palazzo ne aveva riconosciuto le risate e gli schiamazzi, e in cuor suo si era riaccesa l'invidia per quei due piccioncini.
«E che avranno mai da ridere!» rimuginava tra sé, mentre il rumore si avvicinava sempre più alla sua porta.
Per lui, ormai separato da due anni, incrociare le espressioni melense di quei due sposini, pieni di soldi e di boria, che si erano insediati in quel palazzo dopo aver sfrattato una coppia di anziani che non aveva di che vivere, solo per il gusto di avere le loro comodità, fregandosene di tutto e di tutti, era un vero tormento.
Ogni occasione era buona a rinfacciare la proprietà del palazzo da parte del paparino, che non aveva insegnato altro che la superbia, e per uno come lui abituato a sudare ogni singolo respiro, sembrava essere arrivato il momento di dire basta.
Rimase con gli occhi sgranati a guardare il soffitto, mentre la sua ira, i pensieri e i ricordi rancorosi affollavano la sua mente stanca.
Le sue mani stringevano i lembi del lenzuolo umido che non riusciva ad opporre resistenza alla sua collera, sfilandosi da sotto il materasso sottile.
Come in un impulso comandato da un servomeccanismo, Amilcare si alzò da suo giaciglio, mostrando il suo profilo panciuto, che mal celavano un tronco irsuto e possente, figlio di migliaia di ore di lavoro e sudore nella fonderia del paese.
Quelle braccia e quelle spalle ricurve, che la notte faceva appena intravedere, avevano spostato tanta di quella ghisa che un culturista in una vita di allenamenti non sarebbe mai riuscito a muovere.
E tutta quella forza, apparentemente addomesticata dall'età e dalla fatica, sembrava pronta a schizzare da sotto la pelle, pronta a fare qualcosa, pur di dar pace alla mente che li aveva comandati.
Per un attimo Amilcare rimase in silenzio a sentire i rumori del palazzo, nella remota speranza che qualcun altro si ribellasse agli schiamazzi di quei vicini maleducati, ma il silenzio ora regnava su tutto, tranne che per la sua rabbia.
Esitò ancora un momento, ma questa volta per elaborare un'azione, un piano, qualcosa per dire basta a tutto quello che aveva sentito, e d'istinto si alzò, per dirigersi verso l'uscio di casa.
Ma il suo sguardo, nonostante la penombra regnasse ancora in casa, cadde su qualcosa che luccicare vicino alla tuta che aveva abbandonato poco lontano prima di coricarsi.
Come attratto da quel chiarore, Amilcare lo agguantò, senza nemmeno pensare, né tanto meno ricordare di che cosa si trattasse, ma istintivamente, appena la mano si appropriò di quell'oggetto familiare, si sentiva appagato, armeggiando quell'attrezzo, spesso usato nel suo lavoro.
Senza pensarci troppo, prese la porta di casa, in mutande e canotta, e brandendo il martello da fabbro appena acquisito, dirigendosi deciso verso la porta dei vicini.
Suonò una prima volta, ma non ricevette risposta.
Provò ancora, questa volta insistendo, e premendo il pulsante con tutta la forza che aveva, ma continuava a venire ignorato.
Ma proprio mentre si stava decidendo ad andarsene la porta si spalancò, mostrando il vicino, in vestaglia, barcollante davanti all'ingresso.
«Che cosa volete a quest'ora?» esclamò l'uomo, biascicando una frase tra i fumi dell'alcol.
Amilcare lì per lì non rispose, disarmato dall'aspetto visibilmente inerme del suo vicino, e quasi si stava per pentire di aver provato così tanto rancore per quell'uomo.
Ma il suo interlocutore, in un attimo di lucidità, riprese tutta la sua baldanza e il suo disprezzo dicendo: «Ah ma siete voi, Guidotti, cosa avete da bofonchiare questa volta?».
A quel termine, Amilcare non replicò, se non alzando fino al cielo la mano sinistra, carica di odio e di metallo, per poi menare un fendente con tutta la forza che aveva dritto in quella bocca tanto altezzosa.
E a un colpo ne seguì un altro, e poi un altro ancora, mentre il corpo del vicino si abbassava a poco a poco, come un chiodo piantato nel cemento, che fatica a penetrare nonostante i colpi inferti.
Non si sentiva altro che un suono sordo, di carne e di ossa che cedono, in una poltiglia informe inzuppata di sangue.
E quando l'ultima percossa si abbatté sul vicino, fino a farlo accasciare al suolo sul bel tappeto azzurro cobalto, fece capolino la sua compagna dalla camera da letto, tra l'intontito e l'infastidito, esclamando: «Chi è che rompe, caro?».
Amilcare non proferì parola, e con il suo profilo imballò la poca luce che arrivava dall'ingresso, introducendosi in casa e scavalcando il corpo dell'uomo appena freddato.
La donna, non si rese conto subito di cosa stava accadendo, ma appena riuscì ad intravedere lo sguardo furibondo macchiato del sangue del compagno, ormai era troppo tardi.
I colpi del martello cominciarono a devastare prima il suo bel volto, poi il corpo, quando istintivamente tentò la fuga nel disperato tentativo di sfuggire al martello del suo assalitore.
Amilcare non si fermò fino a che la sua vittima non ebbe finito di dimenarsi sul letto in cui aveva tentato invano di trovare riparo, per poi rialzarsi, madido di sudore, a rimirare inebetito quello spettacolo.
Ma quella vista orripilante non gli faceva nessun effetto, anzi si sentiva come liberato da un peso, un fardello che lo aveva oppresso fino a quel momento.
Ora, finalmente, avrebbe potuto dormire in santa pace.