Diario dalla Terra di Nessuno
Camminare senza meta permette di non segnare luoghi, è un vivo attraversare. Lo sguardo abdica da un regno mai posseduto. Gli occhi ereditano solo preziosa curiosità e la caleidoscopica possibilità di fare tutto nuovo. Incroci uno sguardo, un sorriso di circostanza, ma l’altrove è ad un passo. Sei in mezzo ad una miriade di persone … cosa si pretende da un sabato trasteverino pieno d’astri in lontananza? Ho troppi smarrimenti da recuperare per permettere all’orientamento qualsivoglia autorità. Ora la memoria intreccia ricordi e immaginazioni, il riconoscere vuole cedere il passo a spazi nuovi. Nel qui di mura bianche e finestre ricolme di rampicanti incede la perdita tanto ambita. Voglio far mattino dopo aver ballato di tutto, come cantava Paolo Conte. Tutto intorno cade in un misterico silenzio: le voci sfumano, l’artista di strada ora fa volteggiare stelle. Mi faccio leggere la mano da una ragazza scalza che mi ruba il cappello e mi sorride. Mi chiede il nome e con un bacio sulle labbra se lo mette in testa stringendosi al collo. Ha le gambe sottili e snelle, si copre il volto con i capelli lasciando nudo un sorriso infinito. Alza la gonna fino alle cosce e mi gira intorno senza parlare, mi rimette il cappello in testa con un altro bacio e va via girandosi di tanto in tanto per guardarmi e incantarmi. Non le ho detto il mio nome. Non è una notte fatta per riconoscersi.
In questo deserto d’anime ora tutto può accadere! Un’iniziazione profana è avvenuta; una splendida vestale che strega bocche e asciuga lacrime con i suoi capelli ha aperto i cancelli della terra di nessuno. Chiudo gli occhi per riaprirli espirando, il cuore mi tormenta con i suoi capricci: non è più un battito ma un fluttuare insano e stanco. Sento uno scrosciare di fontana, qui è altrove e ogni dove. Ora questi luoghi sono il “qui” di Banquo, l’inevitabile lontananza da Forres per scampare ad una profezia. Di quest’isola non segnata in nessuna mappa Robinson non può farne occidente: mattoni, fiumi e ponti non vogliono nomi. Non resta che camminare in questa prigione di bellezza e incanto con la speranza che la memoria non prenda presto il sopravvento. Camminare nella terra di nessuno è fuga, anche se l’inevitabile ci resta accanto. E’ deserto mai troppo ostile per chi cerca l’oblio da sé. Un labirinto che accoglie e trasmuta per desiderio di chi lo attraversa, ma non è mai sosta, né pace. Come può avere tale vastità per recinzione l’infinito solo le solitudini lo sanno, ma le loro sorde grida nessuno può ascoltarle. Non è solo spazio, perché mai può essere un luogo, è una risonanza sottile ed estesa, un’ assenza aperta e insanabile divenuta nostro malgrado dimora.
Un nuovo fluttuare, un’onda bassa e sorda del cuore mi spaventa e risveglia d’improvviso. Sono tornato da un incalcolabile errare al punto di partenza. Solo, in un mattino straziato da un’alba vermiglia e fredda. Più nessuno intorno a me.
“Me lo regali il tuo cappello?”, mi sento dire in lontananza alle spalle. Anche lei non è andata via, o forse non mi sono mai allontanato io, e con le scarpe in mano si avvicina a me puntando i piedi a terra come una gatta. I suoi passi non fanno rumore tra i sampietrini lucidi di mattino. Con un sorriso mi tolgo il cappello e glielo porgo, lei lo prende, lo mette al contrario e con il suo infinito sorriso mi chiede: “adesso mi racconti dove sei stato”?