Diario di bordo - cronache dal pianeta giustizia (seconda parte)
Questa lettera (come, del resto, quella che vi proporrò di seguito) non ha bisogno di nessun commento; anzi, due paroline diciamo pure che voglio proprio spenderle. Innanzi tutto un po' di ironia: "Alla faccia del bicarbonato di sodio!", usando un intercalare che era solito esprimere un certo principe della risata partenopeo. Ora, veniamo alle cose serie ("alle guerre d'Irlanda", come direbbe invece un vetusto plantageneto a cui quelle parole sono state messe in bocca...furono scritte da un certo Guglielmo Shakespeare!): "O ti adegui o ti adegui", direi proprio. Alla faccia, questa volta, di quelle norme o quei principi costituzionali di cui spesso si bagnano la bocca in molti...il carcere (e non solo in Italia, purtroppo!) è sempre una terra di nessuno; un detto delle mie parti recità pressappòco in questo modo: "O ti mangi questa minestra, o ti butti dalla finestra!" (e meno male che quelle delle carceri sono in genere dotate di inferriate, altrimenti, mi domando ‐ e vi domando ‐ "Chissà quanti suicidi e quante morti staremmo quì a piangere?".Tantissimi, tantissime: altro che corona virus, purtroppo!). Del resto, questo stato di cose non riguarda soltanto stranieri, migranti o gente dii colore: esso non fa distinzione, davvero, tra queste cose, non si fa scrupolo né discrimina persone in base al sesso, all'età, al credo ideologico o a quello religioso. In poche parole, è come la morte: giusto ed impietoso! ‐ Il carcere di Santa Maria Capua Vetere e la mattanza della settimana santa Franco (nome di fantasia), recluso nella sezione di alta sicurezza della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, è in attesa di giudizio e non sa ancora se il giudice lo riterrà colpevole o innocente. Si ammala qualche settimana prima di Pasqua. Picchi di febbre e problemi respiratori fanno pensare al peggio. Dopo qualche ora di monitoraggio viene "isolato" in infermeria per verificare l'evoluzione dei sintomi. I familiari riescono ancora a comunicare con lui tramite videochiamate ma hanno l'impressione che le cose stiano prendendo una brutta piega. Hanno paura, come tutti. Riescono a sapere tramite l'associazione Antigone e l'ufficio del garante dei detenuti che la situazione ora è monitorata, ma si dovranno fare accertamenti specifici per capire il tipo di malessere. Qualche giorno dopo, la direzione sanitaria che opera in carcere avverte la famiglia che Franco è stato sottoposto a tampone da Covid‐19 risultando positivo. Nel frattempo, sarebbe stato ricoverato presso la struttura ospedaliera napoletana del Cotugno. La notizia in breve tempo si diffonde e arriva in carcere, Franco è il primo detenuto ammalato di Covid della regione, la seconda dopo la Lombardia per indici di sovraffollamento carcerario. La tensione sale all'interno dell'istituto. Il corpo detenuto teme il contagio e si sente sguarnito da ogni difesa: cosa si potrebbe fare per evitare di ammalarsi? Il carcere non è un luogo impermeabile: il distanziamento sociale è impraticabile, guanti e mascherine non ci sono e in istituto entrano e escono moltissime persone. ‐ Il carcere, essendo chiuso e isolato, è il luogo più riparato dal contagio della pandemia ‐ sostiene invece il procuratore Gratteri (nota perosnale: se lo dice lui, biogna crederci...mi domando, però, se avesse un figlio ‐ magari con "problemi" strani ‐ ospite di una delle patrie galere disseminate nell'italico Stato, cosa mai direbbe il buon procuratore!). A oggi, i contagiati sono circa duecentotrenta (sessanta detenuti e centosettanta poliziotti). Franco intanto è stato ricoverato. E' il week‐end che precede la settimana delle feste pasquali. Si avvicina l'orario di chiusura delle celle ma i detenuti di una sezione non vogliono rientrare. Inizia la protesta con una battitura e l'occupazione simbolica della sezione. La polizia penitenziaria denuncia che per impedirle l'accesso in sezione è stato riversato dell'olio bollente. La tensione in questa fase raggiunge facilmente stadi di acuzie e rapidi cali perché nessuno sa in verità come si uscirà dalla vicenda del virus. Chi ha il potere naviga a vista e chi non lo ha spesso sente di affogare (nota personale: "o si sente affogare...che non è la stessa cosa!"). Le proteste rientrano nel corso della stessa serata di domenica, dopo un primo intervento della penitenziaria. Sembra essere stato uno sfogo caduto nel vuoto. Bisogna che le cose sfumino da sé. Anche gli sforzi di chi in questi giorni sta tentando di stabilire un dialogo con le controparti, offrendo soluzioni per fronteggiare la devastante emergenza, si sgretolano davanti al muro del Dap e del ministero. A questo punto la storia cominciata col contagio di Franco assume contorni inquietanti. Lunedì in carcere arriva il magistrato di sorveglianza e incontra i detenuti per i colloqui. Si constata che gli atti di insubordinazione che si sono verificati non hanno assunto i connotati di una vera rivolta (come quella ai primi di marzo nel carcere di Fuorni, Salerno). Secondo le testimonianze raccolte da Antigone e dall'ufficio del garante, si è verificata invece una fortissima rappresaglia da parte della polizia penitenziaria. Appena la magistratura di sorveglianza ha concluso il suo lavoro (tra le sue competenze c'è quella di monitorare lo stato, le garanzie e i diritti dei reclusi) quasi cento poliziotti a volto coperto e in tenuta antisommossa sono entrati in un padiglione e hanno cominciato i pestaggi all'interno delle "camere di pernottamento". Probabilmente non sono gli stessi poliziotti in servizio presso l'istituto (nota personale: questa, a mio avviso, non è una scusante ma un'aggravante ulteriore che sta a dimostrare la precisa intenzionalità a voler attuare quanto citato: un vero e proprio "piano" d'azione premeditato, insomma, nonché studiato nei minimi particolari; senz'altro non estemporaneo o frutto della casualità come si evince leggendo il resto del racconto!), anche perché picchiano chiunque, anche chi non ha preso parte alle agitazioni del fine settimana, anche qualche detenuto che dopo pochi giorni potrebbe uscire dal carcere con i segni del martirio sulla carne. Le violenze si svolgono secondo modelli già visti: ad alcuni detenuti vengono tagliati barba e capelli, vengono spogliati e pestati con manganelli, pugni e calci su tutto il corpo. Il racconto di queste torture non sembra fermarsi, perché alcuni familiari sostengono che i pestaggi continuino anche ora. Nel corso di questa settimana le famiglie, preoccupate per le violenze, hanno organizzato una manifestazione pacifica nei pressi del carcere. Ma all'interno si respira un'aria gelida e qualche agente continua il gioco al massacro psicologico: ‐ Avete anche il coraggio di far venire le vostre famiglie? Non vi è bastato? (due note personali: la prima riguarda il fatto che gran parte di questo racconto, inglobato nel mio articolo, è possibile riascoltarlo dalla viva voce di un detenuto, la cui testimonianza è stata filtrata telefonicamente, in un video condivisibile da chiunque sui social media; la seconda invece riguarda il commento espresso da una donna, tale Maggie Mc Gill ‐ non so chi essa sia, sinceramente ‐ sul racconto propostovi: "Denudare le vittime è una pratica che viene insegnata negli addestramenti alla tortura. Pone i prigionieri in una condizione di ulteriore inferiorità, rispetto agli aguzzini, fisica e psicologica. Li spersonalizza prima delle botte, l'acqua salata da bere o la corrente. Dai nazisti in poi. Passando per Algeri, Santiago del Cile, Buenos Aires, Genova, Abu Ghraib"... il rifermento è alla Prigione Centrale di Baghdad, capitale irachena: nota in tempi pregressi col nome di Abu Ghraib, appunto, diventò tristemente famosa per le pratiche di tortura commesse al suo interno dal personale dell'esercito statunitense e da agenti della Cia, al tempo della guerra in Irak). Mattanze di questo tipo, in stile scuola Diaz, servono a (ri) stabilire un rapporto di dominio: svuotare il corpo di ogni difesa fisica e mentale, colpire la persona fino a suscitare sentimento di vergogna verso se stessi. Di fronte al deflagrare di quest'energia cinetica bisogna essere nudi: è il modo migliore per rendere docile un corpo che ha mostrato segni di insubordinazione. In questi giorni sono stati presentati alcuni esposti alla procura della Repubblica (nota personale: quella stessa Repubblica, mi viene di scrivere, che festeggerà ‐ solo simbolicamente, quest'anno ‐ la sua ricorrenza ma che, ahimè, spesso fa "occhio ed orecchio da mercante", soprattutto nei confronti dei suoi repubblichini...minori!): la sola Antigone ne ha già depositati tre, in diversi penitenziari del paese. La suddetta procura dovrà accertare cosa è successo nel carcere casertano. La tensione nel frattempo, anche quella della polizia penitenziaria, si trasforma di continuo in atti di forza, soprattutto quando non si hanno direttive per fronteggiare la crisi. Il virus viaggia velocemente e la direzione sanitaria cerca di stargli dietro. E' tuttavia difficile, perché i detenuti sono tanti e in alcune sezioni sono ammassati in clamoroso sovrannumero. Oggi i contagi nel carcere di Santa Maria sono arrivati a quattro e un'intero piano di una sezione è stato isolato.Se il sistema sta svelando un'altra falla, dopo ospedali e case di cura, è anche vero che esiste una differenza tra il carcere e gli altri ambienti. Nei nosocomi e nelle RSA, finanche in alcune fabbriche (tutto pur di non interrompere le linee di produzione) si stanno predisponendo ‐ dopo centinaia di morti tra pazienti, medici, infermieri e vigili del fuoco ‐ misure di sicurezza per arginare il contagio. Nelle carceri si guarda il sistema implodere senza prendere alcuna decisione. La mattanza di Santa Maria ne è la dimostrazione e poichè il carcere è uno spazio di guerra, la possibilità di usare in ogni momento delle strategie per indebolire o neutralizzare una delle parti è all'ordine del giorno."Gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo" (Mc 15, 16 ‐ 20). Adesso è necessario monitorare le persone che sono ancora recluse per evitare che il massacro continui.Luigi Romano (da: NapoliMonitor). Torniamo ora ai libri di cui detto nella prima parte della mia mini inchiesta (a ruota libera: molto libera, direi!). Il secondo di essi, vi ricordo, si intitola "Giustizia. Roba da ricchi" ed è edito, come già scritto, da Laterza, Bari. Così si esprime, al riguardo, Antonio Salvati, nella sua recensione. Da anni, le carceri sono piene di ladruncoli, piccoli spacciatori, immigrati irregolari, oltre che ‐ s'intende ‐ di qualche omicida, stupratore, mafioso o camorrista. In realtà, bancarottieri, evasori fiscali, corrotti e corruttori con le patrie galere hanno poco a che fare. Ciò che per gli emarginati è la regola, per i benestanti è l'eccezione: per essi l'unica sanzione è la parcella dell'avvocato. Basta scorrere le statistiche giudiziarie per vedere la realtà impietosa del meccanismo repressivo. La legislazione recente ha giocato un ruolo importante. Infatti, a godere di tutela rafforzata sono i patrimoni individuali e ad essere conseguentemente perseguiti con particolare rigore sono i reati "di strada", abitualmente commessi da chi vive ai margini e non ha nulla da perdere: furti, scippi, rapine. Mentre ‐ denuncia Elisa Pazé nel suo volume, in cui elenca le modalità con cui sono state e sono perseguite le condotte "antisociali" dei poveri ‐ debole e non adeguato è invece il presidio di quei beni ‐ aria, acqua, suolo ‐ che sono patrimonio comune, come se ciò che è di tutti non fosse in realtà di nessuno. Quando vanno in galera i poveri ‐ nessuno si chiede se le intercettazioni abbiano leso la riservatezza, se sia stato violato il segreto investigativo o se la carcerazione preventiva sia giustificata, quando si sfiora qualche personaggio eccellente fioccano le polemiche contro lo straripare della magistratura, la "giustizia ad orologeria", la politicizzazione e il protagonismo di certe procure. Il colpevole diventa un perseguitato e a suscitare sdegno non è il reato commesso, ma il fatto che la televisione e i giornali ne diano notizia. E' questo, aggiungo io, il nocciolo del problema, anzi...di un paio di problemi. Il primo è la mancanza di garantismo e l'eccesso, dal lato opposto, di giustizialismo, aspetto ingigantitosi durante la recente emergenza dovuta al coronavirus: i colpevoli di qualcosa (anzi, i presunti colpevoli ‐ od innocenti ‐) vanno dati in pasto al meccanismo mediatico (stampa, televisione e web, poco importa!) ancora prima di essere stati giudicati, anzi, ancor prima che il procedimento a loro carico abbia avuto inizio e che i legali o il legale della difesa abbia avuto modo di approntare la difesa stessa (e molto spesso, questo va ad inficiare le indagini e lo stesso procedimento). Si va a ledere, così, uno dei principi sacri del diritto (che sia quello anglosassone o romano non conta): nessuno è colpevole (o innocente) prima che sia stato dimostrato il contrario! Il secondo aspetto è quello stesso denunciato nel rapporto steso da Antigone: il sovraffollamento delle carceri. Il rapporto, di cui ho dato notizia nella prima parte di questo mio articolo inchiesta (tra l'altro, è da dire che lo stesso Partito Radicale Nonviolento ha presentato alla Corte Europea dei diritti umani, che opera all'interno del Consiglio d'Europa, un suo rapporto "denuncia" sulle condizioni carcerarie in Italia), si scontra con un controsenso lampante: nel nostro paese diminuiscono senz'altro i reati, ma al contempo aumentano i detenuti. E' quanto scritto nel libro della Pazé ed è quello che è emerso, nelle settimane scorse, ed in tutta la sua gravità, con lo scoppio delle rivolte carcerarie estesesi a macchia d'olio (o come un boomerang: che, però, si è ritorto soprattutto sulla pelle dei detenuti e dei loro familiari!). A più riprese è stata invocata una "amnistia temporanea" o sui generis (io stesso ho firmato un appello in merito, sulla piattaforma Change.org), quella che mandasse fuori dal carcere detenuti in attesa di giudizio, in odore di scarcerazione o con condanne penali sino a diciotto mesi ma...tutti hanno fatto (chi più e chi meno, ripeto!) orecchie ed occhi da mercante: la sola risposta dello Stato è stata quella repressiva o la scarcerazione temporanea dei detenuti sottoposti al cosiddetto articolo 41/bis (quelli, per intenderci, giudicati colpevoli per reati di mafia, camorra e ndrangheta). Tutto giusto, per carità, a mio parere non è da farsi distinzione alcuna, quando si tratta della salute degli uomini (la stessa Costituzione la garantisce per ognuno: a prescindere dalla estrazione sociale, dalle condizioni socio‐economiche, dalle idee religiose o politiche, dai reati commessi, appunto!), ma neanche si dovrebbe usare il metodo dei "due pesi e delle due misure". Da più parti si è parlato di una sorta di "patto" di non belligeranza o di quieto vivere tra mafia‐mafie e Stato, atto a distogliere l'attenzione dai problemi reali, a convogliare a proprio uso e consumo (da parte dello Stato, appunto) l'opinione pubblica e quella mediatica verso strade meno in...vista e più gestibili, ad allontanarsi, più o meno di molto, dal punto focale e dal nocciolo della questione: tutto possibile, probabilmente vero; d'accordissimo anche su questo, per quanto mi riguarda (ed essendo un antistatalista convinto!), fermo restando tuttavia, che il diritto alla salute, sia in epoca attuale (e debba esserlo sempre e comunque) improcrastinabile per chiunque: tanto per il piccolo delinquente quanto per colui che si macchi dei peggiori crimini contro l'uomo. A questo proposito voglio portare all'attenzione alcuni casi eclatanti, che hanno destato la mia attenzione durante l'excursus di lettura che mi ha tenuto occupato in queste lunghissime settimane di quarantena forzata (soltanto fisica, per fortuna!). Cito alcuni esempi. Il primo riguarda Pasquale Zagaria, fratello del noto boss dei casalesi Michele, la cui scarcerazione, sancita dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari ed approvata (moralmente) anche da Antigone, è stata definita "vergognosa" dallo stesso ministro Bonafede senza contare, però, alcuni particolari di primaria importanza: in quel caso, infatti, sussistono gravissime ragioni di salute ("il detenuto è malato di cancro e non può essere curato in cacere" è stata la motivazione dei giudici...tanto più, è da aggiungere, che lo stesso non si sia macchiato di delitti di sangue nel corso della sua "carriera" delinquenziale!). Lo stesso Zagaria sta usufruendo dei domiciliari e trascorrerà i prossimi cinque mesi in un paesino dell provincia bresciana. Sulle righe del quotidiano Il Riformista ho letto anche, alcune settimane orsono (eravamo agli inizi di maggio) l'appello di Carmen D'Angelo, moglie di Francesco Petrone, che la DDA (Direzione Distrettuale Antimafia) ritiene essere il boss del rione Traiano a Napoli: il marito, in carcere dal 2017, all'epoca dell'appello prodotto dalla moglie, era bloccato da dieci giorni sopra un letto d'ospedale, a causa di un'ischemia cerebrale occorsagli mentre era nel bagno della sua cella. La moglie, in quel caso, lamentava il fatto che il marito non potesse tornare in carcere nelle sue condizioni. Spero che anche in questo caso, la situazione si sia risolta per il meglio. Ed ancora: cito l'appello (risalente, però, ai primi di aprile) di Pino Verderosa a favore di suo figlio Francesco, ragazzo di trentaquattro anni e da due detenuto a Poggioreale in uno stato di salute alquanto critico (il ragazzo soffre di una gravissima forma di obesità ‐ ha raggiunto i duecentodieci chili ‐ ed al tempo dell'appello lamentava molteplici problemi tra cui difficoltà respiratorie accentuate). L'uomo (intendo il padre di Francesco) formulò un appello abbastanza "garbato" ‐ se così si può scrivere ‐: infatti, pur riconoscendo di non voler trattamenti di favore per il figlio ("ha sbagliato ed è giusto che paghi", ha dichiarato ai quotidiani), ne chiedeva il trasferimento ai domiciliari, ritenendo insostenibile per la sua salute un periodo ulteriore di detenzione. In questo caso, avendo io avuto ‐ nella mia vita ‐ problemi simili a quelli del figlio di Verderosa (ho sofferto per un periodo di obesità, seppur in forma più lieve) mi auguro doppiamente che la situazione si sia risolta a favore del ragazzo. Infine, al termine di questa mia breve carrellata, vorrei parlare anche di un caso abbastanza eclatante: quello di Cesare Battisti e di due compagni anarchici. Tuttavia, prima di farlo, debbo dire che tra le altre cose sono da citare diversi casi di tentato suicidio, avvenuti all'interno delle case di pena in queste settimane: il più recente riguarda quello avvenuto nel carcere di Aversa e riguarda un detenuto extracomunitario in attesa di ricevere il famoso braccialetto; e prima di poter iniziare, così, il periodo di detenzione domiciliare. Ma andiamo un passo indietro e procediamo per ordine. Il braccialetto (o cavigliera elettronica che dir si voglia), il quale funziona attraverso l'emissione di segnali (onde) radio a un ricevitore per segnalare la posizione di colui (o colei) a cui esso viene applicato, è stato introdotto nella legislazione italiana col Decreto Legge n.°341 del 24 novembre 2000 (ma in varie parti dell'Europa e del mondo lo fu da ben prima), denominato ‐ appunto ‐ decreto "antiscarcerazioni". Il funzionamento e le modalità di applicazione di questo "mezzo" estraneo, sono regolati dall'articolo 275 bis del codice di procedura penale in materia di misure aggravative dei provvedimenti di custodia cautelare: in buona sostanza, per ciò che concerne i detenuti che debbano scontare pene detentive superiori ad un anno, la misura coercitiva della custodia in carcere viene sostituita da quella degli arresti domiciliari presso la propria abitazione, fermo restando che essa venga integrata da ulteriori misure tecnologiche (il braccialetto di cui sopra, appunto) che servano ad assicurare il rispetto del provvedimento cautelativo in questione: il tutto previo consenso del detenuto stesso e, soprattutto, laddove sia stata accertata, da parte della polizia giudiziaria, la disponibilità in essere del mezzo elettronico; misura, questa, molto spesso più afflittiva dell'altra (parlasi della detenzione cautelare in loco, ossia nel carcere!); tenendo conto anche dei ritardi (altro fattore che nuoce ‐ e non poco ‐ per i detenuti in attesa del mezzo) e del numero insufficiente di braccialetti a disposizione. Si diceva dei tentativi di suicidio recenti, sventati per fortuna: il primo nel carcere di Padova, l'altro nella casa circondariale "Filippo Saporito" di Aversa, grosso centro dell'hinterland casertano, ad opera di un nordafricano che ha tentato di impiccarsi. Ma anche altrove le cose non vanno per il meglio: spesso il malcontento si accumula nel personale o tra i detenuti stessi (coi risultati di cui ho detto); spesso (e volentieri) i braccialetti quando ‐ e se arrivano ‐ non vengono distribuiti con la dovuta solerzia dal personale in servizio (testimonianze dirette dei detenuti raccolte in diverse carceri sono eloquenti, al proposito!). Lo stesso Garante della Regione Campania, Samuele Ciambriello, ha dichiarato: ‐ Il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria sostiene di averne acquistati cinquemila ma intanto anche nella nostra Regione i tempi d'attesa per i detenuti che hammo ottenuto un'ordinanza di concessione della misura alternativa della detenzione domiciliare con applicazione del braccialetto elettronico sono diventati lunghi e vanno sia a compromettere i contenuti del Decreto del 17 marzo 2020 e le scelte della Magistratura di Sorveglianza, sia creano sentimenti di angoscia in coloro che ne sono beneficiari. Tale frustrazione e malessere hanno portato un detenuto del carcere di Aversa a compiere un grave tentativo di gesto estremo...il tempo di attesa mina il clima generale dell'istituto, già provato dal particolare periodo di emergenza nazionale (nota personale: anche i detenuti e le povere loro membra, pestate nelle settimane precedenti senza pudore alcuno, lo sono! Come lo sono i familiari dei detenuti che vivono al di fuori delle mura del carcere...i più provati di tutti, probabilmente!). E' una vergogna, sia la mancanza di braccialetti, sia il fatto di volerli utilizzare per forza per fare uscire i detenuti che devono scontare ancora solo diciotto mesi di reclusione, in misura di detenzione domiciliare. Ma la politica ha capito che il carcere è una polveriera a miccia corta? ‐ (E se lo dice il Garante...per una volta anche gli anarco‐insurrezionalisti a cui ‐ faccio notare ‐ molti avevano attribuito, erroneamente, la paternità dell'organizzazione delle sommosse dei primi di marzo ‐ sempre per quel discorso...distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica e veicolarla altrove ‐ sarebbero d'accordo con le istituzioni). Due note ancora, a proposito di politica e...sommosse (più o meno organizzate)e dintorni. La prima riguarda Aristotele e la politica, appunto; o meglio, un suo noto pensiero intorno alla politica: il sommo filosofo, colui che ha generato figli, nipoti e pronipoti in ogni dove, sulla terra, ed in ogni epoca (però, non sempre quelli eredi furono leggittimi, a mio avviso: ma questo è un'altro discorso!) riteneva che essa fosse "l'attività più nobile dell'uomo, quando fosse al servizio dell'uomo stesso: il sostantivo è da intendersi come umanità e no come genere di sesso maschile, appunto! La seconda nota, invece, (direi una parentesi ampia e ulteriore testimonianza, allo stesso tempo, sugli eventi di cui ampiamente si parla nel mio racconto.inchiesta e su alcune importanti questioni intorno al carcere ed alla giustizia) potrà avvalorare alcune mie ipotesi in modo più saldo ed aiuterà il lettore a farsi un proprio convincimento ed a capirci ‐ magari ‐ qualcosa di più e (forse) di meglio: almeno spero! Si diceva che la politica (ma più di essa lo fa il sistema politico, il potere di cui quello rappresenta la punta dell'iceberg...di molto più grandi rispetto a quello che investì il transatlantico britannico "Titanic" ‐ e lo affondò, ahimé! ‐ al largo dell'isola canadese di Terranova, nell'oceano Atlantico, alle prime luci dell'alba del 15 aprile 1912) usi spesso le notizie e gli eventi umani a suo piacimento nonché per uso suo e consumo. Lo Stato, a sua volta, manipola l'opinione pubblica servendosi dei mezzi d'informazione, dei media, del web e dei social ad esso connessi. Questa testimonianza è di un ex‐detenuto, ora legale, che ho ascoltato nel corso di una trasmissione (egli concedeva una sorta di intervista all'interlocutrice) della emittente Rdio Evasione, mandata in onda lo scorso nove maggio (quindi a diverse settimane di distanza dalle rivolte carcerarie).