Diario di bordo - Proverbi "pazzi" & varie cose (filosofeggiando, qua e là) (quarta parte)

 ‐ Il mio, il nostro piccolo mondo e...il "fiore in bocca" ‐ Nel famigerato autunno del 2016 (eravamo, per la precisione, al diciannove di ottobre), scrissi una poesia che ha per titolo, appunto, lo stesso di questo paragrafo ed il seguente sottotitolo: "o: la sentenza del mosto selvatico". Il significato del sottotitolo è presto spiegato: eravamo in autunno, tempo di uva e vendemmia, di mescita e decantazione del vino...mosto e vino non sono poi così lontani tra loro, alla fine. La poesia è la seguente:

Son custode
io del mio piccolo caro mondo
che difendo a spada tratta
come fossi prode cavalier
d'altri tempi ma ‐ a tutto tondo ‐
da facile disfatta.   
Il mio piccolo mondo
è tutto mio: guai a chi me lo tocca;
ma ognun di noi ha il suo...
piccolo (caro) mondo
che quello è 
del fiore in bocca.
Son custode
del mio piccolo caro mondo;
ma ognuno dovrebbe esserlo
‐ a suo modo ‐
del proprio e difenderlo
fin' in fondo.

Ognuno dovrebbe difendere il proprio mondo (cercando di farlo con ogni mezzo e fin quando sia possibile: possibilmente vita natural durante!) il quale, metaforicamente parlando (o scrivendo), simboleggia le idee ed il modo di vedere le cose e la vita, una visione del tutto, insomma, ma anche ‐ al tempo stesso ‐ un qualcosa di piccolo e di semplice: difendere, cioè, le piccole cose e semplici ancor prima di quelle (più) grandi e (più) complicate. Ma, alla fine, c'é sempre qualcuno o qualcosa che...può rompere le uova nel paniere: il "fiore in bocca", appunto: egli è sempre in agguato a ricordarci quello che siamo e sapete il perché? Nella fattispecie rappresenta la morte, la transitorietà, l'aleatorietà ed ogni mondo, che sia esso fatto di cose semplici o complicate, o seppur piccolo come puo esserlo quello di ognuno di noi (con le nostre fragilità e debolezze, le nostre presunte "forze" o onnipotenze, i nostri sentimenti, le nostre paure, le nostre gioie ed i nostri alterni ed effimeri momenti di serenità ed illusioni) si rivela essere meno di un castello in aria (di quelli fatti con le carte da tressètte o poker oppure che si costruiscono sulla spiaggia da bambini: ricordate? Con paletta, secchiello e formine!!!!). Quel piccolo, caro, nostro mondo non è mai ‐ in fin dei conti ‐ nostro per sempre...appartiene (appunto) alla morte soltanto (e per un breve lasso di tempo anche alla vita stessa, se mai). Come posso non pensare, ora, a due cose importanti, ossia a due riferimenti filosofico‐letterari: la prima/il primo riguarda un pensiero di Jean‐Paul Sartre, notissimo letterato‐filosofo‐poeta e intellettuale francese del novecento (tra l'altro, fu anche premio nobel per la letteratura...a tempo perso, chissà!); esso fa (suona), pressappòco così: "l'uomo possiede il libero arbitrio, ossia la capacità di pensare, discernere e decidere, il quale lo contraddistingue dagli altri esseri viventi, ma ogni cosa che egli fa, decida o pensi porterà sempre a nulla"...lupus in fabula, appunto: l'uomo è un essere finito! La seconda cosa (o il secondo riferimento letterario: è la stessa cosa!) riguarda alcune parole (quelle conclusive), della nota poesia di Totò, intitolata "La livella" (l'unica, invero, che il principe, maestro di ironia e di crudo realismo, abbia scritto in sua vita): "...queste pagliacciate le fanno solo i vivi: noi siamo seri, apparteniamo alla morte!". Debbo dire, tuttavia, che "il fiore", come riferimento letterario, l'ho citato basandomi sul titolo (e sul contenuto) di una celebre commedia pirandelliana ovvero "L'uomo dal fiore in bocca" (ma quante similitudini ci sono, però, tra Pirandello e Sartre? Tantissime, oserei dire e una sopra tutte: entrambi hanno dato alla luce le loro opere più importanti nel periodo tra i più bui della storia dell'umanità, quello a cavallo tra le due guerre mondiali, ed entrambi sono stati influenzati dalla realtà storica e dal contesto in cui vissero). Ma torniamo al nostro fiore, inteso come opera: essa è opera teatrale tra le più insolite dell'intero corpus dello scrittore siciliano in quanto trattasi di un atto unico, composto sotto forma di dialogo e con soli due personaggi. Un uomo condannato a morte (ha un epitelioma, il "fiore in bocca", appunto) si ritrova a dialogare nottetempo in un bar della stazione dopo aver perso il treno. Durante il dialogo parla all'altro del suo problemino e di quanto gli resti da vivere. Venne rappresentata per la prima volta in teatro a Roma, nel febbraio del 1923, dalla Compagnia degli Indipendenti diretta da Anton Giulio Bragaglia: fu lo stesso regista che l'aveva commissionata a Pirandello. Nino Meloni impersonava il malato mentre Eugenio Cappabianca l'avventore casuale. Sul blog Dicose un po'.it è scritto: "La critica fu molto favorevole al lavoro e alla messa in scena, un po' meno alla recitazione dei due attori".
‐ La materia dei poeti ‐ Premesso che la suddetta non si insegni né si impari da nessuna parte (cosa alquanto ovvia, direi, visto che non si può imparare ciocché non viene insegnato ma...qualcuno ha pur detto che "ogni uomo nasce poeta!") e neanche si trovi essa scritta in nessunissimo libro (fosse anche la piu' rara edizione delle "Cronache di Holynshead" e della sacra Bibbia messe assieme), debbo precisare che il senso del sostantivo [materia] come sinonimo è da intendersi di fonte, ispirazione, etc. Riporto, perciò quanto segue: a mio avviso, i poeti attingono (quasi sempre) da disperazione (sovente la propria), malinconia e nostalgia (di tutto e per tutto); ma anche dalla realtà circostante (sovente e volentieri) e dalla immaginazione (qualche volta: per fortuna!).
‐ Massima (con domanda) ‐ Oggi non è stato uguale a ieri ma forse non sarà diverso da domani...Domanda: ma se domani fosse, invece, uguale ad oggi, sarebbe stato diverso da ieri?
‐ Punto di vista (realistico) del romanziere
‐ Dolcissima creatura ‐ ripeté Sam
‐ Non sarà mica in poesia? ‐ Interruppe il padre.
‐ No, no ‐ rispose Sam.
‐ Sono contento di sentirlo ‐ disse Mr. Weller. ‐ La poesia non è naturale; nessuno parla mai in poesia, tranne i bidelli per Natale, la pubblicità del lucido da scarpe Warren o dell'olio Rowland, e altra robaccia del genere; non abbassarti mai a parlare in poesia, figliolo. Ricomincia Sammy.
Mr. Weller riprese la pipa con critica solennità, e Sam incominciò di nuovo e lesse come segue: ‐ dolcissima creatura, mi sento avvinazzato... (Charles Dickens, da: "Il circolo Pickwick").
‐ Poker d'assi (giochino con rimembranza annessa) ‐ Giorno=fascino; Notte=mistero;Vita=stranezze;Morte=logica... debbo dire, in veritas, che una volta ‐ seduto che ero ad un tavolo, a giocare a poker ‐ avevo in mano un bel poker d'assi. Volete sapere cosa feci e perché lo feci? Ebbene, passai la mano visto che la posta in gioco non era abbastanza alta per me (e dire, che c'erano dei bei soldini su quel tavolo!). Morale: darsi la zappa sui piedi? Ma no, più semplicemente è...dire e fare quello che ti passa per la testa: non importa cosa sia, fosse anche il dirigibile "Zeppelin", uno stormo di api impazzite, un aquilone dipinto di rosso o la più stramba, catastrofica e autolesionistica delle idee. In fondo, qualcuno disse una volta che "il mondo è bello perché è vario"...a ruota, poi, ‐ e di conserva ‐ lo seguì qualcun altro che affermò: "ognuno è libero di pensare a proprio modo, di dire e fare ciocchè gli va!".