Diario di bordo - Quante volte?
In queste settimane di "quarantena forzata" spesso mi sono posto questa domanda: ‐ Quante volte, nel corso della storia, è morto il "sogno americano"?
Per quelli come me, che da sempre sognano l'America è un fatto importante, questo (un viaggio negli States, coast to coast, come si diceva una volta, fatto magari...in sella ad una moto stile "Easy Rider", di quelle con la forcella maxi a tutto spiano e in bella mostra, su cui evoluivano Peter Fonda e Dennis Hopper nelle scene del film omonimo datato 1969 ‐ paradossalmente, quella pellicola rappresenta una testa di ponte, un caposaldo dell'antiamericanismo e del suo mito o dei suoi miti ‐ o meglio a bordo di un "Greyhound", i famosi autobus che non hanno eguali al mondo e con cui si possono raggiungere i più sperduti angoli di territorio americano toccando paesini sconosciuti a gran parte degli abitanti negli States, in lungo ed in largo, da ovest ad est, dal versante canadese a quello della Louisiana, di fronte al golfo del Messico o della Florida, di fronte all'oceano Atlantico: lo avevo progettato più volte, intorno agli anni 1982‐84; ma poi...le cose vanno come non dovrebbero andare, a volte!). Forse, chissà, quel sogno è morto prima ancora di cominciare: nel settembre del 1620 quando i pellegrini calvinisti e puritani europei (in gran parte olandesi e britannici) approdarono sulle coste del Massachusetts portandovi un assaggio di vecchio mondo... ma così estirpando, già da allora, lo spirito ancestrale di quei luoghi. Appena settanta anni dopo da quello sbarco (intorno al 1690, anno più anno meno!) vi fu la caccia alle streghe e quelle persecuzioni, culminate nei processi successivi, ispirarono lo scrittore Nathaniel Hawthorne, uno dei grandi del cosiddetto realismo fantastico americano (insieme a Longfellow ed allo stesso Thoreau), nella stesura delle sue due massime opere: "La lettera scarlatta" e "La casa dei sette abbaini". E' da dire che Hawthorne nacque proprio a Salem, dove vi furono quelle persecuzioni e quei processi, e che quella casa, nella sua città natale, esiste per davvero: si chiama House of Seven Gables, appunto, si trova sulla Chestnut Street, che gli abitanti del luogo giudicano essere una delle più belle strade al mondo, fu costruita nel 1668 da Samuel McIntire ed è oggi un museo aperto tutti i giorni fino alle sedici e trenta pomeridiane (notizie, queste, tratte dalla mitica guida Pan‐Am, edizione 1981, che comprai l'anno seguente nella libreria "Leone", sita allora in via Di Palma, in pieno centro cittadino, a Taranto e senz'altro, per decenni, la più fornita della citta: in vista, appunto, di un mio possibile tour negli States!). Ma di quei processi e di altre questioni religiose connesse con la "stregoneria" si occuparono, nei loro scritti, anche i membri della dinastia dei Mather, che sono contemporanei a quelle vicende storiche (il capostipite fu Richard: gli altri, fratelli e cugini, furono Increase, Joseph Cotton e Samuel) e che inaugurarono, in seguito, la stagione del genere biografico‐religioso‐storico‐letterario; ed infine il commediografo Arthur Miller, il quale nella sua commedia "Il crogiuolo", del 1953, volle incarnare nei processi alle streghe del New England la vicenda del maccarthismo, di cui egli stesso fu in seguito vittima: quella messa in atto dal senatore repubblicano Joseph Mc Carthy fu una caccia alle streghe di ben più vasta portata rispetto all'altra (la cosiddetta "Red Scare", fu chiamata; la paura rossa legata a una fantomatica invasione cinese o comunista in genere, ai tempi della guerra statunitense in Corea del Nord), e rappresenta anch'essa una delle pagine più ignobili, oscure ed ingloriose della storia statunitense. Ma torniamo alla retta via (quella cronologica e sequenziale) del nostro racconto. Il sogno americano è morto tra il 1860 ed il 1890: la stagione della efferata caccia al bisonte, della nascita della ferrovia e delle guerre indiane. Paradossalmente, in quel contesto storico e in quelle vicende legate ad esse, quel sogno morì proprio con la nascita del mito dell'ovest e della frontiera: un leit‐motiv, questo, a mio avviso, presente spesso nel corso della storia di quel paese...la storia "stars&stripes" è fatta soprattutto di cura e male, male ed antidoto per curarlo! Ma andiamo a monte: nel 1862, in piena guerra di secessione, il governo dell'Unione varò lo Homestead Act o legge sui "poderi gratuiti", che permetteva ai capifamiglia (non sudisti) di stabilirsi nelle terre all'Ovest e diventarne proprietari dietro pagamento di un prezzo puramente simbolico. In quello stesso anno fu decisa la costruzione della ferrovia transcontinentale. ‐ Fu quello l'inizio, (appunto), ‐ come è scritto in "L'età contemporanea" da A. Preti ‐ della grande corsa all'Ovest dei pionieri ma anche di mercanti, affaristi e speculatori d'ogni specie...essa fu sostenuta, dopo la fine della guerra, da un massiccio impiego di soldati. Il progresso, quindi, causò la morte delle popolazioni indigene della grande prateria e con esse della loro cultura, dei loro usi e costumi, del loro atavico e naturale modo di vivere, legato strettamente alla natura ed al rapporto spirituale ed ancestrale (anzi, "ancestralmente spirituale"): quello che avvenne allora, storicamente fu paragonabile al colonialismo delle grandi potenze europee, che in varie ondate, nel corso della storia, hanno "smantellato" terre e popoli nei quattro continenti del mondo abitabile. Al proposito, mi sembra interessante riportare quanto abbia scritto Edward Sherrif Curtis, uno degli antesiniani d'America della moderna figura del free‐lance nonché autore di una delle più importanti documentazioni fotografiche sugli Indiani del Nordamerica, realizzata nei decenni fra il 1896 e il 1930: ‐ La vita e la personalità degli Indiani non possono essere comprese se non alla luce dello strettissimo rapporto che le lega alla natura, e che le rende dipendenti dai fenomeni dell'universo ‐ alberi e cespugli, sole e stelle, fulmini, tuoni e pioggia ‐ intesi come creature animate, e più ancora come vere e proprie divinità, capaci di influire sul destino degli uomini. Il senso di identificazione colla natura nella sua totalità era tale che l'Indiano riteneva unica la fonte dalla quale scaturiva la vita nelle sue diverse manifestazioni. Ciò spiega perché i primi Indiani conosciuti dagli Europei pregassero sugli animali uccisi durante la caccia, quasi a giustificare la necessità di quella morte e manifestare la consapevolezza della comune origine, della fratellanza fra cacciatore e preda. ‐ Fino a quella data (il 1862, appunto), la grande pianura americana, che si estende per diverse centinaia di chilometri dal delta del Mississippi alle Rocky Mountains e che ai più era sconosciuta (quasi ignota) all'epoca, era prevalentemente abitata da cavalli selvaggi e bradi, antilopi, coyotes e, soprattutto, da bisonti: in particolar modo nelle zone temperate che si estendono a nord del fiume Arkansas, il quale nasce (appunto) dai monti Sawatch (sulle Montagne Rocciose) e bagna gli stati del Kansas, dell'Oklahoma e dell'Arkansas. I cavalli ed i bisonti giocarono un ruolo importante nella vita dei nativi, soprattutto nella fase ultima (definita "estate indiana") quando essi si trasformarono da coltivatori in cacciatori. Il cavallo giunse in America nel settecento (anzi, il suo fu un "ritorno", visto che da quelle terre non era mai andato via, forse!), introdottovi ad opera dei conquistadores Spagnoli: cominciò ad essere usato nella caccia, nella guerra e per il trasporto di cose e persone nelle praterie sterminate; esso, insieme alla successiva diffusione delle armi (in particolar modo del fucile), ad opera dei mercanti provenienti dall'Est, contribuì a costruire lo stereotipo dell'indiano d'America ottocentesco: quello che tanta cinematografia hollywoodiana, attraverso documentari e film ci ha tramandato (a cominciare dai registi "pionieri" come Edwin S. Porter, G. M. Anderson ‐ il famoso Broncho Bill ‐ Griffith, Ince ed Hart, per arrivare ai "moderni": primo su tutti il capostipite e maestro del genere western John Ford, nome d'arte di Sean Aloysius O'Fearna, ultimo di tredici figli ed irlandese d'origine, e poi ancora una lunga schiera di nomi, da George Sherman ad Aldrich e Peckinpah, da Stevens a Zinnemann, da Fritz Lang a Nicholas Ray, da Edward Dmytryck a Budd Boetticher da Delmer Daves a Henry Hataway, Henry King, Anthony Mann, Raoul Walsh, André De Toth, Howard Hawks, il nostro Sergio Leone, che di Ford fu accanito cultore e "seguace"); il Sioux o il Navajo, il Cheyenne, l'Arapaho e il Nez Percé che nelle pellicole imbracciano un Winchester per assaltare una diligenza oppure che incendiano una fattoria di coloni indifesi, prima che intervengano le famose giubbe blu a salvarli! Ma le cose non stavano in questo modo: la civiltà dei nativi mutò ad opera, per causa e per colpa della contaminazione coll'uomo bianco ed il suo mondo; con la sua cultura e coi suoi sistemi di offesa e di difesa. Si è detto dei mercanti d'armi e del Winchester; ebbene, fu proprio un bianco il precursore di questa stirpe: Oliver F. Winchester, da cui derivò il nome di quel tipo, o modello di fucile. Esso, originariamente era un fabbricante di camicie di New Haven, cittadina del Connecticut. Vi arrivò intorno al 1848 fondandovi la "Winchester&Davies" fabbrica di camicie, appunto. Si interessò alla fabbricazione delle armi nel 1855, quando acquistò alcune azioni della "Volcanic Repeating Arms Co." di Norwich, nel Connecticut, che dopo il trasferimento legale a New Haven nel 1856, fallì l'anno dopo. Risorse come "New Haven Arms Co." e poi con la dicitura di "Winchester Repeating Arms Co". Durante il primo conflitto mondiale, la Compagnia fornì al governo federale circa mezzo milione di fucili modello Enfield 1917 oltre a tanti altri tipi di equipaggiamento e munizioni. Tra le sue armi più famose (tristemente, direi!) sono da ricordare il Winchester '73, che venne costruito a partire dal 1873 (da cui la denominazione numerica) e il suo fratello maggiore Winchester '66, antecedente di sette anni all'altro: entrambe le armi divennero le più usate nel West e su di esse, in gran parte, pende l'accusa dello sterminio dei bisonti. Gli Indiani erano dei cacciatori provetti ma è da dire che la differenza tra loro e l'uomo bianco era abissale: i primi lo facevano per sostentamento (dal bisonte ricavavano carne, pelle, ossa, tendini utilizzandoli, a seconda delle esigenze e necessità esistenziali, per nutrirsi, creare vestiario e coprirsi, per costruire armi o oggetti artistici), senza mai uccidere animali in numero più elevato rispetto alle proprie necessità; gli altri, invece, lo facevano per soddisfare la "fame di terre" e di denaro (tutto cominciò nel 1862, come detto, e andò avanti nei decenni successivi: spazzando via un mondo e un equilibrio di natura e cultura bellissimo, in nome di un crescente sviluppo capitalistico dell'industria e del commercio di natura essenzialmente opportunistica), per affermare una cultura puritana, intollerante e materialista, una visione della vita diversa dall'altra. La valanga di carri e coloni, a cui si aggiunsero cercatori d'oro e, come detto, mercanti d'ogni risma e senza scrupoli, insieme alla costruzione delle linee ferroviarie misero in fuga antilopi e bisonti dai territori di caccia dei pellirosse. Alle origini delle guerre indiane vi è pertanto l'attacco, portato dai bianchi, ai due grandi beni dei pellirosse: la terra e i bisonti. Ma a monte, vi era anche un disegno ben preciso, voluto dalle massime autorità militari in accordo (segreto, ma nemmeno poi tanto...alla fine!), o concordato "amore" con quelle federali. Gli storici (anche quelli americani) lo hanno poi definito, senza mezzi termini e con pochi giri di parole "politica del genocidio", attuato/attuata dai generali unionisti Philip Henry Sheridan (l'eroe di Opequan, Fisher's Hill, Cedar Creek, e ancora di Five Forks e di Appomatox, dove nel 1865 costrinse alla resa i sudisti guidati da Lee) e William Tecumseh Sherman (l'eroe delle campagne di Vicksburg, Chattanooga ed Atlanta ‐ dove, nel 1864 fu conquistata e poi data alle fiamme la città georgiana: vicende narrate nel romanzo di Margaret Mitchell "Via col vento" e poi trasposte nella celebre pellicola cinematografica ‐ e della battaglia di Shiloh, in cui combatté agli ordini del generale Ulysses S. Grant, e che poi fu nominato Comandante in capo dell'esercito confederato): masse di cacciatori, più o meno "legalizzate", furono fatte affluire (più o meno volutamente) nelle grandi pianure e nei territori sconfinati della frontiera occidentale, avviando lo steminio dei bisonti. Ciò era necessario, per far fronte ai crescenti interessi dei mercati dell'Est, a quelli dei grandi proprietari terrieri, dei banchieri, degli uomini d'affari, della new industry e dei mercanti d'armi, come già scritto; lo stesso Sheridan sosteneva quanto segue: ‐ La via per consentire una duratura pace e consentire alla civiltà di avanzare deve passare attraverso la cancellazione del bisonte dal paesaggio delle grandi praterie. ‐ Il numero di quegli splendidi animali era incalcolabile: c'è chi affermava che ve ne fossero almeno un miliardo! I ritmi della distruzione furono elevati e in pochi anni si giunse al massacro totale.