Differenze marginali.
Avevo meno di dieci anni, quando mi prese una malattia lunga e antipatica, tanto che riuscii a tornare a scuola solamente dopo diverse settimane. In quel periodo ero sempre stato a letto, per cui una volta in piedi mi sentivo debole, e quando rividi qualche compagno che correva per entrare in classe, mi sentii subito incapace di stare minimamente allo stesso pari. Salutai la mamma, infine, e mi avviai anche io lungo le scale dell’edificio, subito preoccupato sia di quello che adesso avrebbero potuto dire di me gli altri bambini, che della improbabile cortesia, da parte loro, di avermi lasciato il posto libero al mio banco; ma anche incerto che i piccoli rapporti di amicizia che avevo elaborato con fatica prima della malattia, fossero rimasti proprio tali. Mi ritrovai di fronte ad una completa indifferenza sia nei confronti di quel mio rientro a scuola, sia dei miei trascorsi problemi di salute, e dopo poco che mi ero seduto in un banco qualsiasi rimasto libero, mi resi conto che tutto sommato era proprio come se dall'aula non mi fossi mai assentato, e forse, per certi versi, anche come se fossi ancora assente. Tra i miei compagni, in quegli anni, c’era sempre qualcuno che tendeva a prendermi un po’ in giro e a farmi degli scherzi. Troppo da solo, troppo silenzioso, troppo diverso da tutti per poter essere lasciato in pace seduto al proprio posto come uno qualsiasi. Così, una volta ritornato, le cose ripresero esattamente dallo stesso punto. Ricordo che restai in silenzio per quasi tutta la mattinata, ed anche durante la lunga ricreazione, a quei due o tre che mi chiedevano ridendo che cosa mi fosse capitato, non risposi quasi niente, alzando le spalle come se in fondo non lo sapessi neppure io con precisione. Qualcuno disse, ma soltanto per scherzare, che avevo avuto il colera, e che dovevo essere tenuto un po’ a distanza, ma tutti gli altri presero per seria quella informazione, ed iniziarono a comportarsi esattamente così.
Era buffo sentirsi allontanato da tutti gli altri, però quasi mi piaceva sentirmi diverso da loro, fino a fingere di avvicinare di colpo qualche gruppetto, per vedere quei compagni scappare quasi come fossi un vero appestato. L’insegnante si accorse di questa situazione, così mi chiamò a sé per dimostrare a tutti gli altri che non c’era alcun pericolo nel toccarmi e nello starmi vicino. Naturalmente i bambini dell’aula continuarono a comportarsi nella stessa maniera di prima, anche perché era divertente per loro scansare un coetaneo con cui non avevano avuto alcun rapporto per così tanto tempo, ma anche a me non dispiaceva troppo incarnare colui che era differente, portatore di virus, ammalato quasi cronico, strano, praticamente un extraterrestre. L’anno scolastico si concluse più o meno in questa maniera, anche se un mio compagno di classe, molto timido e silenzioso, durante uno di quei giorni si avvicinò lentamente a me solo per dirmi pacatamente che a lui facevo schifo, anche se non sapeva spiegarne esattamente la ragione. Ebbi quasi pena di lui, non so perché, forse solo per tutto quanto il contesto, comunque gli dissi che le sue erano parole strane, e che non mi ferivano, se era questo il suo intento.
Lui non disse niente, anche se fu l’unico ad avvicinarsi spontaneamente a me in quei tre mesi che mancavano alla fine dell’anno scolastico. Ad un certo punto pensai che avrei potuto persino giudicarlo amico mio, salvo rendermi conto che probabilmente a lui non importava niente di me, e che senz’altro era solo attratto dal fatto che io venivo continuamente scansato quasi da tutti. In quel periodo cominciai a sporcarmi la faccia ed anche il grembiule con dei pezzetti di terra bagnata, e anche con frammenti di carta fradicia, proprio per esagerare il senso di disgustoso che potevo esercitare almeno su chi era più in vista nella classe. Ma rimasi perplesso quando mi accorsi poco dopo che il mio amico aveva iniziato a fare su di sé la stessa cosa, forse per emulazione, oppure per una specie di strana solidarietà, anche se a tutt’oggi non saprei dirlo; fino a quando venne sua madre a parlare con la nostra signora maestra, e tutto parve prendere una diversa piega. Mi sentii colpevole di averlo trascinato per una china che non era neanche la sua, così alzai la mano dal mio banco per chiedere di parlare. La maestra mi disse di mettermi in piedi e di alzare la voce, ed io spiegai di fretta che la colpa era solamente mia, che avevo esercitato una brutta influenza su di lui, e che di sua iniziativa il mio compagno non avrebbe mai fatto cose del genere. La faccenda finì lì, senza ripercussioni particolari per nessuno, ma le difese che avevo preso per il mio compagno ebbero immediatamente un seguito sul resto della classe, i cui componenti presero a trattarmi finalmente come uno di loro, uno che aveva dimostrato del coraggio per stare all’altezza di una situazione a loro parere già molto difficile. Nessuno, così, durante quegli ultimi giorni di scuola, mi tenne più troppo a distanza, anche se adesso non ricordo di aver dovuto registrare una grande differenza.
Bruno Magnolfi