Don Spiridione e il mammòcce
In quella stanza buia, illuminata dalla tremolante luce emessa dalla fioca fiammella di un’esile candela accesa, Teresa gemeva e frignava reclinando di tanto in tanto le sue membra sul freddo corpo ormai esanime del marito estinto. Angelo era il suo nome, esangue era ora il suo ceruleo volto e inespressivo e aveva le mani incrociate sul petto. Era morto qualche ora prima. Con una mano, la povera donna, si asciugava di tanto in tanto le lacrime che sgorgavano copiose dalle sue cavità oculari, mentre con l’altra teneva abbracciato a sé il mammòcce Cesario, l’unico figlio che aveva partorito esattamente undici anni prima. E lo teneva così stretto a sé come per significare inconsciamente che era l’unico bene che le era rimasto. Che strana coincidenza – diceva gemendo la povera donna ‐, Angelo è morto lo stesso giorno incui è nato Cesario. Fuori, sulla piazzetta lastricata antistante la casa, in mezzo ad un folto nugolo di uomini e donne, vicini di casa e parenti alla lontana, che stazionavano per dare apparente ma inutile conforto alla giovane donna, già orfana ora vedova, privata di quel bene assoluto che genera la vita, si aprì uno stretto varco per far passare il prete chiamato qualche ora prima per conferire al morituro l’estrema unzione che adesso sarebbe risultata inutile. Don Spiridione era quel prete, nominato parroco della vicina chiesa dell’Annunziata restaurata da poco, dopo un abbandono che, per circa un decennio, in seguito ai dissidi tra Stato pontificio e il recente Regno italiano, conseguenti all’unificazione d’Italia, le infiltrazioni d’acqua avevano resa impraticabile. Il considerevole ritardo di don Spiridione al capezzale dell’ormai defunto Angelo era dipeso dal fatto che aveva conferito non solo l’estrema unzione a tal Pomponio, un nobile signore romano di passaggio a Terracina, morto di infarto mentre era ospite a casa di amici di sangue blu ma, costretto dagli eventi, aveva dovuto celebrargli anche il funerale. Succede che i signori abbiano spesso la meglio sulla povera gente, anche quando muoiono. ‐ Mi sono fatto imprestare un asino per arrivare il prima possibile, ma quella bestiaccia non aveva voglia di correre, poi s’è fatto buio e per questo non sono riuscito ad essere puntuale. Non so come rimediare ma, dopo il funerale, nei prossimi giorni non appena si rimette da questo suo grande dolore venga a trovarmi in chiesa per qualunque bisogno ‐, esclamò, rivolgendosi alla vedova, il prete dispiaciuto per l’episodio irrimediabile e ancora ansimante per la greve inutile corsa. Fino ad allora Teresa non aveva avuto occasione di conoscere il nuovo parroco, arrivato da pochi giorni in parrocchia. Dovendo assistere il marito sofferente di malaria, una malattia nefasta che già aveva fatto diversi morti in paese per la vicinanza della putrida palude pontina infestata dalla zanzara anofele portatrice del plasmodio falciparum, Teresa non era andata mai a messa, neppure a quella del vespro, né a ripetere il quotidiano rosario. La morte del marito e l’inconsueta situazione che aveva messo il prete in debito nei suoi confronti, le avevano consentito in seguito di instaurare con questi un rapporto chiamiamolo di opportunità, o meglio di convenienza, che le avrebbe dato la possibilità sia di lavorare sia di far studiare il figlio. Quella era, forse, l’unica eredità che suo marito Angelo inconsapevolmente morendo le aveva lasciato. Non èdetto che l’eredità debba essere soltanto materiale!
Don Spiridione l’avrebbe aiutata sicuramente. Ne era sicura. Altrimenti i preti che ci stanno a fare? – Pensava Teresa.
Piovigginava quel giorno in cui Teresa decise di andare a trovare don Spiridione in sacrestia. Già era trascorso un mese esatto dalla dipartita del marito. La donna assieme al suo mammòcce si coprì con il mantello per ripararsi dalla sottile pioggerellina e percorse la strada che portava all’Annunziata a passo svelto, mentre dodici tocchi della bronzea campana segnavano già mezzogiorno. Teresa bussò alla porta della sacrestia che dopo qualche istante si aprì lentamente con uno scricchiolamento stridente, dissonante, fastidioso, quasi insopportabile all’udito. Apparve sull’uscio don Spiridione, persona dal corpo esile, dalla folta capigliatura e dalla lunga canuta barba incolta, che con i suoi occhiali spessi proiettò il suo sguardo fuori come un’antenna a guisa di una lumaca.
‐ Gesù Cristo sia lodato! – Salutò Teresa nel vederlo apparire.
‐ Sia sempre lodato! ‐ Rispose il prelato che indietreggiò per fare accomodare gli ospiti.
‐ Ho portato anche mio figlio Cesario, per farglielo conoscere ‐, disse timidamente la donna.
Salve mammòcce, sei abbastanza sviluppato per l’età che hai e sei anche bello ‐, esclamò don Spiridione accarezzandolo soavemente con ambedue le mani sul viso. Cesario diventò subito rosso in viso per l’imbarazzo, retrocedendo per istinto come se volesse respingere quell’inconsueta bizzarra carezza. In quello stesso momento, il prelato fu colto da un tic nervoso che gli fece ruotare il capo verso sinistra e scorrere il labbro superiore in senso opposto a quello inferiore. Sarà stato l’apparire di Teresa, donna piacente, snella, dai capelli neri e dalle orbite oculari in cui si incuneavano, come due pietre preziose in un gioiello, due occhi azzurri dal color del cielo, con un portamento gentile e aggraziato anche se appariva sciupata e deperita sia per il dispiacere che le avevano procurato la malattia e la morte improvvisa del marito, sia per la preoccupazione di rimanere adesso povera, oppure sarà stata la carezza che aveva gratuitamente elargito al mammòcce a causare a don Spiridione quel tic dall’effetto claunesco?
‐ Ha preso tutto da mio marito Angelo! – Confermò Teresa, la quale, dopo un attimo di pausa,mentre il suo viso era diventato quasi paonazzo per la timidezza dovuta alla richiesta che stava per avanzare, disse con gli occhi che le si riempivano di umore: ‐ Padre, si ricorda di me, vero?
‐ Certo che mi ricordo di te, figliola, e come mi posso dimenticare di quel funesto giorno così estenuante? – Confermò il prete che aggiunse: ‐ In che cosa le posso essere utile?‐ Mi deve aiutare, sono disperata! Non ho più soldi e non so come tirare a campare. Se non fosse per questo mammòcce non so cosa farei. A volte mi è venuta la voglia di recarmi sul monte sant’Angelo e buttarmi giù dal dirupo per la disperazione –, confessò Teresa.
‐ Non faccia questi discorsi che non sono di una donna credente. Bisogna affidarsi alla speranza e avere fiducia in Dio. E poi noi che ci stiamo a fare? Mi dica, cara Teresa –, disse con tono rassicurante e condiscendente don Spiridione.
‐ Ho bisogno di lavorare perché mio marito faticava nei campi alla giornata e ora, che non c’è più, possiedo solo la casa in cui abito. Poi, vorrei realizzare il desiderio di Angelo, il mio povero marito, che voleva che questo mammòcce studiasse ‐, chiese un po’ impacciata Teresa.Don Spiridione divenne pensieroso, cupo, il suo volto si oscurò all’improvviso mentre con una mano formò una celletta su cui pose il mento barbuto, ma altrettanto all’improvviso gli si illuminò, cosicché Teresa che lo aveva guardato fissandolo per tutto il tempo passò parallelamente dallo sconforto alla gioia. Sul suo volto un velo di letizia prese quindi il posto della repentina cupezza che per un attimo l’aveva coperto.
‐ Ho bisogno di una perpetua e se le sta bene può iniziare da subito, anzi da domani, mentre per il mammòcce ho pensato di insegnargli il latino per farlo entrare in Seminario, dove avrà scuola, vitto e alloggio gratuitamente. Se poi sentirà la vocazione si farà prete –, disse in un sol fiato il prelato.
Una proposta allettante e molto generosa. Era un miracolo per Teresa. Aveva sofferto tanto, e adesso quella sofferenza le si stava tramutando in appagamento, contentezza, esultanza. Adesso aveva tutta la vita dinnanzi a sé, lei che aveva pensato di suicidarsi. Adesso apprezzava la vita. Adesso poteva ritenersi felice. Adesso poteva pensare all’avvenire del suo adorato mammòcce.
‐ Grazie, don Spiridione, lei è un santo e il padreterno, che l’ha mandato apposta in questa parrocchia per farmi un tale miracolo, l’abbia in gloria eterna. Accetto la sua proposta prodiga e magnanima a condizione, però, che la sera dopo cena io vada a dormire con il mammòcce a casa mia. Ancora non mi sono abituata alla mancanza di mio marito che amavo tanto, e in quella casa respiro ancora il suo respiro, sento tuttora il suo calore, in più ascolto la sua voce e avverto, inoltre, a fior di pelle l’amore che mi dava quando mi guardava o mi accarezzava ‐, esclamò felice Teresa.
‐ Noto che amavi molto tuo marito e questo mi fa piacere…. Sì, puoi andare a dormire a casa tua. Non c’è alcun problema per questo, cara Teresa. Puoi fare le cose che ritieni opportuno fare ma mi devi assicurare la pulizia della sacrestia, far da mangiare durante il giorno e lavare i panni sporchi. Come vedi qui c’è solo questa stanza, uno sgabuzzino e la cucina e non saprei dove farti dormire. Né ovviamente potrei concederti il mio letto ‐, disse il prelato sarcasticamente dando alla donna del tu senza averle chiesto il permesso. In quel momento gli sopraggiunse quello strano tic nervoso identico a quello che l’aveva colto ancor prima quando aveva accarezzato il mammòcce.
Teresa non ebbe il coraggio di chiedere a don Spiridione il motivo per il quale le stesse dando del tu che lei riteneva molto confidenziale e poco appropriato. Non era lecito. E poi quel cara Teresa… . Ciò le diede da pensare per tutto il resto del giorno e della notte seguente, durante la quale non riuscì neppure a prendere sonno. Non c’era niente di strano che il parroco parlasse con una sua parrocchiana in seconda persona. Ma il modo insolito e inatteso con cui il prelato l’aveva fatto trasferì a Teresa nell’animo uno strano presentimento. Era la seconda volta che si vedevano e non c’era stato il tempo di instaurare rapporti di natura amichevole. Forse l’offerta dignitosa di lavoro e la rassicurazione di far studiare il mammòcce avevano apportato al prelato quel privilegio di cui si appropriano unilateralmente i padroni nei confronti dei loro servi, perché la perpetua altro non era che una serva.
Teresa comunque non si lagnò opportunamente perché erano prioritari sia il lavoro che il proseguimento degli studi del figlio.
‐ Ripeti la prima declinazione di rosa –, chiese don Spiridione al mammòcce.
‐ Rosa, rosae, rosae, … –, rispose senza tentennamenti Cesario, che era predisposto allo studio del latino in quanto rivelava ottime capacità logiche e razionali.
‐ Bravo! Ora declinami il plurale di rosa ‐, chiese ancora il prete che nel conferire una carezza al mammòcce fu colto da un istantaneo tic nervoso isolato.
‐ Rosae, rosarum, rosis, rosas, … ‐, disse prontamente Cesario.
‐ Bravissimo, sei un mammòcce superlativo! – Esclamò baciando il ragazzo sulla guancia don Spiridione, che questa volta però venne preso da un susseguirsi di tic nervosi che gli tolsero la facoltà di parlare per una manciata di minuti.
‐ Don Spiridione, che vi è preso? State bene? Siete diventato tutto rosso in viso che si è anche deformato! Chiamo mia madre che sta in chiesa a pregare? – Disse il mammòcce che già si era alzato dalla sedia in procinto di recarsi dalla madre.
Il prelato lo afferrò per il braccio fortemente e dopo essersi rasserenato disse: ‐ Mammòcce, non è niente. Hai visto che il tic mi è passato.
Trascorse qualche settimana e lo studio del latino andava avanti, anche se Cesario avvertiva un po’ di stanchezza in quanto le lezioni gli erano impartite a sera tarda, dopo cena, vuoi perché il parroco durante il giorno doveva dare spazio ai fedeli che venivano a confessarsi o perché doveva dire la messa o dare l’estrema unzione a qualche parrocchiano morituro o ancora celebrare i continui funerali che in quei tempi, a causa della malaria, erano diventati quotidiani.
‐ Teresa, ti devo dire una cosa importante. Cesario incomincia ad accusare stanchezza e a perdere qualche colpo. Se tu la mattina arrivassi prima del solito, potrei farlo studiare durante le prime ore del giorno cosicché la sera potrebbe andare a letto presto e riposarsi di più –, disse don Spiridione
‐ Non ce la faccio, don Spiridione! Prima di venire qua, devo finire le faccende domestiche ‐, rispose Teresa.
‐ Allora, se tu sei d’accordo, per il periodo necessario a completare lo studio della grammatica latina, Cesario può rimanere a dormire qui con me. Lo so che ti è di conforto, ma se vuoi che tuo figlio ce la faccia a superare gli esami per entrare in Seminario devi fare questo piccolo sacrificio. Si tratta solo di uno, al massimo di due mesi ‐, disse il parroco.
‐ Va bene, se si tratta al massimo di due mesi, lo posso anche fare. Devo preparare, allora, un letto nello sgabuzzino? ‐ Chiese Teresa.
‐ Non è necessario. Può dormire con me. Tanto il letto è gran… ‐, non completò la frase don Spiridione che fu colto in quel preciso istante dal solito tic fastidioso che gli deformava il viso e gli bloccava la parola.
‐ Padre, ma questo tic nervoso non potete farvelo curare? Siete andato dal medico? – Disse Teresa.
‐ Sì, sono andato e mi ha detto che non c’è niente da fare. Me lo devo tenere quando viene. Per fortuna mi prende di rado ‐, precisò don Spiridione.
‐ Questa sera, allora lascio Cesario a dormire qua, così domani ne approfitto per andare al cimitero a visitare la tomba di mio marito. È già passato un anno dalla sua dipartita ‐, precisò Teresa.
‐ Ottima decisione ‐, confermò il prete che ancora una volta fu colto stranamente dal solito tic.
Il sole s’era lasciato l’alba alle spalle già da un po’ di tempo. La giornata era serena e sgombra di nuvole. Un tepore confortante padroneggiava in tutto il circondario. Non un alito di vento. Fragranze primaverili vagolavano nell’aria. Tutto sembrava congiurare per una passeggiata salutare sul monte sant’Angelo dove imperava da più di duemila anni il tempio di Giove Anxur.
Don Spiridione e Cesario affrontarono l’ardua salita, ma arrivati su la visione che gli si presentò fu così spettacolare da ripagare la fatica affrontata. Verso sud‐ovest si vedevano le isole pontine e verso sud si intravedeva anche l’isola di Ischia.
‐ Lo sai da dove proviene la parola Anxur? – Chiese don Spiridione al mammòcce.
‐ Anxur deriva dal latino anxurus che significa fanciullo, ragazzo, adolescente ‐, rispose prontamente Cesario.
‐ Bravissimo! – Esclamò, abbracciando il mammòcce fortemente e toccandolo estesamente su tutto il corpo e in modo inconsueto, don Spiridione che colto dal solito tic dovette mollare la presa.
Cesario, sorpreso, stupito, impaurito, incominciò a correre all’impazzata. Con straordinaria energia. La discesa glielo permetteva. Corse fino al cimitero, dove era sicuro di trovare il conforto della madre, e non volle per nessun motivo mettere piede nella sagrestia della chiesa dell’Annunziata né tanto meno vedere mai più quel prete dal bizzarro tic nervoso.
Tra i parrocchiani, dopo qualche tempo, si sparse la voce che quello strano tic nervoso era conseguente alle bizzarre brame sensualmente incontrollabili di don Spiridione.
(Ogni riferimento a fatti e persone e ai nomi dei personaggi di questo racconto, frutto dell’immaginazione dell’autore, è puramente casuale)