E come limite... le Stelle!
“Da qui cominciano i ricordi: io con te dentro volo e tu mi sentirai passare. Se devi andare, vai, fai prima che puoi, no, non ti voltare. Da qui fotografo i ricordi…”
Insiste Biagio Antonacci con le sue parole, con cui, confermando il dissolversi di questo presente in un flashback, prolunga la distanza da quegli attimi che fuggono e che non si possono più vivere.
Eravamo tre. Tre frammenti di un unico puzzle che, una volta uniti, riconducevano ad una vita più simile ad un sogno che alla realtà. Non ci credevo all’amicizia tra uomini e donne, sai? Credevo che, prima o poi, uno si sarebbe innamorato dell’altro e, allora, tutto sarebbe andato distrutto. Ma ho conosciuto loro e ogni pensiero non poteva che essere smentito da una realtà che negava tali preconcetti mentali. Eppure, il presente è ricoperto di foto. Foto in cui siamo impressi tutti e tre, io nel mezzo, Stella sfavillante della luce che solo loro riuscivano a regalarmi, custodendomi come qualcosa di prezioso, nonostante quella crudele realtà mi avesse ricoperta di crepe: temevo che da lì a breve mi sarei sbriciolata come un vaso di terracotta, ma non me l’avrebbero permesso: erano lì, pronti a cogliere ogni Stella cadente, capaci di farmi rimbalzare a tal punto da ritornare lassù, al mio posto. Esistevano perché senza loro, io non avrei potuto farcela!
L’avrai capito ormai, il mio nome è Stella. Dicevano che ispira fascino, femminilità, delicatezza. Io non l’ho mai vista così, mi puzza di egocentrismo e presunzione. Il nome è un marchio che ti porti per tutta la vita, ti racconta con un solo termine. Stella non mi rappresenta. I miei genitori avranno voluto rendermi irraggiungibile, proteggermi da tutto e da tutti, questo posso anche capirlo, ma i mille “ma” persistono. Con chi comprendeva questa mia paranoia, c’abbiamo spesso ironizzato su e volevano diventare “Stelle” anche loro. Che buffi! Alessandro e Stefano.
Ora comincio, dai, parto dall’inizio o, forse, da metà, ma non dalla fine. Mi fa paura pensare che ci sia un termine ad ogni cosa: la odio nei film, nella vita reale non oso immaginare quanto potrebbe risultare straziante. Morfeo s’era impossessato di me per quasi sei mesi, un sonno profondo giunto come per magia, una magia nera, atroce e feroce. Neppure allora m’hanno lasciato sola, quando tutto sembrava perso e si credeva che non ci sarebbe mai più stato un mio risveglio. Poi, in una notte come tutte le altre, ma solo apparentemente, dentro me è avvenuto qualcosa. Non so spiegare cosa o come fosse, so che, da allora, ho ricominciato tutto da capo e, come per miracolo, di quella dormita, gli unici segni che portavo erano psicologici: i miei occhi hanno rivisto la luce e, dopo mesi di nero totale, una scritta azzurra come il cielo mattutino tingeva il muro di fronte alla finestra della mia stanza, sincera e sicura, orgogliosa e fiera di sé: “E come limite…le Stelle!”
Un altro ostacolo superato grazie alla loro presenza, costanza, al continuo raccontarsi e raccontarmi anche se, da parte mia, non notavano risposte, ma non hanno mollato. Io credevo che la mia vita non avrebbe più avuto senso: non è semplice a diciannove anni svanire nel nulla e ritornare così, nel buio di una notte che la speranza dei tuoi occhi non sa come affrontare. Poi, passo dopo passo, accompagnata da quegli abbracci da cui mi sono lasciata trasportare, ho ripreso a camminare e, insieme, siamo andati avanti: ci aspettavano nuove difficoltà. Ricordo che una di quelle si chiamava Marika, una tipa strana che si era fidanzata con Ale: lui dolce e tenero, dalla battuta sempre pronta, lui che aveva il sole dipinto sul volto, in quel periodo non esisteva più, intrappolato in una relazione di pochi mesi che, a me, sono sembrati un’eternità. Era diventato succube di Marika, viveva in funzione di ogni suo gesto, intrappolato nella sua ombra. Lei gli impediva di vederci o sentirci e lui, lui l’amava e, allora, mi sono messa da parte, ma quella situazione non la sopportavo, era troppo. Poi, anche lui si è svegliato da quell’assopimento, ha mollato una storia utile solo a crescere per evitare determinati errori in futuro e, finalmente, dopo tanto tempo, è tornato in sé: il suo sorriso non era ancora pieno come il mio, ma quella sofferenza si sarebbe affievolita col vento e il tempo: insieme avremmo trovato la forza per raggiungere il sole presente all’orizzonte. E, poi, Stefano, lui e la sua bellezza travolgente, le sue ammiratrici segrete e non, le sue storie da una notte e poi basta. Quante volte avrò provato a fargli cambiare idea, quante? Lui e le sue strane filosofie di vita, lui e il suo carattere possessivo, geloso di me, quasi come un fratello maggiore ma, prima di tutto, grande amico, custode di una Stella che non avrebbe fatto inciampare tra le grinfie di chi la pensava come lui. Per una storia finita male, un amore non ricambiato e tenuto sul filo di un rasoio per anni e anni, aveva deciso che avrebbe trattato come uno zerbino qualunque ragazza gli si fosse avvicinata, ripagandola con la stessa moneta con cui era stato barattato in precedenza. Stupide reazioni, inutili, eppure ci credeva. Ma non ne posso più, non mi va di esprimermi al passato, perdonami, li sento ancora, sono qui, sono presenti. E al presente coniugherò il verbo che ne parlerà.
Ritorno ad un altro giorno, sono passate tre settimane da allora, ventuno inutili e stupidi giorni, ma sembra ieri. Mantengo la promessa, quel che sembra ieri, lo tramuto in oggi. È sabato sera, la fine di una settimana, l’inizio di un’altra. Abbiamo deciso di uscire, noi tre, soli, alla ricerca del mondo, di un universo che, relativamente, davvero conquisteremo. Mi vesto, aggiungo un po’ di trucco in viso tentando la perfezione, ma più provo ad avvicinarmi, più temo si stia allontanando da me, allora lascio tutto al naturale, non mi nascondo dietro una maschera, non riuscirei a calzarla adeguatamente. Un colpo di clacson mi riporta al presente, quindi mi sbrigo, metto le scarpe, prendo la borsa e mi travolgo giù. Salgo in macchina e ritrovo i miei due grandi uomini, belli come sempre, forse più che mai. Mi faccio trasportare da quella presenza magica, non chiedo nulla, lascio decidere cosa fare e dove andare: qualsiasi cosa sceglieranno, starò benissimo. A suon di musica, girovaghiamo alla ricerca di chissà cosa, come se, in quella C3 azzurrina, non avessimo già tutto! Troviamo un locale carino e optiamo per una pizza che, unita a due chiacchiere tra amici, confidenze, pettegolezzi, consigli improvvisati o meno, costruiscono la nostra serata. Visitiamo un pub, ma prediligiamo quattro passi sul lungomare, circondati dalla tranquillità, da un sapore che non sarà più lo stesso. Si fa presto tardi, che strano gioco di parole! Torniamo in macchina prefissandoci come meta le nostre case: la strada è lunga, ma non è da noi perderci d’animo. Mi arriva un messaggio, cerco il cellulare in borsa e leggo, poi alzo lo sguardo. Non vedo più niente, nulla, se non una luce accecante che m’impedisce di capire. Un faro negli occhi ci abbaglia e poi uno scontro, un fracasso terribile, un rumore atroce. Vuoto, vuoto totale, più buio della pece. La macchina si trita dentro sé. Io mi sento stringere, non so da cosa, ma sento e, se sento, significa che ci sono, anche se intrappolata, ma ci sono. Chiamo loro. Stefano. Alessandro. Niente. Non un sussurro, non un respiro. Silenzio. E in quel silenzio sprofondo. Recupero il cellulare, chiamo aiuto e, presto, un sostegno viene a prestarci soccorso. Ci tirano fuori da quella maledetta C3. Guardo i miei amici, li abbraccio, li stringo, ma non una risposta, non un gesto, niente di niente. E io non posso crederci, io non voglio crederci. Non devo crederci. Continuo a fissarle, quelle due anime e la mia si frantuma. Mi volto verso i medici che, come in risposta ad una domanda immaginata, scuotono la testa. Scuotono la testa e i miei due amici non ci sono più. Sanguinanti, graffiati, feriti. Gli occhi miei, pieni di lacrime, rigettano al mondo un urlo disperato, straziato da un dolore che non riescono a sopportare. Cado a terra con la testa fra le mani sporche d’impotenza, arrabbiata con l’universo, con la stupidità umana di un deficiente che ha passato la sera ad ubriacarsi e poi s’è messo alla guida. E ora è lì, senza un graffio, intontito si rigira su se stesso e sorride illuminato da quelle sirene che continuano a suonare. Per colpa sua, Alessandro e Stefano hanno perso la vita e chissà quanti, dopo di loro, si troveranno nella stessa situazione. La giustizia punisce, ma non li farà tornare indietro. E allora? Allora chi me li restituirà? Chi? Alzo gli occhi al cielo, prego quel Signore grande perché sia tutto un incubo. Ma l’unica risposta che mi dà è una luce, una luce divisa in due. Due stelle che brillano più di tutte le altre.