E dietro la corda, la neve
Sono nato in un quartiere felice. E non solo; ho cambiato tre volte casa, nei miei primi dieci anni di vita, e sempre nella stessa via. Nato e cresciuto in un quartiere felice. Lì ho vissuto le prime crocifissioni: i primi amori, le prime amicizie, i primi giochi di sesso. La nebbia che avvolgeva la città, lassù sul nostro cucuzzolo non arrivava quasi mai. E quando, quelle rare sere d’autunno, decideva di velare anche le nostre notti, significava che la città era cieca e perduta.
I ragazzi che vivevano nel quartiere avevano tre sorrisi per bocca e un seno gigantesco al quale attaccarsi in caso di bisogno: il boschetto. Quel piccolo nido ci nascondeva agli occhi dei grandi, almeno secondo le nostre illusioni; ci preservava dalla vita vera, ci proteggeva da ogni sorta di pericolo. Andavamo al boschetto per giocare a nascondino, per costruire capanni o campi di pallavolo, per il gioco della bottiglia, di obbligo o verità, per dare i primi baci alle ragazze o semplicemente per sbirciarli.
Eravamo una bella combriccola, variopinta come solo i gruppi di bambini sanno essere. C’era Monica, il mio primo grande amore – occhi neri, capelli scuri e un caratterino da piccola bastarda che mi stuzzicava molto. Volevo essere il capo, io, e lei era l’unica a tenermi testa. Ovviamente era femmina, come dare credito a tale raffronto! Quindi le rare vittorie che conquistava erano senz’altro dovute al fascino indiscutibile che le donne posseggono fin da lattanti – questo era il mio indistruttibile pensiero! Ma Monica era molto più di una ragazzina forte e cocciuta. Era una chimera e il suo odore fresco di donna, fu il primo crampo allo stomaco della mia pubertà.
Massimo era il più grosso di noi: una corazzata d’acciaio che niente poteva abbattere. Prendeva il suo palmo gigantesco e te lo rovesciava sulla schiena fino a farti venire le lacrime agli occhi. Ma, come sempre accade, quella forza sovrumana andava a braccetto con una dolcezza senza fine. Massimo si prendeva a cuore tutto, fingeva di fottersene è ovvio – mica era una checca – ma nel suo cantuccio, lo vedevi assorto e pensieroso, che rimuginava su ogni cosa.
Poi c’erano Bianca e Bernardo, fratello e sorella; lei dolce, timida e grassottella, lui dolce, timido e grassottello. Adesso sono entrambi acidi, sfrontati e magri come un grissino: potere di un’adolescenza frustrata. Poi ecco Manilo e Diego, anch’essi fratelli, gemelli per la precisione. Due pesti da manicomio, la vera dinamo del gruppo. Quando succedeva qualcosa nel quartiere, potevi stare certo che c’erano loro di mezzo. La madre, una professoressa dalla voce super ‐ acuta, doveva sgolarsi per minuti infiniti dalla terrazza della loro abitazione, per richiamarli a casa nelle sere d’estate. Ma loro, ovvio, fingevano di non sentire e solo la discesa funesta della madre, incazzata fino al parossismo, poteva costringerli al rientro.
Al loro fianco c’erano tutti gli altri: il Ciompi, Pelè, Alberello, Maura la dinosaura, Eli, Beatrice – le tette più grosse di tutto il quartiere ‐ e naturalmente mio fratello Marco. Altri special ‐ guests si univano ogni tanto, ma quella era la formazione titolare del nostro boschetto.
Quel quartiere rialzato, formato da una strada a sfondo chiuso, una piazzetta dove il tram poteva fare manovra e tornarsene da dove era venuto, e un piccolo bosco, è stato il nostro mondo incantato per dieci anni o forse più. Bastava una palla e il casottino alla fermata del tram come porta. Oppure un salto al Palazzo Diavoli dove si diceva aleggiasse lo spirito di un uomo malvagio. O ancora gli ulivi coi loro frutti acerbi e duri e qualche macchina di passaggio nella strada su cui riversarli per poi scappare a gambe levate. C’era Lucia, l’alimentarista, dove andavamo sempre a rubare cioccolate e coca ‐ cola; Irma, la vecchia fruttivendola, proprio lì accanto, che ci vedeva fuggire via con le tasche piene e le bocche larghe di sorriso. Tanto Lucia dormiva e non capiva niente! C’erano le ringhiere su cui nell’inverno del 1988, Massimo lasciò parte del braccio – a cui dovettero cucire sessantaquattro punti di sutura – e i cantucci nascosti nei quali toccarsi, i cassonetti nei quali infilare i gatti e lucertole a volontà, senza contare i mille posti in cui rintanarsi nelle partite a nascondino. Insomma sul cucuzzolo di Palazzo Diavoli, c’era un cosmo intero.
La mattina che iniziò a nevicare sembrava una mattina come tutte le altre. Avrò avuto dieci, forse undici anni. L’ultima grande nevicata era stata nel 1985, cinque o sei anni prima. Ma era qualche giorno che alla televisione il meteo preannunciava neve a camionate nella Toscana – fino ai bassi rilievi e le colline del senese. Tutti noi ragazzi, quindi, ci alzavamo la mattina presto con l’ansia di guardare fuori dalla finestra e trovare il mondo tutto imbiancato.
Anche quel mattino, mi ero alzato presto, ma della neve nessuna traccia. Così mi sdraiai sul divano in salotto per vedere i soliti telefilm alla tv, istituzioni della mia infanzia come Chips, Bo & Luke, Mc Gyver e l’A ‐ Team. Avevo fatto colazione, aperto e chiuso di scatto i libri dei compiti per le vacanze natalizie. Tutto nella buona routine vacanziera insomma.
Marco dormiva alla grande nel lettino accanto al mio. Mi diressi senza fallo in camera, alzai la serranda e gli ordinai di scendere da letto all’istante. Risposta agghiacciata di Marco, subitanea incazzatura da fratello maggiore irrispettato, parolaccia di convenienza del piccolo e cazzotto atomico del grande: la solita mattina in casa Francini. Marco chiamava allora babbo a lavoro, mamma allo studio e mi prenotava schiaffi per il primo pomeriggio. Così, prendevo il computer che i nostri ci nascondevano prima di andare a lavoro e giocavamo fino alle una. Rinascondevamo il computer e aspettavamo il rientro a pranzo di nostro padre. Tutto secondo le regole.
Ma nel pomeriggio successe qualcosa che turbò le nostre anime per molto tempo a venire.
Erano le tre, il sole aveva lasciato il posto a dei nuvoloni bianchi e rosa: un perfetto cielo a neve. L’aria era fredda e pungente. I vetri della porta ‐ finestra in cucina, erano appannati. Alla tv Paolo Bonolis, Manuela e Uan intrattenevano i ragazzi fra un cartone e l’altro. Bim bum bam era un appuntamento fisso per noi, con quei super cartoni giapponesi, come Holly & Benji o Mila & Shiro. Marco girava la cioccolata che avevo da poco preparato. Andai al bagno e da fuori sentii un urlo, poi un altro e un altro ancora. Spalancai la finestra e vidi una ragazza camminare per la strada a zig zag. Si fermava e poi ripartiva, tornava indietro e di nuovo avanti fino al boschetto. Dava un’occhiata fra gli alberi immobili e ripartiva verso casa. Chiamava qualcuno, un uomo, che poi si venne a sapere essere il nonno. Chiusi la finestra e me ne tornai in cucina. Marco rideva per qualche battuta di Uan, il pupazzo rosa. Presi la tazza vuota e la infilai nel lavello.
‐ Cosa c’è di tanto buffo? ‐ chiesi con aria inquisitoria.
I rapporti fra mio fratello e me sono sempre stati difficili, almeno fino a quando non abbiamo compiuto vent’anni e lui ha lasciato casa per giocare a pallone. Ma da piccoli, da ragazzi, passavamo la convivenza fra tensioni, scazzottate e litigate furibonde. Fratelli coltelli.
Marco mi guardò sorpreso, poi mi disse che Uan si era rovesciato un bicchiere d’acqua addosso e aveva poi tentato di succhiarselo via dalla maglietta con una cannuccia.
‐ Bella cazzata! ‐ esclamai io, tanto per rompergli le palle.
Da fuori giunse ancora un urlo. La ragazza gridava come un’ossessa: “Nonno, nonno, nonnoooo”, ma il nonno non rispondeva. Dissi a Marco di vestirsi e di corsa uscimmo fuori. Era freddo, ma un freddo sano, senza umidità e in qualche modo immobile. L’aria era quieta, il vento fermo e le nuvole pietre di fumo. Salimmo su, verso il boschetto e ci fermammo in cima alla salita di casa. Massimo e Monica se ne stavano seduti sopra il muretto che costeggia il boschetto, mentre i gemellini facevano la spola tra loro due e il cassonetto. Ci sedemmo accanto ai due sul muretto di pietra e gli chiedemmo spiegazioni.
‐ È la signora di Via Bandini. Sta cercando il nonno, ma non riesce a trovarlo. ‐ mi rispose Monica con professionalità.
‐ È arrivata adesso anche la madre. È quella laggiù col golf rosso. ‐ aggiunse Massimo, indicandoci una donna grassa e affannata che si teneva stretta la sciarpa al collo.
‐ E lo cercano qui? ‐ chiesi
‐ Dove vuoi che lo cerchino? ‐ Monica scosse il capo prima di continuare. ‐ È un nonno, è vecchio, non può essersi allontanato tanto, no?! ‐ Monica, quanto ti amo…
‐ Magari è andato a fare una passeggiata. ‐ la buttai là per difendermi un po’.
‐ Si, ma sarebbe dovuto rientrare un’ora fa, il coglione. ‐ era Diego, il gemellino. –Adesso sarà congelato e passerà tutta la notte fuori. E loro ‐ disse minacciando col dito le parenti –loro staranno fuori a cercarlo, tutta la notte e non lo troveranno mai. ‐
‐ Stai zitto, scemo! ‐ disse Massimo piantandogli un ceffone fra capo e collo da far paura a un bue.
‐ Ma chi è il nonno? ‐ chiesi. Ero disinformato e questo mi seccava.
‐ Non lo so… ‐
‐ Neanch’io… ‐
Tirai un sospiro di sollievo.
L’aria si era fatta più scura adesso. La brezza si era fermata del tutto e le nuvole sembravano più basse. Bianca e Bernardo giunsero in quel momento. Vollero sapere tutto e la scena si ripeté, solo che questa volta volli raccontare tutto io. Finito il riassunto, Monica propose di fare un giro su per il boschetto. –Anche perché, mi sa che tra poco piove… ‐ disse scrutando l’orizzonte. Salimmo la piccola salita che porta agli alberi e ci infilammo nel piccolo bosco.
Non so chi fu il primo a vederlo. –Porca puttana, che cazzo è quello? ‐ esclamò Diego indicando qualcosa sotto lo scivolo di ferro. Una forma vaga oscillava lentamente fra lo scivolo e la scala per salirvi, ma la luce era così fioca che non riuscivamo a veder bene cosa fosse. Ci avvicinammo piano. L’aria era immobile. La luce oscurata dagli alberi. Il silenzio ovunque. Potevo sentire i nostri passi avvicinarsi piano allo scivolo. ‐ Porca puttana, che cazzo è quello? ‐ questa volta era Manilo, empatia da gemelli.
Ancora due passi, gli occhi sbarrati e i respiri all’unisono; adesso il corpo era ben visibile. Un uomo dai capelli bianchi, marmoreo come un giglio ciondolava senza vita da una corda legata attorno alla piattaforma dello scivolo. Oscillava come un sacco di patate, inerte e silenzioso. Rimanemmo tutti quanti impietriti. Non so quanti secondi passarono prima che qualcuno mormorasse a denti stretti: ‐ È il nonno… è il nonno della signora! ‐
Allora corremmo tutti giù per la strada, gridando come matti. La signora ci venne incontro correndo e agitando le braccia, con la madre al seguito sempre ancorata alla sua sciarpa.
‐ È lassù ‐ dissi mangiandomi le parole in bocca ‐ È lassù. ‐
La signora mi fissò un attimo stranita e poi scappò verso l’antro del boschetto. Solo un attimo e poi un grido riecheggiò per tutto il circondario. Era il nonno.
Arrivò la polizia, un’ambulanza, anche se ormai non c’era niente da fare, e molta gente scese in strada. I genitori di Massimo e la mamma dei gemellini ci chiedevano cosa avessimo visto e noi tutti eccitati eravamo prodighi di parole e spiegazioni. E io di qua e io di là, e lui e poi e abbiamo fatto e visto e detto. Tutti avevamo visto per primo il corpo, tutti avevamo dato l’allarme, tutti avevamo pensato: “Come diavolo ha fatto a legarsi lassù?”, tutti avevamo capito, sentito, osservato, percepito… Mancavano solo gli alieni.
Marco sedeva sopra il muretto di pietra. Teneva fra le mani un filo d’erba e un fiorellino colto chissà dove. Lo girava e rigirava, fissandolo assorto. Quel fiorellino lo teneva ancorato alla felicità, certo lui non poteva saperlo, né io elaborai quel pensiero allora, ma ricordo il volto stranito e malinconico di mio fratello, la bocca aprirsi e chiudersi piano in un sussurro. E gli occhi fissi su quei petali sbiaditi. Per lui il morto dondolante sotto lo scivolino era già sepolto. Stava lì, solo e in disparte, aspettando che il fratello maggiore lo riaccompagnasse a casa: c’erano ancora i cartoni animati.
La polizia, intanto, tracciava qualche linea, chiudeva il passaggio con un nastro rosso e bianco e faceva domande alla parenti del defunto. Lasciai i miei amici e la loro compagnia e mi diressi verso il versante opposto del bosco. Salii la scarpata e m’infilai tra i cespugli ancora asciutti. Mi arrampicai ancora un po’, fino a raggiungere l’interno del boschetto e lì mi fermai. I poliziotti erano immersi nei loro rituali, così mi avvicinai allo scivolo. Gli infermieri della Misericordia avevano appena sceso il corpo del nonno e lo stavano trasportando in barella verso l’ambulanza. Aspettai che fossero spariti e mi incamminai verso lo scivolo maledetto. Avevo paura e un timore strano. Quel pezzo di ferro mi pareva sacro, soprannaturale, quasi vivo. Aveva sorretto un uomo fino alla fine della sua vita, lo aveva sostenuto nell’ultimo passo, quello fatale. C’era una panchina, proprio di fronte allo scivolo. Mi sedetti e ripresi fiato. Sentivo il mio respiro affannarsi e non riuscivo a stare calmo. Allora, alzai gli occhi verso lo scivolo e un brivido mi percorse tutta la schiena. Vidi la corda, ancora pendula sopra il terreno e oscillante nel nulla. Nuda e vuota, reggeva l’aria. Ma il terrore che mi aveva avvolto scomparve di colpo, quando una goccia leggera, mi si posò sul naso. Alzai gli occhi e guardai fra gli alberi: fu allora che iniziò a nevicare. Quella neve mi sollevò dallo sgomento. Pensai a quell’uomo morto e alla neve che adesso bagnava la terra. Che bel giorno per morire… “Ma lui che ne sa?”… Pensai che avesse sbagliato, che adesso non poteva godersi quella fresca nevicata, non poteva alzare gli occhi e sentire la fronte bagnarsi d’acqua. Pensavo alla gioia dei giochi su quel manto bianco, alle palle di neve, le corse, i pupazzi, i moon ‐ boot, gli scherzi coi ragazzi, le risa. Ma cosa può mai pensare un bambino di dieci anni davanti alla morte?
I fiocchi si erano fatti giganti, grosse gocce biancastre che non sparivano subito al contatto con la terra. La neve stava attaccando lentamente, senza far rumore, e altrettanto silenziosamente la macchina con il cadavere si era allontanata. La gente, i curiosi, rientravano in casa, fieri di aver rubato un attimo di intimità a qualche vicino estraneo. Adesso, almeno, avevano qualcosa da raccontare al compagno per cena. Erano passati una ventina di minuti e tutto stava riprendendo il suo ritmo. Niente in fondo poteva sconvolgere quel quartiere felice…
Mi alzai dalla panchina col cuore leggero. Guardai ancora il boschetto, udii le voci della gente scemare nella strada e fissai per l’ultima volta quella corda tutta sdrucita.
E dietro la corda, la neve.
Siena, 5 settembre 2007