E tutto intorno era vita
Il fontanile dove quella notte aveva deciso di pescare, distante chilometri dalla sua cascina della bassa, versava ormai in uno stato d’abbandono; le tinozze in legno che cingevano le polle erano mezze marce e l’acqua, soffocata dalle erbacce, a fatica trovava una via d’uscita.
Subito dopo la testa del fontanile, alcuni metri sotto il piano campagna, si snodava il gelido corso della roggia; i rami degli arbusti piantati sui bordi delle rive inclinate s’incrociavano al centro, disegnando una volta.
Camminando nell’acqua si aveva l’impressione di stare in un tunnel; nelle giornate estive, di calure insopportabili e raggi di sole come morsi di luce, quel cono d’ombra metteva in mostra tutta la sua istintiva vitalità, la sua vergine e spregiudicata bellezza, regalando ai visitatori umori positivi, orgasmi di freschezza.
Ben altre sensazioni, dopo il tramonto, avvolgevano le persone che lì osavano avventurarsi; nel buio della notte ogni fruscio lungo le rive, nell’acqua o tra le fronde degli alberi liberava paure e disegnava mostri.
Berto quella sera si era allontanato dai fontanili a lui ben noti perché in quelle sorgive, di pesci, a parte qualche ghiozzo o scazzone, non c’era più traccia.
Colpa di un suo compaesano che aveva deciso di lavorare senza fare fatica; sì perché pescare di notte con la fiocina in una mano e la lampada al carburo nell’altra, stare per ore nell’acqua e camminarci fino a non sentire più le gambe era proprio un lavoro, e di quelli pesanti.
Molto più semplice buttarci una bomba e poi raccogliere i pesci che storditi venivano a galla.
Era andata avanti un bel po’ quella storia, ufficialmente in paese nessuno sapeva chi fosse la persona responsabile del misfatto; ufficialmente, perché per dire la verità un più che sospettato c’era: il padre del Giuanì.
Giovanni, detto Giuanì, con un corpo sano e la testa deformata, era l’ultimo dei figli di quell’uomo; tra tutti l’unico nato in ospedale e staccato dal ventre di sua madre con le pinze.
I genitori avevano deciso di non mandarlo al Cottolengo e se l’erano cresciuto armandosi di tanta pazienza.
Giuanì aveva un legame particolare con il padre; da quando poi il genitore era andato in pensione, il ragazzo stava perennemente attaccato a lui.
Insieme al circolo, a messa, nell’orto, in casa, di giorno e anche di notte: quando lasciava il suo letto e andava in mezzo a quello dei genitori.
In paese Giuanì era più stimato del sindaco; di tutti ricordava nome e sopranome, e a tutti regalava saluti, abbracci, buon umore, senza fare promesse e chiedere voti: né per soldi né per altro, solo per istintivo amore del prossimo.
Negli ultimi mesi però il ragazzo era cambiato e si comportava in un modo strano.
Per esempio quando passava davanti all’emporio del paese, uno stambugio in cui si poteva trovare di tutto, foriero di novità commerciali, e che proprio in quel periodo aveva esposto un’ampolla con alcuni pesciolini rossi, lui fissava l’acquario artigianale e subito dopo ripeteva sempre la stessa frase:
‐I pesci, i pesci pimm!
Non ci volle molto in paese a fare due più due, ma nessuno ebbe il coraggio di andare dai carabinieri a raccontare l’evidente verità.
C’erano ben altri problemi a cui pensare e non era il caso di mettere in scena una guerra tra morti di fame; e poi il padre del Giuanì era stato un eroe della Resistenza, anche se non la diceva giusta quando sosteneva di aver riconsegnato gli strumenti di guerra.
Del resto dopo il 25 aprile il proclama non era stato chiaro: diceva di riconsegnare le armi, mica le bombe.
Rimase un segreto corale, ma nel frattempo qualcuno del partito fece capire a quell’uomo che la doveva smettere di andare in giro a lanciare bombe, mettendo a rischio la vita sua e soprattutto quella del Giuanì, che già non era delle migliori.
Il danno però era ormai irreversibile: a contarli c’erano più pesci nell’acquario dell’emporio che nei fontanili del circondario.
Berto era stufo di quella vita, per diversi mesi dell’anno era più il tempo che passava in acqua che fuori, e per di più sempre di notte: quando non era nei fontanili era in campagna, ad aprire e chiudere le paratie dei vari canali di irrigazione dei campi.
La lampada al carburo continuava a spegnersi, l’acqua era gelida e l’erba, che credendosi riso vi cresceva rigogliosa, rallentava il passo e rendeva incerta e barcollante l’andatura.
A un certo punto, nel vano tentativo di recuperare stabilità, mise il piede sul legno del tino che circondava la polla, ma quello si ruppe e lui cadde malamente all’interno della pozza profonda e invasa dalle alghe.
Gli sembrò di morire, cattivi pensieri passarono nella sua testa in quei secondi, ma l’istinto di sopravvivenza e una buona dose di fortuna lo salvarono.
Uscì di corsa dall’acqua e raggiunto il piano campagna prese una decisione che avrebbe cambiato lo scorrere della sua vita.
Un mese dopo, con famiglia al seguito, lasciò la cascina, la folgorante carriera di bracciante e andò ad abitare in una zona di collina, dove prese in gestione un frutteto; mise così fine a quell’esistenza d’acqua.
Ma il giorno che cambiò frontiera non se la sentì di abbandonare la fiocina e la lampada al carburo.
Per il lavoro che l’aspettava quei due arnesi non servivano più, ma avrebbe sempre potuto mostrarli con orgoglio ai figli, agli amici, raccontare della bellezza dei fontanili, dove l’acqua come per magia sgorgava limpida e fresca e tutto intorno era vita.
Narrare,magari moltiplicando un po’, delle tante pesche miracolose e di piatti succulenti da far venire l’acquolina in bocca: zuppa di rane, tinche ripiene al forno con polenta, luccio lessato e insaporito con salsa, anguille alla graticola.
Raccontare di quella maledetta sera in cui rischiò di annegare.
E poi ancora del Giuanì e di pesci che volavano in aria per colpa di un pescatore bombarolo, che tutti in paese conoscevano.
Tutti … tranne il maresciallo.