Enrico Toti
(Roma, 20 agosto 1882 ‐ Monfalcone, 6 agosto 1916)
Le Alpi, questo maestoso spettacolo della natura, questo baluardo che ci ripara dai freddi venti del nord e che, in teoria, ci avrebbe dovuto salvare dalle invasioni.
L'abbagliante candore del Bianco è così forte che sono costretta a socchiudere gli occhi, mentre la gente intorno a me si affretta verso la funivia, imbacuccata nelle tute a vento, simili a variopinti pinguini e abbasso lo sguardo per scrutarmi: anch'io sembro un pinguino e la cosa mi fa sorridere divertita.
Un rapace, che non riconosco a causa del riverbero provocato dalla neve, sfreccia nel cielo terso, emettendo un acuto che rimbomba nella vallata e che richiama la mia totale attenzione. È spettacolare.
Alcuni turisti di lingua tedesca scherzano, con le gote rosse che spiccano sulla pelle candida, i capelli chiari come oro e gli occhi azzurri come il cielo e sto per unirmi a loro, quando qualcuno mi afferra saldamente per un braccio trattenendomi. Inghiottisco l'urlo di spavento che mi è salito in gola e mi giro di scatto, rimanendo a fissarlo con occhi sgranati. Una rapidissima occhiata alla sua sola gamba destra mi fa deglutire e rimango a fissarlo incantata.
«Ora non fanno più paura, vero?» esordisce con forte accento romano.
Ammicca ai ragazzi teutonici ed io scuoto la testa, rendendomi conto che sono emozionatissima. Il mio respiro è corto, il cuore mi galoppa indemoniato dinanzi a questo giovane minuto, dai baffoni spioventi e dal naso pronunciato.
«Enrico Toti.» sussurro, ancora incredula.
Accenna un impercettibile inchino e guardo la sua famosissima gruccia che lo sorregge.
«Ma tu ti fidi di loro?» domanda.
Capisco che si sta riferendo ai turisti e con naturalezza rispondo:
«Sì, mi fido. Non è più come una volta, credimi.»
Esita, poco convinto, e continua:
«Eccellenti soldati. Veri guerrieri. È stato duro combatterli, lasciatelo dire da chi li ha visti in opera con i propri occhi: vere macchine belligeranti.»
«Oh, ma loro non sono più…»
«Le hai viste le loro trincee? Le loro, non le nostre o quelle francesi.» ribadisce. «Erano in grado di scavare trincee corredate di tutto, persino di brande comode, in metà del tempo che occorreva a noi o ai nostri alleati. Non ho mai visto trincee simili. Veri e propri baluardi invalicabili.»
Annuisce mentre parla, gli occhi al cielo, persi in un ricordo lontano nel tempo che noi, sebbene vicini all'epoca, non riusciamo a percepire nella sua piena crudezza.
Posso solo provare a immaginare i nuovi italiani, coloro che dal 1870 facevano parte dell'Italia unificata, questi giovani che, di punto in bianco, si sono visti crollare i confini tra una regione e l'altra, i sardi venuti a stretto contatto con i pugliesi, i toscani, i veneziani, i romani e non più pugliesi, romani o sardi, bensì italiani con tanto di patria, di inno nazionale, in tutto e per tutto uguali agli inglesi, ai francesi, agli austriaci, ai russi.
«Mio Dio! Quale periodo di sublime abnegazione per il raggiungimento di un alto ideale.» sussurro mio malgrado stregata.
[gototi] «Puoi dirlo forte, ragazza!» esclama con gagliardo orgoglio.
Un secondo dopo lo vedo rabbuiarsi e si china un po' in avanti, per sussurrare:
«E pensare che oggi qualcuno vorrebbe che l'Italia si dividesse nuovamente! Ma ti rendi conto?»
Posso capire benissimo lo sdegno di chi, come lui, ha donato la vita per l'Italia e mi domando cosa ne pensa dell'Italia attuale. Meglio sorvolare.
«Tu sei di Roma, vero?» indago.
«Roma, sì, l'ultima a essere annessa al regno, grazie ai valorosi bersaglieri.»
Gli brillano gli occhi e ne approfitto per chiedere:
«È per questo che ti sei arruolato nei bersaglieri, nonostante la menomazione?»
«Certo! Bersaglieri in bicicletta. Be',» ammette con una certa riluttanza, «ho dovuto insistere un po'.»
Sorrido, ripensando alla sua vita, al suo incidente sul lavoro che, nel 1908 come oggi, gli ha portato via la gamba; alla sua ferrea volontà di essere in tutto e per tutto uguale agli altri, la bicicletta che lo ha portato in giro per il mondo, fino allo scoppio della guerra, la Grande Guerra.
«Il mio ardore di patriota non poteva tollerare che Trento e Trieste fossero ancora in mano agli austriaci, per questo ho fatto di tutto per arruolarmi. Ho interceduto presso il duca d'Aosta, pur di partire per il fronte.»
«E una volta lì?»
Lo vedo esitare un attimo, si gratta la nuca e sorride, con quel suo sfavillante ottimismo che lo ha sempre contraddistinto.
«Be', il fronte non era certo rose e fiori. Facevo la spola tra i feriti, portando conforto, posta e tutto l'aiuto possibile. Ma ero comunque un infiltrato.» confessa.
«Un infiltrato?» ripeto sconcertata.
«Che vuoi… La mia unica gamba non mi permetteva di venire arruolato; tuttavia io sono partito lo stesso, con una divisa senza mostrine né stellette, ma con tanta voglia di dimostrare il mio orgoglio di essere italiano.»
«Sei stato a lungo a Cervignano, vero?»
«Sì. Mi trovavo bene, anche se a volte incappavo nei soldati che provenivano dal fronte e non comprendevano il mio entusiasmo. Certo,» aggiunge alzando le spalle, «immaginavo gli orrori delle trincee, eppure per me partecipare alla guerra significava coronare il sogno dei nostri padri che erano riusciti a unificare l'Italia, significava legittimare Porta Pia e dimostrare che i loro sforzi non erano stati vani.»
Tutto il suo volto, dagli occhi alla bocca, splende di luce propria mentre parla e un groppo mi chiude la gola all'improvviso. Quest'uomo era animato da ideali puri, scevri di politica e di retorica, spinto solo dall'entusiasmo e dall'orgoglio di essere italiano e domando:
«Quanto ha contato per te essere romano?»
«Tantissimo. Ero il figlio dell'ultima roccaforte papalina, quella che si ostinava a mantenersi indipendente e che non ci pensava minimamente a riconoscere i Savoia come sovrani legittimi. A Roma si respirava aria strana quando sono nato, appena dodici anni dopo la presa di Porta Pia: da una parte l'atavico attaccamento al papa, dall'altro il nuovo legame al re. Ma noi romani siamo gente strana, ci adattiamo a tutto. Sono fiero e orgoglioso di essere romano ed è stata questa consapevolezza a spingermi fino alle trincee: dimostrare il valore di un trasteverino.»
«Alla fine sei riuscito a farti arruolare.»
[toti1] «Sì! Finalmente, nel 1916, mi presero nel Terzo Ciclisti Bersaglieri, la Brigata Pinerolo. Da quel momento in poi potei stare con i miei compagni in trincea e, sebbene non mi fosse stato concesso di partecipare attivamente agli scontri, rimanevo sempre con i miei commilitoni, e spesso leggevo loro il giornale, le lettere, perché… Be', coloro che studiavano all'epoca erano pochissimi, io sono stato fortunato a fare le elementari e non ero ignorante. Ho persino scritto su un giornale. E loro mi chiedevano di leggergli le lettere, di scriverle ed io facevo quanto possibile per mantenere alto il morale. Spesso mi avventuravo nella terra di nessuno e loro mi rimproveravano, dicendomi che era pericoloso, ma io non temevo la morte.»
«Eri un po' spericolato, ammettilo.» sorrido.
Annuisce e inspira a fondo l'aria fredda.
Provo a immaginarlo quando, deciso l'attacco di quel 6 agosto a quota 85, si getta con i suoi compagni contro le trincee nemiche, sorretto dalla gruccia che lo accompagnava sempre, mentre incita i compagni a squarciagola. Provo a immaginarlo mentre si siede sul muretto della trincea e spara con il fucile a ridosso degli austriaci, animato dall'entusiasmo e sorretto da un ideale più grande di lui, mentre dalla sua bocca escono continuamente esortazioni ai suoi commilitoni.
Come per magia, sento gli spari nemici che lo colpiscono, li sento come se mi rimbombassero nelle orecchie e per un attimo il cuore mi si ferma, come colpito a morte. Sgrano gli occhi e davanti a me non c'è più la neve, non c'è più la funivia, bensì solo buche enormi, fili spinati, trincee, feriti, morti.
Apro la bocca per urlare, ma il grido mi muore in gola, alla stessa maniera in cui i soldati vengono falciati dalle mitragliatrici. Non so dove questi uomini prendono il coraggio a due mani e si gettano a capofitto verso la morte sicura: io questo coraggio non l'avrò mai.
Poi lo vedo, lui, irritato per essere stato colpito, afferrare la sua gruccia in un ultimo disperato tentativo per scagliarla contro il nemico, in un gesto che più eloquente non potrebbe essere. Lo vedo accasciarsi, sussurrare le sue famose parole:
"Tanto nun moro io", baciare il piumetto del suo cappello e restituire la sua dolce anima a Dio.
Mi rendo conto che i miei occhi sono pieni di lacrime e deglutisco più volte per non scoppiare a piangere.
«Aho, ma che ti metti a piangere?» esclama incredulo.
Scuoto la testa senza riuscire ancora a parlare. Mi accorgo che la neve è tornata a dominare con il suo candore, manto purificatore sulle follie umane e inspiro a fondo.
«La medaglia d'oro te la sei più che meritata.»
«Avrà consolato mia madre e mia sorella. A me è sufficiente sapere e sperare che gli italiani di oggi amino ancora l'Italia come l'abbiamo amata noi.»
«Questo… Questo non lo so.» ammetto e mi vergogno come una ladra.
Lo vedo sorridere e sposta la gruccia per posizionarla meglio.
«Io credo… Io sono sicuro che i miei romani, quando passano davanti al mio monumento al Pincio, non possano far altro che condividere i miei stessi ideali. Se così non fosse,» aggiunge tristemente, «allora il sacrificio di tante generazioni è stato vano.»
«Non il tuo.» mi appresto ad affermare. «Noi romani non potremmo mai dimenticare. Mai.»
Mi fissa a lungo, quindi volge lo sguardo ai turisti austriaci, il pensiero perso in un ricordo lontano e un attimo dopo lo vedo annuire, prima di svanire confondendosi con la neve.
Rimango immobile, infagottata come un pinguino e di getto porto la mano al cuore, mentre nella mente mi torna un ritornello che oggi non dice più nulla, ma che era caro ai nostri soldati:
"Il Piave mormorò: non passa lo straniero!"