Ezio Flavio
(Durostoro, Mesia, 390 ca. ‐ Roma, 454)
[Ezio] È incredibile quanto sia vivo il sottobosco di notte. Si odono creature notturne che comunicano tra loro cinguettando, sibilando, ululando ed io quasi impallidisco dinanzi a queste spettrali presenze di cui odo solo il rumore. L'oscurità domina e tutti noi sappiamo quanto il buio faccia paura, quanto faccia credere che un semplice strisciare sopra le foglie possa essere qualcosa di diverso e mostruoso dal semplice e quanto mai naturale strisciare di un serpente.
Mi muovo con cautela, allungando le braccia in avanti come un cieco e quando inciampo su una radice nodosa, una mano forte, dura e callosa, mi sorregge per evitare di farmi fare un ruzzolone. Sto per gridare di paura, lasciando sfogare la tensione accumulata, quando odo una voce sentenziare:
«Stai attenta, figliola. Il sottobosco nasconde sempre minacce.»
Mi giro e lo vedo, con indosso una tunica romana, una candela nella mano libera e il tenue chiarore che illumina il suo volto duro, gli occhi perspicaci e attenti.
«Ma tu sei…» balbetto incredula, mentre lui mi lascia il braccio e si osserva intorno.
«Sì, sono proprio io, Ezio, uno dei grandi della corte di Ravenna.»
«Ezio! Il generale Ezio che ha sconfitto Attila?»
«Quello e altro.» inizia facendo un mezzo inchino di presentazione.
Rimango piacevolmente sorpresa dalle buone maniere di quel rude soldato romano, che di romano, poi, non ha nulla. Ma suo padre, un barbaro Goto, era diventato generale dell'impero romano e lui, da bravo figliolo, ne aveva seguito le orme.
«Devo riconoscere,» ammette con tono mesto, «che essere stato ostaggio per tre anni del Visigoto Alarico e poi degli Unni di re Rua, mi ha fatto crescere in fretta. All'epoca era la prassi normale quando si stipulava un patto.» aggiunge con noncuranza.
«Quanti anni avevi?» domando incuriosita, mentre mi risistemo la manica della maglia che lui aveva involontariamente tirato per non farmi cadere.
Ci pensa un po' grattandosi il mento, rendendosi conto che era arduo tornare indietro con la mente a tanti secoli prima, quindi risponde:
«Circa quindici. Ma se consideri che di origini sono barbaro anch'io…»
«Deve essere stata un'esperienza difficile.»
«Difficile?» sogghigna con tono insinuante. «Tu non ne puoi avere idea. Io giungevo da un paese civilizzato, da un luogo che aveva fatto la Storia e mi sono ritrovato in un mondo dove un australopiteco avrebbe storto il naso.»
Sorrido condividendo il suo estremo paragone e suggerisco:
«Quell'esperienza ti ha però aiutato in seguito.»
«Eh, sì.» confessa. «Quando mi sono scontrato con i Visigoti in Gallia, conoscevo fin troppo bene i modi di fare di quei barbari, tanto da sopraffarli.»
«Soprattutto gli Unni.»
Si guarda intorno, sempre all'erta, girando la candela per vedere meglio, quindi mi si avvicina e mi sussurra all'orecchio:
«Qui lo dico e qui lo nego: i romani erano ottimi soldati, eppure i barbari erano una vera forza della natura. Loro la battaglia ce l'avevano nel sangue. Erano un popolo di guerrieri, uomini e donne, vecchi e bambini. Nulla a che vedere con la nostra civiltà.» aggiunge con un gesto secco della mano.
Annuisco, concordando con lui e un sorriso gli piega le labbra, compiacendosi che riuscissi a comprendere la sua posizione.
«Tu, però, hai fatto sì che l'altro tuo alter ego, il generale Bonifacio, risultasse un traditore di Roma agli occhi di Galla Placidia.»
Si scurisce in volto e mi fissa a lungo, prima di annuire.
«Sì. Ma all'epoca non ci si scandalizzava di simili comportamenti. La moralità era opinabile.»
«Però dichiarando Bonifacio nemico di Roma, questi è stato costretto a rivolgersi ai barbari.»
Annuisce e all'evanescente fuoco della candela vedo il suo volto incupire al ricordo.
«Si è unito a re Genserico e i Vandali da lui comandati non si sono di certo fatti pregare nell'invadere la penisola: in Italia sono giunti e non se ne sono più andati.»
Esito un attimo, quindi gli faccio notare:
«Le rivalità e i rancori che correvano tra te e Bonifacio, hanno praticamente scisso in due l'ultimo esercito romano, te ne sei mai reso conto? Tu da una parte, con le tue gelosie, lui dall'altra, fedele servitore ferito nell'orgoglio per un tuo raggiro.»
Mi fissa quasi con astio e mi trafigge con il suo sguardo feroce, incutendomi un rispettoso terrore.
«Tu parli di morale, tuttavia te l'ho già detto: all'epoca era opinabile. Ma, in fondo, se davvero vuoi capire, basterebbe solo che tu volgessi lo sguardo verso gli alti vertici e ti accorgeresti che la morale non esiste neppure ora.»
Sbatto le palpebre più volte e infine convengo con lui, commentando mesta:
«Allora i tempi non sono poi tanto mutati.»
«Brava! Lo vedi che, se ti ci metti, riesci a comprendere?» esclama dandomi una pacca sulla spalla.
Quel semplice gesto per poco mi manda gambe all'aria e la scapola mi rimane un po’ dolorante, eppure non gliene faccio una colpa: cosa possediamo noi del XXI secolo di forza muscolare rispetto ai nostri antenati? Nulla, solo un vago ricordo.
«In quell'occasione Bonifacio ti ha battuto, anche se il vincitore sei risultato tu.» riprendo.
«Be', che vuoi. Lui aveva vinto sul campo di battaglia, invero, però io l'ho sfidato a singolar tenzone e lì lui è caduto: ho vinto io.» si inorgoglisce.
«Così facendo, hai anticipato il medioevo e i suoi cavalieri.»
Lo vedo sorridere e un attimo dopo, con velocità fulminea, estrae il pugnale legato in vita per conficcarlo nel corpo di una grossa migale che si arrampica su un albero. Inorridisco e un brivido mi corre lungo la schiena, facendomi drizzare tutti i peli: cosa posso farci se sono aracnofobica? Deglutisco e chiudo un attimo gli occhi, quindi mi concentro di nuovo su Ezio.
«Tu e Bonifacio eravate i soli due grandi generali di Roma che avrebbero potuto salvare l'impero.»
Aggrotta le sopracciglia e annuisce pensieroso.
«Sì, è vero. Ma che vuoi farci?»
«I Campi Catalaunici, dunque, devono essere un bel ricordo.» commento.
Lo vedo illuminarsi in volto, quel volto duro da soldato tutto d'un pezzo e gli occhi vispi si accendono come due stelle.
«Ci puoi giurare, figliola!» esclama gonfiando il petto. «Ah, che battaglia! Ricordo la sicurezza di Attila, lui, così fiero e altero dei suoi Unni selvaggi e crudeli, e noi, soldati disciplinati pronti a bloccare la barbara avanzata come un muro. Teodorico, re dei Visigoti, che mi affiancava con il suo esercito, è caduto eroicamente. Ma tu,» mi accusa con cipiglio, «hai mai partecipato a una battaglia?»
Sgrano gli occhi scuotendo la testa orripilata e rispondo:
«Non mi è stato dato il piacere.»
Lui fa un gesto vago con la mano, come a voler scacciare una mosca fastidiosa e riprende:
«Attila era sicuro di vincere, di sopraffare i miei uomini, eppure alla fine Roma ha vinto.» conclude senza celare l'orgoglio.
Mi metto a ridere di cuore, cosicché lui si adombra di nuovo in volto, e gli faccio notare con eccessiva superficialità:
«Non dirlo troppo forte o i nostri tifosi penseranno che abbiamo vinto una partita di calcio contro una squadra chiamata "Attila"!»
Lo sento grugnire qualcosa di inintelligibile e la sua espressione furiosa mi fa tornare immediatamente seria.
«Rispetto,» sentenzia con tono e sguardo algido, «rispetto prima di tutto per chi ha donato la propria vita sui campi di battaglia. E su quel campo ne sono morti più di centomila.»
Chino mesta la testa, intimorita dalla sua autorità e bisbiglio:
[Ezio unni] «Perdonami, non era mia intenzione offendere.»
«Voi giovani moderni non siete sorretti da nessun ideale.» sibila con disprezzo.
«Forse no o forse sì.» insinuo. «Dipende dai punti di vista. Le cose, in questi ultimi secoli, sono notevolmente cambiate.»
«In peggio.» grugnisce da buon generale.
Scuoto la testa e gli faccio notare:
«La vittoria su Attila, oltre a consolidare la tua fama, ha attirato l'invidia di Valentiniano, l'imperatore d'occidente.»
Fa un gesto di stizza e digrigna i denti, mostrando tutto il rancore che porta.
«Quell'essere spregevole, quell'infante ed effeminato mezzo uomo, era geloso e invidioso della mia fama e della mia potenza!»
«Spregevole forse per te.» correggo.
«Certo! Mi ha ammazzato, con le sue mani, quel fedifrago! Se sua madre Galla Placidia fosse stata ancora viva, non sarebbe accaduto. È giunto dalla lontana Ravenna fino a Roma con la scusa delle nozze di mio figlio con sua figlia, ma in realtà con il solo scopo di eliminarmi! Se questo non lo giudichi spregevole…»
«Non spetta a me dare giudizi: io non sono Dio.»
Gonfia un'altra volta il petto, porta la candela davanti al mio viso e mi fissa a lungo, dall'alto verso il basso; quindi mi fa un cenno con la mano ed io osservo la quercia alle sue spalle, mentre lo sento insinuare con dolcezza:
«In un certo qual senso, per un periodo di tempo, io lo sono stato.»
Sulla quercia, all'improvviso, appare lui, ai tempi del suo massimo splendore, circondato da servi e schiavi, mentre se ne sta disteso su un triclinio, in compagnia di commensali goliardici che mangiano e bevono ascoltando i versi di un poeta. Quell'attimo di vita mi lascia a bocca aperta per la bellezza e la solarità e mi chiedo dove sia finito lo splendore della Roma imperiale.
Poi, all'improvviso, il buio torna ad avvolgermi e mi accorgo che Ezio sta per spegnere la candela e sparire per sempre dalla mia visuale. Vorrei trattenerlo, ma non so come e provo a chiedere:
«Hai fatto tanto per Roma: se ti fosse concesso, lo rifaresti?»
Mi fissa come se fossi impazzita, come se per lui la domanda non sussistesse e risponde:
«Aho, bella mia, siamo romani, no? E con questo ho detto tutto.»
E detto da lui, un barbaro, mi lascia ben sperare.