Federico II
(Jesi, 26 dicembre 1194 ‐ Castel Fiorentino di Puglia, 13 dicembre 1250)
Odo un bisbiglio lieve, un sussurro gentile che fluttua tra il sonno e il torpore e le mie orecchie registrano uno sbattere d'ali prima di svegliarmi in piena notte, certa di aver sognato. Mi porto seduta sul letto, sbadigliando. Eppure il sogno non se ne va, rimane lì, davanti al mio sguardo ancora preda dell'oblio di Morfeo, con un dolce sorriso sulle labbra e l'aria divertita. Sull'avambraccio porta uno splendido falco pellegrino, dagli occhi mobilissimi e attenti e dallo sguardo inquietante.
Rimango incantata dalla visione avvolta nella penombra della stanza, investita da un minuscolo fascio di luce proveniente da una fessura della serranda che le dona un tocco irreale. Mi stropiccio gli occhi per svegliarmi del tutto e lui, con un accenno di inchino, mi tranquillizza:
«Non temere, non voglio farti del male.»
Deglutisco non per lo spavento e rispondo fiduciosa:
«Lo so. Ti conosco bene, stupor mundi.»
A quelle parole le sue labbra si piegano in un sorriso compiaciuto, i suoi chiari occhi si illuminano e a quel punto l'inchino si accentua, rivelando il suo animo cavalleresco. Sento il rossore colorirmi le gote e accenno una spontanea riverenza.
«Federico II di Hohenstaufen del ducato di Svevia, figlio di Enrico VI e di Costanza d'Altavilla.» mormoro rapita.
«Sì, sono io, qui per rispondere a tutte le domande che vorrai farmi.»
Quasi stento a crederci che il grande Federico II di Svevia, nipote del Barbarossa, sia davanti a me, come un qualsiasi comune mortale. Ma lui non è un comune mortale. In lui si fondono per la prima volta due corone: quella del Sacro Romano Impero e quella del Regno di Sicilia.
Mio Dio, penso annichilita, mi trovo al cospetto di uno dei più grandi uomini della Storia prima dell'avvento di Napoleone! Il solo uomo nel quale scorra un miscuglio esplosivo di sangue: teutonico, normanno e italico.
Sento il mio cuore galoppare come un indemoniato e inspiro a fondo per mantenere la dovuta lucidità.
«Tu,» inizio timorosa e ossequiosa, «sei rimasto orfano all'età di quattro anni.»
«Sì, è vero. Mio padre morì quando ne avevo tre e mia madre l'anno dopo. Prima di dipartire, però, mi ha affidato a papa Innocenzo III dei Conti di Segni, il quale mi ha riconosciuto come re di Sicilia senza battere ciglio, infeudandomi dell'eredità materna. Per quanto concerneva l'altra corona, ha fatto di tutto pur di non riconoscermi come imperatore del Sacro Romano Impero.»
«All'età di quattro anni, sulla tua testa pendevano queste due grosse responsabilità. Ma perché negarti l'eredità paterna?»
Lo vedo accarezzare con dolcezza il piumaggio del bellissimo falco e risponde:
«È solo una questione geografica. Il papato, all'epoca, e per i secoli successivi, possedeva tutta l'Italia centrale. I Normanni, di cui mia madre era l'ultima discendente, possedevano dal napoletano in giù, il cosiddetto Regno di Sicilia. La Germania era al nord, il grande Sacro Romano Impero. Puoi benissimo immaginare che, se il papa mi avesse riconosciuto anche come imperatore, si sarebbe venuto a trovare in una morsa stritolatrice: il Regno al sud e l'Impero al nord. Era, praticamente, accerchiato.»
«Tuttavia alla fine l'hai spuntata tu.»
«Sì, a costo di enormi sacrifici e di continue lotte diplomatiche e non, contro il papato.»
«E contro il Carroccio.» aggiungo.
Lo vedo corrucciarsi e un'ombra gli sfiora il volto non bello bensì affascinante.
«Già, contro i lombardi che, come al tempo di mio nonno, hanno temuto, e non a torto, che volessi impossessarmi anche del nord Italia. Ma per unire il mio impero, non potevo fare altrimenti.»
«Il terribile Ezzelino III da Romano ti ha sostenuto in Lombardia, dov'era il suo feudo.»
«Era mio genero, avendo impalmato una delle mie figlie: non avrebbe potuto fare altrimenti.»
«So che ti sei sposato tre volte.»
«La mia prima moglie è stata Costanza d'Aragona ed è l'unica che mi sia rimasta nel cuore.»
Lo guardo per un lungo attimo, scettica e lui sorride, continuando:
[federico] «È vero, ho avuto anche molte concubine, la più amata delle quali è stata la contessa Bianca Lancia. È suo il mio figlio prediletto, Manfredi, l'unico che ho legittimato e che è divenuto re di Sicilia.»
«Hai avuto anche altri figli.»
«Una schiera, a dire il vero.» risponde ridendo. «Enrico, che avevo eletto a re di Germania, sono stato costretto ad accecarlo e imprigionarlo quando mi si è rivoltato contro. Enzo, che ho elevato a re di Sardegna, quello che più di tutti mi somigliava fisicamente. Corrado, divenuto re di Germania e poi imperatore alla mia morte e tanti altri che ho sparso per l'Italia.»
«Tu l'Italia l'hai amata molto.»
Un sorriso dolce gli sfiora le labbra e sbircia il profilo del falco appollaiato sul suo braccio, mentre il raggio di luce gli illumina il viso, rilucendo sulla corona ferrea che porta sulla testa.
«Moltissimo e, come tutti coloro che l'hanno amata, ne sono stato mal ricompensato. L'ho sempre preferita alla fredda Germania ed è per questo che, per tutta la vita, mi sono adoperato per portare il centro del potere in Sicilia e non nel gelido nord.»
«Nel frattempo, il papato, con i vari papi succedutisi, ti ha combattuto aspramente, giungendo ad accusarti di essere l'Anticristo.»
Si mette a ridere e con gesto stanco si porta seduto sul letto accanto a me. I suoi occhi chiari mi scrutano a lungo ed io mi sento come una formica dinanzi a un gigante. In realtà non è alto, ha una corporatura piuttosto tozza, però è gigantesco ciò che ha provato a fare per amore dell'Italia, lui, un teutonico e non un italiano.
«Ti parrà strano, ma io sono sempre stato un fedele cristiano, checché se ne dica. Ho perseguitato gli eretici e ho sempre avuto rispetto per Roma e ciò che di più sacro rappresentava.»
«Questo non ti ha evitato la scomunica.» gli ricordo.
Annuisce e da una sacca legata in vita tira fuori un pezzo di carne che porge al falco. Questi lo prende e lo inghiotte, con aria soddisfatta.
[200px‐Frederick_II_and_eagle] «Non solo una, ahimè. A parte le parentesi in cui la Chiesa è stata costretta a riprendermi in seno, ho in sostanza trascorso la vita da scomunicato. E ci sarei pure morto, se non fosse stato per il mio carissimo amico Berardo da Palermo, il quale mi ha sciolto dalla scomunica in punto di morte, andando contro la Chiesa.»
Sorrido con l'eccitazione di una bambina ed esclamo:
«Sempre scomunicato, come quando hai conquistato Gerusalemme!»
Lì scoppia a ridere al ricordo e si batte una mano sulla coscia, catturando l'attenzione del rapace.
«Sì, proprio così. Era da un po' che il papa mi spingeva alla crociata, cercando di farmi emulare mio nonno il Barbarossa e Riccardo Cuor di Leone. Io ho sempre nicchiato, rinviando sine die. Non avevo alcun interesse ad andare a impelagarmi in Terrasanta, poiché avevo già i miei grossi problemi a gestire un così vasto impero con italiani piuttosto indisciplinati. Ma alla fine ho chinato la testa ubbidiente e sono partito. E, senza colpo ferire, senza che nessuno ci rimettesse la vita, ho conquistato Gerusalemme solo con la mia benevolenza verso l'Islam. Lo stesso sultano Al Kamil mi ha donato le chiavi e mi sono incoronato re di quella bellissima città. Ovviamente il papa, Gregorio IX dei Conti di Segni, ha schiumato bile, perché tutto questo,» aggiunge con aria birichina, «l'ho fatto da scomunicato. Riesci a immaginare cosa significava? Al mio rientro in Italia, il papa si è dovuto mangiare il fegato e ingoiare il rospo e sciogliere la scomunica perché gli portavo le chiavi di Gerusalemme.»
«Sei riuscito in un'impresa dove nessuno è mai riuscito, addirittura senza neppure combattere.»
«La diplomazia.» commenta alzando l'indice. «Tutto ciò che ho fatto, l'ho fatto usando la diplomazia e non la spada, ovviamente dove era possibile.»
«Hai sempre avuto un animo gentile.» sospiro.
Lui mi fissa corrugando le sopracciglia e scuote la rossa testa.
«Amavo scrivere poesie e questo dono ho trasmesso ai miei figli. Ma, mentre gli altri usavano anche l'acciaio, Manfredi era il solo a somigliarmi nella preferenza della penna. Sai, è stato lui a suggerirmi di scrivere un trattato sulla caccia con il falcone, divenuto famoso in tutto il mondo e preso a modello nei secoli successivi.»
«Hai amato molto Manfredi.» commento.
«Come si poteva non amarlo? Era il figlio che la mia adorata Bianca mi aveva dato, era l'unico a essere gentile e cortese, l'unico a cui avrei affidato la mia vita e l'unico che, a dispetto del ruolo che ricopriva, si fidava degli uomini.»
«Una fiducia mal riposta.»
«Purtroppo. Ma questa è un'altra storia.» risponde ponendo termine alla parentesi.
«Grazie a questa tua sensibilità, hai fondato la scuola poetica siciliana, ponendo le basi alla futura lingua italiana.»
«La mia corte errabonda ridondava di uomini colti.»
«Ma anche di odalische e saraceni.» aggiungo.
«E allora? Amavo i fasti orientali, erano così diversi dal grigiore impostoci dalla Chiesa! E poi, i saraceni erano gli uomini più leali che abbia mai avuto.»
«Sei stato scomunicato anche per questo.»
Sorride e fa un gesto vago con la mano, dicendo:
«Non importa. L'oriente era un pozzo si sapienza in confronto a noi ed io preferivo interloquire con uomini colti anziché con stolti e bigotti.»
«Puoi spiegarmi questa lotta tra l'impero e il papato?»
«In due parole?» domanda sorpreso, inarcando le sopracciglia.
Comprendo la difficoltà e rispondo:
«Fai tu.»
Rimane a lungo pensieroso, quindi si gratta il mento con la mano libera e, con un sospiro, inizia:
«Noi originari di Weiblingen eravamo in contrapposizione ai duchi di Welfen. In Italia venivano chiamati ghibellini, da Weiblingen, i sostenitori dell'impero, e guelfi, da Welfen, i sostenitori del papato. Pertanto, quando ti capita di vedere un castello con i merli piatti, sappi che erano guelfi, mentre i merli a coda di rondine erano ghibellini.»
«Quindi, queste due parole che tanto fanno ammattire i nostri studenti, non sono altro che la trasposizione in italiano dei due ducati svevi di Weiblingen e Welfen?»
«Svevi eravamo solo noi, i Welfen erano originari della Baviera. Buffo, non trovi?»
«Eccome! Ma cos'è accaduto al tuo amico nonché segretario Pier delle Vigne per essere imprigionato?» chiedo cambiando discorso.
Lo vedo scurirsi in volto e i suoi occhi diventano due fessure sottili. A quanto pare, il ricordo gli fa ancora male e questo lo rende infinitamente umano.
«Tradimento. Io ho sempre spinto per l'onestà innanzitutto e ho cercato io in primis di essere sempre onesto. Piero, come ho mio malgrado scoperto, aveva rubato nelle casse del Regno e questo non l'ho potuto perdonare.»
«Ha preferito suicidarsi.»
«Sai, una volta le prigioni non erano come quelle di oggi. Oggi hai tutti gli agi, hai la possibilità di uscire, addirittura di diventare famoso se sei furbo. All'epoca, le prigioni erano terribili. Buchi nelle segrete, privi di luce, senza giaciglio, senza sedie: solo nuda roccia. E in un buco di due metri quadrati ci dovevi convivere con altri carcerati. Ovviamente non c'erano i servizi igienici, però i topi erano in abbondanza. Ti lascio immaginare per quale motivo il mio amico abbia optato per il suicidio.»
Rabbrividisco all'orrore e provo a immaginare un carcerato moderno tradotto in un simile posto. Sogghigno e penso che un piccolo assaggio non farebbe poi tanto male.
«La tua politica è sempre stata avversata dai papi, nonostante tu abbia cercato il bene dell'Italia.»
«Il mio potere non era ben visto, incuteva paura. Sai, è più facile comandare su un re bigotto che su uno aperto di mentalità. Sono giunto persino a circondare l'Urbe, minacciando il saccheggio, anche se non l'avrei mai fatto, perché Roma era il mio sogno. Ho sempre sperato di unire il Regno all'Impero e porvi come capitale la bellissima Roma.»
«A Roma sei stato incoronato re di Sicilia e in seguito imperatore.»
«Oh, sì. Roma, all'epoca, era ancora così bella, così spirituale e così unica nel suo genere che l'ho sempre portata nel cuore, benché i papi mi abbiano sempre tenuto distante.»
«Ti trovavi in Puglia quando sei morto.»
«Sì, le Puglie che ho tanto amato. Manfredi, il mio caro e dolce Manfredi, era con me e anche i miei vecchi amici.»
«Hai rimpianti?»
Ci pensa un po' e, chinando appena la testa coronata, risponde:
«Quello di non essere riuscito a far capire il mio amore per l'Italia. In questo, purtroppo, devo dire che Roma si è data la mazzata sui piedi.»
«Purtroppo. Un sovrano illuminato come te non lo avremmo avuto per altri secoli.» commento con tono amaro.
«Chissà, se le cose fossero andate diversamente…»
Esito un attimo, mio malgrado intimorita dinanzi a un uomo simile e mi accorgo che sta per svanire, per ricongiungersi a tutti coloro che sono vissuti prima di noi e d'istinto gli domando:
«Prima che te ne vada, posso darti un bacio?»
Sorride divertito ed è lui stesso, ormai evanescente, che si avvicina e mi posa un bacio sulla fronte. Chiudo gli occhi incantata, sapendo già che nessuno crederà mai che il grande Federico II di Svevia mi ha baciato e quando li riapro lui non c'è più.
Accanto al mio letto, però, è rimasta una bellissima piuma del colore delle castagne.