Fischiettare

‐ “Hai sentito, ieri sera, su Radio Montecarlo, quel motivo di Bellafonte?”
‐ “No, ah... forse... fammelo sentire un attimo. Come faceva…?”‐
E Barbera (tra compagni di liceo era d’obbligo il cognome), iniziava ad emettere suoni dalle sue labbra. Note che presto diventavano motivo da afferrare. Era una sua dote, in quella ricchezza di suoni che generavano musica. Un gioco di labbra, di lingua, di gote. Il suo volto dai biondi capelli si trasformava. Gli occhi accesi di azzurro, lampeggiavano. Non era da tutti. Io, ad esempio non ci sono mai riuscito; e ne ho passato di tempo davanti allo specchio in una ricerca affannosa. Ma solo soffi mi uscivano, suoni incoerenti. Il fischio non ci serve più, tranne che allo stadio, in qualche contestazione o galanteria da poco. Era la musica primordiale dell’uomo, spazzata via dai mille congegni elettronici dell’era moderna. I riproduttori erano da inventarsi ancora e il fischio regnava. Già in casa si poteva intuire l’umore di mio padre di prima mattina, intento a sbarbarsi con la gilette.  E nelle scale di casa, alle prime uscite, già si sentiva qualche accenno di motivo tra gli inquilini. Ogni padre aveva un suo fischio personale. Lo usava per chiamare dalla finestra il figlio, che stava giocando in strada. Era un ordine senza parole. Poi c’era il fischio del “sto arrivando”. Entrava come un'eco dalla finestra, al rientro dal lavoro.
– "C’è papà!" – e ti buttavi giù per le scale ad andargli tra le braccia.                                 
Il fischio era tabù per le femmine. Non le si addiceva. Hélene aveva diciassette anni ed era la mia prima cotta.
– "Sai fischiare, Lucio?"
Dovetti confessare la verità a malincuore.
– "Guarda, attento, te lo insegno..."
Mise due dita, sprofondate in bocca, sotto la lingua e ne uscì un fischio assordante, impetuoso, virile, da portuale genovese.
Una delusione incancellabile.