Gatto nero
In paese tutti si conoscevano e le voci giravano alla velocità della luce, come un passaparola: usciva un discorso, una frase d’effetto, persino una parola, dalle labbra della telecronista e arrivava all’orecchio della curiosità, accompagnata da un’incontinenza dal non rimanere zitta; e così iniziava il famoso passaparola ‐o detto in gergo “pettegolezzo”‐: da una cabina telefonica al bancone, successivamente da un tavolo all’altro, poi porta a porta, finestra a finestra, da persona a persona, da un pallone calciato fino all’isolato, finché non era circolata nell’intera zona. Ho sempre odiato il mio paese per questo, nessuno si sapeva tenere niente, persino i propri segreti diventavano oggetto di gossip: quando alla mia sorellina ‐Letizia‐ le venne il menarca, lo disse subito a mamma; lei era super felice della notizia, ma Letizia aveva paura di essere derisa dalle sue amiche, perché d’altronde era così piccola ancora, che ne potevano sapere loro; supplicò la mamma di non dirlo a nessuno, eppure, nemmeno a metà giornata, persino i muri lo sapevano. Ma d’altronde, vivere in piccoli paesi come il mio, ha anche degli aspetti positivi: la tranquillità, l’accoglienza, la solidarietà, caratteristiche che in una grande città, raramente trovi. La mamma mi diceva sempre: “Paolo tu te ne devi andare da qua, non c’è futuro per i giovani come voi”; molte volte, vi devo dire, ho pensato di farlo, ma non ero ancora pronto, ero solo un bambino di 9 anni, che voleva studiare, impegnarsi, divertirsi con gli amici; il futuro poteva aspettare, io intanto rimanevo nella mia fanciullezza e nella mia spensieratezza, a godere degli anni più belli della mia vita.
Crescendo, il tuo corpo cambia e anche la tua mentalità: diventi più maturo, ti senti più uomo, anche i tuoi interessi cambiano; ma anche ciò che ti circonda cambia, o almeno, ti accorgi di determinate cose, che da bambino non capivi o non vedevi coi tuoi occhi semi‐adulti.
I miei amici pensavano sempre alle ragazze: andavano all’uscita di scuola e cercavano di farsi notare, con qualche battuta o complimento; alcune ci cascavano e cedevano all’amore, altre li ridicolizzavano. A me, “avere la ragazza”, non è mai interessato: non è perché non credevo all’amore o perché non mi ritenevo all’altezza, semplicemente ero dell’idea, che prima o poi quel momento sarebbe arrivato, da solo, in un istante casuale della mia esistenza; io desideravo un amore come quello dei miei genitori, l’unico della loro vita, che è arrivato così dal nulla e ha stravolto tutto in un attimo; volevo qualcosa di concreto, serio, non qualche gemito improvviso e sfuggente che avrei successivamente ritrovato in altre donne; per me l’amore era qualcosa di importante, un fondamento principale della mia vita.
Quel giorno improvvisamente arrivò, ricordo ancora la prima volta che l’ho vista: era un sabato sera qualunque, ero al bar con amici a bere una birra con le loro “amiche” e provavo una forte noia, persino che stavo pensando di andarmene. Finché non si aprì la porta ed entrò lei: Elena, la ragazza più ricercata in paese; il suo viso chiaro coi suoi occhi chiari e i capelli scuri, ondulati e scompigliati ti davano l’idea del mare mosso, di come quando l’onda sbatte contro la scogliera e ti arriva qualche goccia d’acqua in faccia, a darti freschezza; il suo corpo snello ma allo stesso tempo con delle forme, stava bene con qualsiasi indumento, persino con una busta, sarebbe stata perfetta; si avvicinò al bancone e prese un martini, poi graziosamente si avvicinò al giradischi e mise una canzone da ballare; si iniziò a muovere seducentemente come se fosse da sola, come se nessuno la guardasse; non incrociava lo sguardo di nessuno, nemmeno il mio, che come un’idiota aspettavo uno sguardo ricambiato; uomini la fischiavano, uno cercò di avvicinarsi ma lei lo scansò con la mano; tutti la potevano guardare, ma nessuno la poteva sfiorare, perché era una donna libera, senza vincoli, nessuno la poteva fermare. D’altronde, avrebbe mai guardato uno come me?
Quella sera, sconfortato di aver trovato un’amore irraggiungibile, mi presi una sbronza e mentre tornavo a casa barcollando, mi sedetti su una panchina e mi presi una sigaretta dalla tasca, me l’accesi, mi sdraiai con la testa su per il cielo e iniziai a pensare: pensavo alla
mia vita, al mio futuro, al cosa mi potrebbe dare; pensavo a mia madre, a cosa pensasse di me che ancora non avevo portato una ragazza da presentare; pensavo ai miei amici, a quanto mi prendevano in giro sull’idea che avevo dell’amore, di quanto mi dicevano di divertirmi e basta con le donne, che ti “sciupano” ‐in italiano consumano‐ solamente; pensavo a quanto sono solo, che nessuna mi avrebbe mai colpito e convinto al massimo, perché sono alla perenne ricerca della perfezione, imitabile e immutabile, che esiste solo in un risultato concreto, non nell’astrattezza. Ma in fondo ero ancora giovane, era presto per pensare a questo.
Mentre cercavo di alzarmi, un gatto nero mi passa affianco velocemente e mi fa sbandare dallo spavento, quasi facendomi cadere, ma non cado, perché qualcuno mi aveva afferrato in tempo: era Elena, che anche lei tornava a casa; mi accennò un sorriso e mi disse: “Paolo dove vai in queste condizioni?! Stai un po’ con me, non puoi tornare così, tua madre sarà molto delusa!” con voce calma ma allo stesso tempo severa. In quel momento non capivo molto, ma la ascoltai e mi rimisi a sedere.
Rimanemmo in silenzio, un silenzio che valeva tante parole. Appoggiai la mia testa sulla sua spalla e lei mi accarezzava, come un bambino con la sua mamma: le sue mani così delicate e morbide non le scorderò mai, mentre sfioravano il mio viso, il mio collo e la mia nuca, per calmarmi dai miei pensieri. In qualche modo, lei aveva percepito i miei sentimenti e cercava in qualche modo di dimostrare che fossero ricambiati; ma rimaneva inerme, non si smuoveva in nessun passo; io la guardavo e lei aveva quello sguardo così bello, ma così vuoto; qualcosa non andava, me lo sentivo, ma in quel momento pensavo fosse stanchezza; il mio sguardo scese al suo piccolo seno e poi lo rialzai subito, aspettando che lei facesse qualcosa. Ma niente di niente, rimanemmo così per tutta la notte, finché io non mi ripresi.
Il giorno dopo, tutto contento del suo avvicinamento, mi alzai di un umore diverso, di un sapore gioioso, che non provavo da tanto. Scesi da casa, mi feci un giro in paese per ritrovarla, per chiedere se quello che fosse successo ieri significasse qualcosa, se era un suo modo poco spinto per dimostrarmi qualche interesse.
Ero così curioso ed emozionato, come un bambino a natale che sta per scartare i suoi regali di natale. Un suono di musica nuziale rimbombava in paese quel giorno e mi fece immaginare il giorno del mio matrimonio: magari di avere Elena al mio fianco, come moglie, insieme per sempre, fino alla
morte e dopo, nel bene e nel male, con qualche marmocchio che gira per casa, che mi chiama papà e mi chiede di insegnarli a giocare a calcio. Tante fantasie invadono la mia mente, tant’è che un sorriso spontaneo compare in viso.
Ma i miei compaesani, non sembravano così contenti quel giorno: c’era uno strano origliare, la catena del passaparola era in atto; non capivo cosa stesse succedendo, finché non vidi i due sposi uscire dalla cappella.
Un uomo, che non ero io, con Elena.
Il mio cuore si fece a pezzi, in mille frantumi, non me ne capacitavo, mi chiedevo come fosse possibile. Cercai di avere un contatto visivo, ma il suo era completamente assente, infelice. Una bella ragazza come lei, destinata ad un uomo più grande; si vociferava che la famiglia avesse un grande debito e che questo matrimonio l’avrebbe pagato a pieno del tutto. Se l’avessi saputo, mi sarei opposto, l’avrei presa per mano e saremmo scappati, ovunque, basta che sarebbe stata bene.
Ma lei ci teneva troppo alla famiglia, si sarebbe persino sparata per loro.
L’anno successivo mi trasferì in città, entrai in una delle università più ambiziose, per
proseguire il mio sogno di ingegnere. Pensai da quel momento in poi solo alla carriera, cosa più importante.
Girando per la città, c’era quell’aria vuota, introversa e fredda che in paese non percepivo, ma trovai le giuste amicizie con cui aprirmi e con cui creare atmosfere di calore. D’altronde non era così male la vita lì, pensai addirittura di trasferirmi.
Una sera tornando a casa, passai dalla via delle “signorine”: una via piena di ragazze e donne, che gelavano dal freddo, che persino sotto la pioggia, dovevano essere presenti; alcune avevano poco più di 15 anni, altre anche 40 anni, alcune neo‐mamme, più che vestite quasi nude; donne che desideravano essere solo un po’ più apprezzate, che nella vita sognavano di essere qualcuno, ma quello a cui potevano aspirare era qualche schiaffo a bocca aperta; davano il loro amore a tutti quei uomini che gli mancava, che volevano una bambolina a loro piacimento su cui potevano fare quello che volevano; alcune non reagivano, rimanevano impassibili; altre trattenevano le lacrime, mentre venivano molestate da qualche uomo sporco; altre li prendevano alla gola e se li portavano via; altre aspettavano il loro turno, il prossimo cliente, mentre contavano poche mazzate alla
mano. E io, rimasi inerme per un attimo a guardare la scena.
Un gatto nero passò per la via e si strusciò su di me, cercando un po’ d’affetto. Mi abbassai, lo accarezzai e, rialzando lo sguardo, notai una donna con un capello corto avvolto da una nuvola di fumo di sigaretta: aveva le gambe incrociate dal freddo e una pelliccia chiusa, alta fino al collo; si girò verso di me e mi fissò con quel suo sguardo vuoto e con un lieve sorriso accompagnato da un rossetto rosso. Mi bastò poco per poterla riconoscere: era Elena, una donna, che oramai, non era più libera.