Geni nel pallone
Giocava dietro, tutti lo chiamavano il Sei. Giocava davanti, fantasista, lo chiamavano tutti il Dieci. I loro genitori invece li avevano chiamati Edo e Leandro. Erano cresciuti insieme, dalle materne alle superiori come dai pulcini alla prima squadra, sempre in competizione tra loro, qualcuno li aveva anche ribattezzati i Sedici. Leandro tutto di un pezzo, pragmatico, istintivamente sempre alla ricerca del nocciolo della questione, lo rendeva più sicuro. Edo sembrava invece uno che, giunto alla festa sbagliata, si fa un paio di giri tanto per vedere come butta, e poi rimonta in macchina senza neppure tanta voglia di raggiungere quella giusta. La passione per il pallone sembrava l’unica cosa che li accomunasse. A scuola il Sei era più bravo a matematica, più bello ma a corto di ragazze. L’altro, bravo in italiano, era pieno di ragazzine affascinate da quella sua leggerezza che sembrava nascondere negli occhi una malinconia da predestinato, anche se ciò lo emarginava un poco dal gruppo degli amici dove Edo primeggiava con la sua esuberante personalità. A volte sembravano come due ciclisti in fuga che si danno il cambio a tirare, talvolta Edo influenzava Leandro in maniera decisiva assumendo le sembianze del leader, per poi poco dopo invertirsi i ruoli, dato che quello che stava dietro escogitava di tutto per tornare davanti. A un certo punto Leandro andò in fuga. Avrà avuto sedici anni scarsi quando ai primi di giugno montò su un treno con destinazione Barcellona, forte solo di un contatto con un ragazzo del quartiere di circa trenta anni trasferitosi da anni in Spagna. A metà settembre riscese dal treno un ragazzo che aveva conosciuto il mondo ed Edo cercava in tutti i modi di non frequentarlo per un certo senso di inadeguatezza. Recuperò in poco tempo il gap frequentando un gruppo di amici più grandi che lo rese anche più aggiornato sui locali che tiravano di più, fungendo così da guida nei confronti di Leandro che, sentendosi più cosmopolita, li snobbava un tantino. Fu grazie a questo gioco di squadra di stampo darwiniano che l’infanzia e l’adolescenza trascorsero ricche di esperienze e di continui stimoli. Queste caratteristiche si riscontravano anche nel modo di giocare e di vivere il pallone, dando ragione a chi favoleggia del calcio come scuola di vita. Il Sei, centrale difensivo e capitano di una squadra che mai avrebbe voluto vedere uscire sconfitta dal rettangolo di gioco, sentiva il calcio come una missione. La passione del Dieci invece era dedicata in maniera maniacale dall’attrezzo, il pallone. Spesso giungeva in anticipo all’allenamento per passare qualche minuto in compagnia solitaria della sfera amica, tradiva malcelata insofferenza nel vedere arrivare il primo compagno col quale, in base al bon ton calcistico, dover dividere la sua amata. Il Sei arrivava puntuale, si cambiava in fretta e subito iniziava a trotterellare per il campo, guardando in cagnesco il resto della truppa vociante e chiassosa come bambini ai giardini, sembrava quasi un bagnino al mare che rimette al loro posto gli ombrelloni mentre gli amici se la spassano ancora sulla spiaggia.
Indubbiamente erano i più forti, presto giunsero a giocare nella prima squadra che militava in Eccellenza. Furono stagioni esaltanti durante le quali da ragazzi qual’erano diventarono uomini. Il Dieci aprì un’agenzia immobiliare insieme ad un vecchio amico di scuola, gli affari andavano benone. Il Sei cambiava lavoro come si cambiava i calzini: rappresentante, educatore, magazziniere, commesso, impiegato ecc. senza mai riuscire un impiego nel quale fossero rispettate le regole. Le sue. A tale instabilità professionale si affiancava un preciso equilibrio familiare. Due bambine e una moglie conosciuta ad un distributore di benzina self service implorante aiuto perché incapace di inserire nel giusto lato la banconota. Un tipo particolare Sara, credeva nell’eticità e nel rispetto delle persone, delle cose e della natura, cose strane in questo mondo. Si innamorò subito di Leandro, anche perché era incredibilmente attratta dal lato oscuro delle persone, da quelle cose che mai ti saresti aspettato da qualcuno, per esempio il tipo palestrato che dopo cena frequenta un corso di cucina etrusca. Il Dieci invece passava da una relazione all’altra, quasi sempre con donne molto sicure di sé, spesso in carriera, che vedevano in lui la mezz’ora di ricreazione prima di rientrare nel loro vuoto relazionale.
Al calcio si gioca per passione ma anche per soldi, soprattutto per soldi. Il Dieci prima dell’inizio di una nuova stagione pretese un deciso aumento del rimborso spese. Il presidente, uomo tanto autoritario nell’aspetto ma bonario nell’anima, dopo averci pensato bene e consultati gli altri dirigenti, decise di soddisfare le richieste di quello che per lui era sempre il ragazzino di cui si era innamorato tanti anni fa nel vederlo dribblare avversari e portiere, depositare la palla in rete e tornare nella propria metà campo con l’aria di quello che aveva fatto la cosa più semplice del mondo. La cosa doveva rimanere segreta ma, non si sa perché, in determinati ambienti c’è sempre un gruppo ristretto, diciamo pure un’élite, che ne viene a conoscenza. Ovvio che il ne faceva parte anche il Sei. Ci pensò su una mezzoretta, durante la quale le mascelle sembravano due ascessi, infuriato per l’infrazione del patto del tetto salariale. Gli bastarono trenta secondi per comunicare al presidente, raggiunto nell’ufficio della sua azienda mentre stava trattando l’acquisto di carne brasiliana che avrebbe poi riciclato sul mercato come bresaola dop , che avrebbe lasciato la squadra. A nessuno passò per l’anticamera del cervello l’ipotesi che avrebbe potuto ripensarci. Il giorno successivo, mentre stava firmando l’accordo per la carne sudamericana, ricevette la visita di un altro giocatore, il Dieci, che comunicò la sua decisa intenzione di abbandonare la squadra, indignato perché, a suo dire, nessuno aveva mosso un dito per trattenere il Sei.
A quel punto i due ripresero a parlarsi dopo un momento di black out, uno dei tanti, dovuto ad una lite, una delle tanti, avvenuto durante il rinfresco di un matrimonio, uno dei tanti, nei quali i partecipanti, vestiti tutti uguali, sembrano essere sempre gli stessi, come gli spettatori di un talk‐show. Il Dieci, in preda ad un delirio d’onnipotenza causato dall’abuso d’alcool e droga, si definì un’artista del pallone a differenza del Sei che, a suo dire, ne era solo un umile operaio. Edo incassò in silenzio, tra risate sguaiate anche di chi rideva solo per ridere, si appostò in bagno in attesa che l’altro desse corpo al suo, e non solo suo, vizietto. In poche parole l’attaccò al muro. Riallacciarono i rapporti, come sempre, e decisero che sarebbero andati a giocare nella squadra amatoriale del quartiere allenata da Brunone, il loro vecchio maestro di calcio di quand’erano ragazzini. Sessanta anni circa, duro come il marmo e calvo come un palla da biliardo, Brunone li accolse con insofferenza. A suo dire al calcio si gioca per passione e non per soldi, non come quei due fenomeni che avevano da ridire anche se trovavano lo spogliatoio sporco. Ma sapeva bene che con loro si poteva puntare in alto, anche se all’inizio il rapporto non fu facile. Nell’intervallo della prima partita prima il Sei fece notare a Brunone che giocare in linea in quella categoria era come andare ad un concerto degli Iron Maiden in giacca e cravatta. A ruota il Dieci fece notare che se il terzino avversario spingeva troppo occorreva spostare l’ala più avanti e non più indietro come suggerito da Brunone. Quest’ultimo si sentì invaso nel proprio territorio, era come qualcuno che entra a casa tua senza bussare, si sdraia sul tuo divano con i piedi, cosa che te non fai mai, e mentre si scola la tua birra guarda alla tivù il tuo canale preferito, e magari si diverte pure un po’ con la tua signora. Il Sei e il Dieci il secondo tempo di quella partita lo videro sopra quei quattro tubi innocenti tenuti insieme da una sconosciuta legge fisica che tutti chiamavano la tribunetta.
Ci misero del tempo ad adattarsi alle regole del calcio amatoriale, un ambiente dove quello che era ritenuto giusto e valido in Eccellenza veniva deriso e spregiato, e viceversa. In effetti non è facile comprendere le dinamiche di quel tipo di calcio ben narrato da Ken Loach in “My name is Joe”. Grinta, cattiveria, lealtà, senso d’appartenenza, romanticismo, sacrificio e soprattutto tanta, troppa voglia di prendersi sul serio, sono aspetti che abbondano nel calcio amatoriale. In breve Edo e Leandro diventarono ovviamente imprescindibili in una squadra dura e compatta ma senza qualità, eccetto il portiere, un ragazzo calabrese emigrato per lavoro con un passato nelle giovanili del Cosenza, bravo tra i pali ma ancor di più con i piedi. Infatti quando aveva il pallone tra i piedi aspettava che il centravanti avversario arrivasse a cento all’ora con l’obbiettivo di soffiargli la palla, che lui, con un movimento talmente naturale da sembrare irrisorio, lo saltava e rilanciava. In tali frangenti a Brunone cadevano anche i capelli che non aveva, anche se ormai aveva accettato quelle stravaganze che a quel giovanotto venivano naturali come bere una birra al pub. Nel mezzo al campo giocava un trentenne dalla corporatura esile ma con tanta corsa e un raro senso della posizione chiamato da tutti il Perito, in onore al suo titolo di studio. La sua dedizione alla causa era totale, non si nascondeva mai nei momenti difficili del match, anzi, si esaltava ancora di più. Per il Perito il calcio era soprattutto una via d’uscita da una realtà anonima tipica di un ragazzo introverso e impacciato. Lo spogliatoio per lui era come la cabina del telefono per superman, arrivava al campo e si spogliava delle sue vesti modeste per indossare quelle del supereroe determinato a dare battaglia a tutte le mezze ali del pianeta. A buttare la palla in rete ci doveva pensare un ragazzo dell’est, forte di testa ma un po’ troppo lento nel breve. Cresciuto senza genitori era giunto in Italia in compagnia della sorella che si dedicava al più antico dei mestieri creando qualche imbarazzo di troppo nel fratello, come se la prostituzione di parti più nobili di una persona, tipo l’intelletto, non fosse cosa più triste e disdicevole. Il ragazzo era analfabeta e con grossi problemi nell’esprimersi, aveva una considerazione un po’ troppo primitiva delle donne, le considerava come quella cosa inutile intorno alla gnocca , ma in campo dispiegava una pura e limpida intelligenza calcistica da essere preso come esempio da tutti, in modo particolare dal suo compagno di reparto, ingegnere di una compagnia telefonica. E il ragazzo dell’est di palloni in rete ne buttava tanti nonostante i rifornimenti scarsi dalla sinistra e da destra dove agiva un rappresentante di biancheria intima, il classico giocatore che ai limiti tecnici sopperiva con la grinta e la fatica, ma che nel momento stesso in cui pensava di essere diventato all’altezza tornava lo scarso giocatore che era. E ciò gli capitava spesso provocando l’ira sconclusionata di Brunone orfano di alternative in quel ruolo.
Fu un ottimo campionato, la squadra si qualificò per le finali con le migliori dell'altro girone. Liquidata senza troppe fatiche nei quarti una squadra che prendeva il nome da una concessionaria Mercedes, tanto bellini con le loro divise fuori dal campo quanto morbidi dentro, l’ostacolo in semifinale era molto più duro, una squadra proveniente da un quartiere disagiato, una di quelle aree che le amministrazioni pensano di risollevare con due panchine e un marciapiedi, ma con l’unico risultato di farle assomigliare ad un’ascella sudata coperta dal deodorante. Si giocava in un’umida domenica mattina di primavera, una di quelle mattine in cui ti svegli con la nebbia anche sotto le coperte per poi svanire come d’incanto nel bel mezzo della mattinata. Mancava un’ ora all’inizio del match e Brunone e i suoi ragazzi erano già tutti dentro lo spogliatoio, eccetto il Dieci che la domenica mattina aveva sempre difficoltà ad essere puntuale. Giunse che la squadra era quasi pronta per andare ad effettuare il riscaldamento. Appena lui entrò, il Sei andò nello spazio bagno‐docce consapevole che il Dieci, una volta posata la borsa, vi si sarebbe rifugiato per evitare la marea di sguardi interrogativi e riprovevoli dei compagni. Il Sei lo guardò negli occhi e ci vide dentro una notte di alcool e droga ed un letto occupato solo dalla nebbia mattutina. Lo attaccò al muro schiumante di rabbia, il Dieci non aveva la forza di reagire, guardava per terra implorante perdono, questa volta aveva proprio pisciato fuori dal vaso. La partita fu veramente brutta, le due squadre timorose e inconcludenti, era ovvio che si sarebbe risolta ai rigori o su un episodio. Questo accadde a dieci minuti alla fine. Il Perito, dopo uno scambio col ragazzo dell’est, si involò verso la porta avversaria ma fu abbattuto dal loro libero al limite dell’area. Come sempre si presentarono sulla palla il Sei e il Dieci, uno calciava di potenza, l’altro di precisione. Il Dieci, fino ad allora inesistente e talmente fermo che se passavano gli operai della telecom gli mettevano i fili, prese subito la palla tra le mani e nello sguardo tirò fuori tutta la grinta e la determinazione sino ad allora assenti per respingere l’assalto alla palla del Sei, il quale desistette subito, perché lui quello sguardo lo conosceva fin troppo bene. Il portiere avversario, conscio delle doti balistiche del nostro, predispose una barriera massiccia e numerosa ma che gli impedì di veder partire la palla che, come telecomandata dal capitano di una navicella spaziale che sa di avere l’ultima possibilità da giocarsi per la sopravvivenza, si posò docile e domata nell’angolino basso alla sua sinistra. Il Dieci fu gettato a terra dagli abbracci dei compagni, tranne che dal Sei già tornato nella propria metà campo. La squadra avversaria si gettò con un discreto furore agonistico alla ricerca del pareggio, ma la squadra di Brunone si difese con ordine senza correre rischi. In pieno recupero, su una respinta da calcio d’angolo della difesa il mediano avversario provò il classico tiro della disperazione da venti metri fuori d’area. La palla passò tra una selva di gambe lenta e innocua ma incocciò nello stinco secco e spigoloso del Perito terminando la sua corsa tra i piedi dello stopper avversario posizionato all’altezza circa del dischetto del calcio di rigore. Ognuno nella vita ha un ruolo e un destino. Paperino non vincerà mai alla lotteria, Wile Coyote non raggiungerà mai Beep Beep. Quel difensore roccioso e scoordinato era fuori ruolo, quella palla non era il suo destino. Esitò quell’attimo fatale in più, quasi incredulo, che permise al Sei, con uno di quei recuperi prodigiosi in scivolata, di impattare il pallone con la punta del suo piede destro e sventare il pericolo. Nello spogliatoio qualche abbraccio e niente di più, con un pensiero unico fisso, nemmeno fossero stati nella vecchia URSS: la finale, la quale fu giocata in notturna, un giovedì sera di una primavera senza tante pretese. I nostri arrivarono con un buon anticipo sull’orario stabilito, presero possesso dello spogliatoio loro assegnato che al primo impatto, come sempre accade, comunicava ostilità e freddezza. Solo il diffondersi successivo dell’odore dell’olio di canfora rendeva l’ambiente amico, e complice di mille riti e consuetudini che ogni calciatore, anche inconsciamente, compie prima di scendere in campo. Gli avversari erano forti ma non imbattibili. Per l’occasione Brunone aveva ritirata fuori quella lavagna magnetica che aveva acquistato anni fa quando guidava gli allievi regionali, ma ben presto abiurata in quanto, a suo dire, espressione di una incontrollata degenerazione modernista del movimento calcistico. Che si stia per giocare una finale lo si capisce non dal cartellone appeso fuori, ma da quel silenzio monotematico dello spogliatoio, intervallato solo dal rumore dei tacchetti delle scarpe che ti ricordano quello per cui sei venuto sin qua. Quando si gioca una finale anche chi parte dalla panchina mette da una parte tutta la delusione e si stringe intorno agli undici che giocano. Siamo una squadra, si vince o si perde tutti insieme. Chi non si comporta così è un infame, che oltretutto ha sbagliato sport. Una finale la si gioca una volta sul campo, ma ogni giocatore se la gioca nella propria testa cento volte prima e se la rigioca cento volte dopo. Se ne sei uscito vincitore il ripensarci ti farà stare così bene come quando da piccolo ti facevi coccolare dalla mamma, ma se sei uscito con la coda tra le gambe il pensiero ti rincorrerà ovunque infliggendoti un infame stilettata al cuore. La partita fu bella e avvincente, anche se avara di conclusioni. Anche in questo caso era chiaro che sarebbero stati decisivi gli episodi. Poco dopo l’inizio della ripresa il Dieci, sfruttando un astuto movimento del ragazzo dell’est che si portò dietro due difensori, si trovò solo davanti al portiere avversario. Attimi, che poi ti raccontano di una vita, in cui sei te solo davanti ad un buffo individuo vestito dai colori impossibili. Una finta per mandare il suo baricentro fuori asse e il pallone poi dall’altra parte, era sempre stato così per il Dieci. Anche stavolta, con la sua solita sicurezza e semplicità di quando i pantaloncini gli arrivavano a coprire le ginocchia. Ma il palo disse no. E quando un dieci sbaglia un gol così ogni squadra di questo mondo si sente più vulnerabile e meno invincibile. Brunone lo sapeva bene e cominciò a sostenere i ragazzi come mai aveva fatto. La squadra tenne bene, non accusò più di tanto il colpo, ma, quando ormai i supplementari erano quasi realtà, su un lancione della difesa avversaria il Sei sbagliò clamorosamente il tempo dell’intervento dando modo alla punta avversaria di presentarsi solo davanti al portiere e di batterlo con potente e preciso collo sinistro. Manca sempre qualcosa nella vita e il bello delle storie è che c’è sempre dentro tutto quello che deve esserci. Una finale persa sembra solo una storia narrata da uno scrittore a cui improvvisamente è venuto un mal di testa. Quando perdi una finale al rientro nello spogliatoio ritrovi lo stesso silenzio di quando ne sei uscito. Quando perdi una finale c’è chi non ne vuole più sapere del calcio e chi invece non vede l’ora di ripartire a settembre. Una cosa è certa, una finale rappresenta una rottura temporale, un punto di non ritorno, ci sarà sempre un prima e un dopo, come quando termina una storia d’amore, e tutto nella tua testa lo assumerà come punto di riferimento. Terminata la partita, fatta la doccia, spenti i riflettori, il tuo stato d’animo è come quando sei in coda al check in di ritorno dalle vacanze. Nello spogliatoio il Sei e il Dieci si accusarono reciprocamente per la sconfitta subita. Giunsero alle mani, ma stavolta nessuno intervenne a separarli. Non si parlarono per settimane.
La sera stessa il Sei comunicò a Brunone che avrebbe chiuso con il calcio. La mattina dopo ricevette un sms dal Dieci che lo avvertiva della medesima decisione.
Questi due ragazzi non saranno ricordati dal calcio come i gemelli del gol, ma semplicemente come gemelli, in quanto figli della stessa mamma.